
Marianne Moore Undated photograph of (left to right) unknown man, Monroe Wheeler, Ann Laughlin, Gertrude Vanderbilt Whitney, Marianne Moore, and James Laughlin at Shea
(da “Panorama”, 23 giugno 1991)
Marianne Moore
Che cosa sono gli anni
Che cos’è la nostra innocenza,
che cosa la nostra colpa? Tutti
sono nudi, nessuno è salvo. E donde
viene il coraggio: la domanda senza risposta,
l’intrepido dubbio, –
che chiama senza voce, ascolta senza udire –
che nell’avversità, perfino nella morte,
ad altri dà coraggio
e nella sua sconfitta sprona
l’anima a farsi forte? Vede
profondo ed è contento chi
accede alla mortalità
e nella sua prigionia ti leva
sopra se stesso, come
fa il mare dentro una voragine,
che combatte per essere libero
e benché respinto
trova nella sua resa
la sua sopravvivenza.
Così colui che sente fortemente
si comporta. L’uccello stesso,
che è cresciuto cantando, tempra
la sua forma e la innalza. È prigioniero,
ma il suo cantare vigoroso dice:
misera cosa è la soddisfazione,
e come pura e nobile è la gioia.
Questo è mortalità,
questo è eternità.
da Le poesie, a cura di Lina Angioletti e Gilberto Forti, Adelphi, 1991
Perché nelle poesie di Marianne Moore si parla tanto di animali? Perché l’autore si ostina a descrivere il loro corpo, come sono fatti, come si muovono? Perché decifra e trascrive il messaggio muto che viene emesso dal loro modo di essere? Marianne Moore ha una convinzione (o possiamo chiamarla fede?): che nella forma fisica, nel corpo animale, che è «stile di vita» e modo di essere dettato dalla Natura (o da Dio), sia depositata una saggezza, un senso della realtà immediata e cosmica che noi non possediamo o che in noi è labile. Quando Marianne Moore si sprofonda nella contemplazione di un animale, tutte le sue facoltà più forti e più sottili si risvegliano, si animano. Le sue frasi e i suoi versi (versi molto prossimi alla prosa), tutto il suo linguaggio virtuale, assopito nei depositi della memoria, entra con trionfale destrezza nel cerchio di luce dell’esistere. E le sue poesie si allungano e si contraggono come forme viventi.
Anche quando deve dichiarare le proprie idee sulla poesia, ecco che Marianne Moore pensa a un animale. Per esempio a una lumaca lodata in un breve componimento per la sua capacità di contrarsi, di ridurre con sagace modestia le proprie dimensioni: il che è fondamentale per uno scrittore, se è vero che «la concisione è la prima grazia dello stile». Senso della misura e rispetto del limite, perché niente di vivo e di reale può accedere all’esistenza e può essere percepito se non dentro quel preciso limite di spazio che lo accoglie e che è suo: la poesia non è altro che questo. E in questo il suo valore è elementare, sfida ogni dichiarazione di ostilità e disinteresse. In un prezioso epigramma di morale poetica intitolato Poesia, leggiamo: «Neanche a me piace. – A leggerla, però, con totale disprezzo, vi si scopre, – dopo tutto, uno spazio per l’autentico». La poesia nasce piuttosto da un non crederci che da una fede a priori.
È alla vita della mente, alla sua cura, che Marianne Moore prima di ogni altra cosa si interessa. Il linguaggio della poesia è vita della mente, è esercizio e igiene della mente che si protende verso il mondo, verso la vita esterna, la sua varietà piena di meraviglia. Per questo il linguaggio della poesia di Marianne Moore è dotato di una forza così sobria, è animato da una così fisica moralità, la moralità delle bestie, che vivono elaborando e perfezionando con eroica perseveranza e intelligenza la forma corporea migliore per essere quello che sono. La forma delle poesie di Marianne Moore è anch’essa colma di arguzia e di vitalità: sovrappone l’attitudine descrittiva e la riflessione, fonde il vedere e il ricordare, la ricerca di una verità enunciabile in stile aforistico e il gusto del puro esercizio dei sensi. Ogni verità, prima di essere pensabile deve essere visibile. È dalla visione attenta, dalla descrizione precisa che si sviluppa un pensiero integro. E questa integrità non è altro che la nuda onestà dei corpi, il loro essere mortali. Accedere all’eternità, come viene detto in questa poesia, è accedere alla mortalità. Innocenza, colpa, coraggio hanno senso solo nella lotta con il limite e nell’accettazione del limite. La sconfitta «sprona l’anima a farsi forte», arrendersi è saper sopravvivere. Questo è l’eroismo della forza che sa levarsi sopra se stessa: come quella dell’uccello, che ha bisogno della più abile e tenace energia per cantare e vedere.
Marianne Moore (Kirkwood, Missouri 1887 – New York 1972) fu molto legata alla madre, abbandonata dal padre malato di nervi. Bibliotecaria, collaborò a riviste. Tradusse le Favole di La Fontaine. Pubblicata in Italia da [Guanda, Rusconi, poi] Adelphi e Rizzoli (Unicorni di mare e di terra). [prima Rizzoli, poi Adelphi]
I pesci
A guado,
vanno per nera giada.
dei mitili blu-corvo, uno continua
a rasettare i cumuli di cenere;
e si apre e si chiude come fosse
un
ventaglio ferito.
I cirripedi che incrostano il fianco
dell’onda non possono nascondersi
laggiù gli strali sommersi del
sole,
franti come vetro
folato, si muovono con la rapidità di riflettori
giù nei crepacci,
dentro e fuori, illuminando
il
mare turchese
di corpi. L’ACQUA sospinge
un cuneo di ferro entro lo spigolo ferrigno
dello scoglio; sopra il quale le stelle,
rosei
chicchi di riso, meduse
imbrattate d’inchiostro, granchi simili a verdi
gigli,e velenosi funghi
sottomarini scivolano dondolando uno sull’altro.
TUTTI
i segni
esterni dell’oltraggio sono presenti in questo
temerario edificio-
tutti gli aspetti fisici dell’accidente-mancanza
di cornice, solchi di dinamite, bruciature
e colpi d’ascia, queste cose spiccano
sulla sua superficie; la parete del baratro
è morta
RIPETUTE
prove hanno dimostrato che lo scoglio può vivere
di ciò che non potrà resuscitare
la sua giovinezza.
E DENTRO AD ESSO SI FA VECCHIO IL MARE.
A una lumaca
“Se la concentrazione è il primo dono dello stile,
tu la possiedi. La contrattilità è una virtù,
così come modestia è una virtù.
Non già l’acquisizione di una cosa qualsiasi
capace di adornare,
o la qualità incidentale che per avventura
si accompagni a qualcosa di ben detto,
non questo apprezziamo nello stile,
ma il principio nascosto:
nell’assenza di piedi, un metodo di conclusioni;
una conoscenza di princìpi,
nel curioso fenomeno della tua antenna occipitale”.
Dopo, ti senti un genio. Ti senti felice.
Nei giorni del colore prismatico
non nei giorni di Adamo ed Eva, ma quando Adamo
era ancora solo; quando il fumo non c’era, e il colore
era bello, non per l’affinamento
di un’arte primitiva, ma per la sua stessa
originalità; e nulla c’era a modificarlo se non la
nebbia che saliva, e l’obliquo era una variante
del perpendicolare, semplice a vedersi e
a spiegarsi: non è
più così; né la fascia blu-rosso-gialla
di incandescenza che era il colore ha serbato il suo schema: è
anch’essa una
di quelle cose in cui si può immettere e scoprire molto di
peculiare;
la complessità non è un delitto, ma se la portate
fino alla soglia dell’oscurità,
più nulla sarà semplice. La complessità,
poi, che sia stata affidata alle tenebre, invece
di dichiararsi per quella peste che è in realtà, si agita intorno
come per confonderci con la tetra
illusione che l’insistenza
è la misura di ogni risultato e che ogni
verità dev’essere caligine. Gutturale com’è principalmente
la sofisticazione è quel che è sem-
pre stata – agli antipodi delle iniz-
iali grandi verità. “Parte strisciava, parte
si accingeva a strisciare, il resto
stava torpido nella tana”. Nel procedere lento, sussul-
tante, nel gorgogliare e in tutte le minuzie – noi abbiamo la
classica moltitudine di piedi. A quale scopo! La verità non è l’Apollo
del Belvedere, non è cosa formale. L’onda potrà
sommergerla, se vuole.
Sappi però che ci sarà se dice:
“Ci sarò quando l’onda se n’è andata”.
In questa età di aspra ambizione giova la noncuranza e
“in verità, non è
affare degli dèi cuocere vasi d’argilla”. Non lo fecero
in questa circostanza. Alcuni
rotarono sull’asse del proprio valore,
come se l’eccessiva popolarità potesse essere un vaso;
non si avventurarono
in una professione di umiltà. Il cuneo levigato
che poteva spaccare il firmamento
era ammutolito. Infine si buttò via da se stesso
e ricadendo conferì ad un povero sciocco un privilegio.
“Superiore in altezza a tutti gli altri
di quanto può esser lunga una conversazione
di cinquecento anni”, ci fu uno che raccontava cose
che non avrebbero potuto mai essere vere –
ed erano migliori le sue storie di tutta l’insocievole, senile
filastrocca che parla di certezza;
il suo recitare in sordina era più tremendo, nella sua
efficacia,
del più feroce assalto a viso aperto.
Il bastone, la sacca, la finta incoerenza
dei modi sono i segni che rivelano quell’arma, la
salvaguardia di se stessi.
All’arte di governo imbalsamata
Non c’è nulla da dire in tuo favore. Difendi
il tuo segreto. Tienilo nascosto sotto la dura
scorza di piume, negromante.
O uccello, le cui tende sono state “grandi teli di canapa
egiziana”, la pallida iscrizione zigzagante della Giustizia –
reclina come una danzatrice – potrà mostrare mai
il polso della sua sovranità, un tempo così vivida?
Tu neghi, e trasmigrando fuori dal sarcofago
intessi un silenzio di neve intorno a noi,
e con il tuo linguaggio moribondo,
zoppo a metà e a metà altero,
incedi qua e là. Ibis, noi non troviamo più
alcuna traccia di virtù in te – vivo ma così muto.
La discrezione ora non è la somma
del buon senso che onora lo statista.
E se fosse l’incarnazione di una grazia morta?
Come se una maschera mortuaria potesse sostituire
l’imperfetta eccellenza della vita!
Lento
a scoprire la dimensione ripida e severa
del tuo trono, tu vedrai la forzata distorsione
dei sogni suicidi
andare
vacillando verso se stessa e con il suo becco
aggredire la sua stessa natura, fino a quando
sembri amico il nemico e l’amico sembri
nemico.
L’argonauta
Forse per i potenti che affidano
le speranze a mani mercenarie?
O per scrittori presi nella trappola
della gloria mondana e degli agi
del fine-settimana? Non per costoro
l’argonauta femmina
fabbrica il suo sottile guscio vitreo.
Offrendo il suo precario
souvenir di speranza, una superficie
bianco-opaca all’esterno
e di contorni morbidi all’interno,
lucente come il mare, la prudente
artefice lo veglia
giorno e notte; e mangia appena
finché le uova non siano schiuse.
Otto volte sepolta nelle sue
otto braccia, poiché in un certo senso
è anche lei una piovra,
la teca vitrea e cornea della culla
è ben nascosta, ma non stritolata;
se Ercole, addentato
da un granchio fedele all’Idra,
si vide impedito nell’impresa,
le uova vigilate
intensamente, nell’uscire dal guscio,
lo liberano quando sono esse stesse liberate –
nel lasciare le rughe di quel favo,
bianco su bianco, e le fitte pieghe –
simili a quelle di un chitone ionico,
o alle righe nella criniera
di un cavallo del Partenone –
intorno cui le braccia
si erano avvolte come se sapessero
che l’amore è l’unica fortezza
tanto salda da offrire affidamento.
Luce è linguaggio
Della luce del sole si può dire
più di quanto si dica del linguaggio: ma linguaggio
e luce, a vicenda
aiutandosi – francese l’uno e l’altra –
non han disonorato un aggettivo
che rimane ancora radicato.
Sì, luce è linguaggio. Libera franca
imparziale luce di sole, luce di luna,
luce di stelle, luce di faro,
sono linguaggio. E il faro
di Creach’h d’Ouessant,
sulla sua indifesa
scaglia di roccia, è il discendente di Voltaire,
la cui giustizia fiammeggiante andò
a raggiungere un uomo già colpito:
dall’inerme
Montaigne, il cui equilibrio,
conservato malgrado la durezza
del bandito, accese la scintilla
salvatrice del rimorso; di Émile Littré,
mosso dalla passione filologica,
ammaliato dagli otto volumi
d’Ippocrate, il suo
autore. Era
un uomo di fuoco, uno scienziato
della libertà, questo tenace Maximilien
Paul Émile Littré. Se l’Inghilterra
è difesa dal mare,
noi, con la consolidata Libertà
di Bartholdi, che regge alta
la torcia accanto al porto, udiamo
l’ingiunzione della Francia: “Ditemi
la verità, e specialmente quando
sia spiacevole”. E noi,
noi possiamo rispondere soltanto:
“Questa parola Francia vuole dire
affrancamento: vuole dire una
che “rianima chiunque pensi a lei”.
allora, signor Almerighi attendiamo il Tuo commento, poi che i primi sarnno gli ultimi!
Sagrè, bbbasta!
Che cos’è la nostra innocenza,
che cosa la nostra colpa? Tutti
sono nudi, nessuno è salvo.
Trai esempio dai versi immortali di questa autrice che non conoscevo. Ringrazio quindi la Redazione e i traduttori per l’ottimo lavoro svolto.
dal risvolto di copertina dell’edizione Adelphi citata:
https://lombradelleparole.wordpress.com/2015/05/08/otto-poesie-di-marianne-moore-presentazione-di-alfonso-berardinelli-traduzione-di-lina-angeletti-e-gilberto-forti/comment-page-1/#comment-7457
Marianne Moore disse una volta a un intervistatore: «Mi sembra che Wallace Stevens metta il dito su quella cosa che è la poesia quando parla di “una violenza interna che ci protegge da una violenza esterna”». A quella «violenza interna» Marianne Moore dedicò la vita, distillandola in un’opera segnata ovunque da una vocazione esigente per la forma perfetta. Esemplare per la fedeltà e il coraggio con cui difendeva il suo mondo fisico e metafisico, per la coerenza con cui credeva nella poesia senza temere di essere considerata inaccessibile e senza mai abbassare i suoi aculei, incrollabile «come una fortezza», la Moore si impose all’ammirazione di poeti così diversi come Pound, Eliot, W.C. Williams e W.H. Auden. Oggi la sua opera poetica è universalmente considerata una pietra preziosa, inscalfita e durissima, che continua a rifulgere di una luce lieve e limpida, inconfondibile. La presentiamo qui nella sua interezza, in una traduzione di eminente qualità, una delle più felici che la lingua italiana possieda di un grande poeta moderno.
STRALCIO del saggio di T.S. ELIOT sulla poesia di MARIANNE MOORE
T.S. Eliot/Marianne Moore: è possibile prevedere la gloria futura di un poeta?
Non è molto quello che sappiamo circa il valore dell’opera dei nostri contemporanei; anzi, è ben poco, quasi quanto sappiamo del valore della nostra stessa opera. Vi si possono trovare qualità che esistono soltanto per la sensibilità contemporanea, così come vi si possono nascondere virtù che diverranno evidenti soltanto col tempo. Quale posto le spetterà quando noi tutti saremo scrittori defunti, non possiamo dirlo con alcuna approssimazione.
Se proprio si deve parlare dei contemporanei, è quindi importante stabilire prima di tutto che cosa possiamo affermare con convinzione e che cosa deve restare aperto al dubbio e alla congettura. L’ultima cosa che possiamo giudicare è certamente la loro “grandezza”, o piuttosto la loro relativa eccellenza o mediocrità in rapporto al concetto di “grandezza”. Nel concetto di grandezza, infatti, sono impliciti significati morali e sociali che possono essere percepiti soltanto da una prospettiva più remota e dei quali si può forse dire addirittura che sorgono nel corso della storia. Non si può predire quale sorte avrà una certa poesia, quale azione eserciterà sulle generazioni successive. E tuttavia possiamo credere, con un certo fondamento, che esista qualche cosa, una qualità, che può essere riconosciuta da un piccolo numero, soltanto da un piccolo numero, di lettori contemporanei; ed è la genuinità.
Dico di proposito “soltanto un piccolo numero”, perché sembra probabile che, quando un poeta riesce a conquistare in vita un pubblico numeroso, una porzione sempre crescente di ammiratori lo ammirerà per ragioni estranee, per ragioni non sostanziali. Non è detto che siano cattive ragioni, ma allora la notorietà del poeta sarà semplicemente quella di un simbolo, dovuta alla sua capacità di compiere sui lettori un’azione stimolante, o consolante, in ragione del particolare rapporto che lo lega ad essi nel tempo. Questa azione sui lettori contemporanei può essere a volte il risultato, giusto e legittimo, di una grande poesia; ma è anche accaduto, assai spesso, che fosse il risultato di una poesia effimera.
Non sembra molto importante il fatto che il poeta debba lottare con un’epoca distratta e paga di sé, e quindi ostile a nuove forme di poesia, oppure con un’epoca come l’attuale, incerta, diffidente di se stessa e avida di nuove forme che le diano un blasone e il rispetto di se stessa. Per molti lettori moderni ogni novità formale, per quanto epidermica, è la prova, o l’equivalente, di una sensibilità nuova; e se poi la sensibilità è fondamentalmente ottusa e dozzinale, tanto meglio; poiché non vi è strada più rapida per arrivare a una popolarità immediata, anche se passeggera, che quella di servire merci stantie in confezioni nuove. Vi sono alcune prove che permettono di accertare la novità e la genuinità di un prodotto, e una di queste – è una prova puramente negativa, d’accordo– si può eseguire osservando la reazione dei cosiddetti “amanti della poesia”; se il prodotto suscita la loro avversione, è probabile che ci troviamo davanti a una poesia veramente nuova e genuina.
Mi rendo conto che i pregiudizi mi inducono a non concedere tutta la mia stima a certi autori, nei quali vedo dei nemici pubblici piuttosto che dei soggetti sui quali esercitare la critica; e oso aggiungere che un altro pregiudizio, di diversa natura, mi spinge a concedere un consenso acritico ad altri scrittori. Può anche darsi che io ammiri gli autori giusti per le ragioni sbagliate. Ma ho più fiducia nella mia stima per gli autori che ammiro, che nella mia disistima per gli autori che mi lasciano freddo o mi esasperano. E quando affermo che tra le qualità riconoscibili in un contemporaneo quella che io chiamo genuinità è più importante della grandezza, faccio una distinzione tra la funzione dello scrittore da vivo e la sua funzione da morto. Da vivo il poeta continua quella battaglia per la difesa di una lingua viva, per conservare la forza e la sottigliezza della lingua, per la salvezza di una certa sensibilità, che deve essere sostenuta in ogni generazione; da morto, fornisce modelli per coloro che dopo di lui riprendono la battaglia. Marianne Moore è, credo, tra quei pochi che, nella mia generazione, hanno reso qualche servigio alla lingua (…)
(…) devo dire che Marianne Moore ha tenuto conto della lezione di Ezra Pound: che la poesia dev’essere scritta con la stessa eleganza della prosa. Si direbbe che la Moore abbia immerso il suo spirito nelle perfezioni della prosa; nella precisione della prosa, piuttosto che nel suo splendore; e che abbia trovato, per vie autonome, il suo ritmo, la sua poesia, il suo modo di pesare e apprezzare la parola singola.
Il primo aspetto per il quale la poesia di Marianne Moore è destinata a colpire il lettore è quello del minuzioso particolare piuttosto che dell’unità emotiva. Il gusto dell’osservazione minuta, della ricerca di parole esatte per esprimere certe esperienze dell’occhio può persino distrarre l’attenzione del lettore. Le minuzie possono addirittura irritare i disattenti o destare in essi soltanto lo stupore compiaciuto che si prova davanti a una palla d’avorio che contenga altre undici palle, davanti al veliero ricostruito in tutti i particolari dentro una bottiglia, o danti allo scheletro del pesce-crocifisso. Lo smarrimento che nasce dal tentativo di seguire un occhio così acuto, un processo d’associazione così agile e rapido può produrre l’effetto di certa poesia “metafisica”. Al lettore moderatamente intellettuale le poesie possono apparire esercitazioni intellettuali, e soltanto chi abbia un’intelligenza capace di rapidi e facili movimenti ne coglierà subito il valore emotivo.
Ma il particolare è sempre al servizio dell’insieme. Le similitudini hanno una ragione e uno scopo; e si veda il mitile che “si apre e si chiude come fosse un ventaglio ferito” (dove ferito ha un’ambiguità ben degna dell’attenzione di un critico come William Empson), o le onde “perentorie come le squame di un pesce”. Esse ci fanno vedere l’oggetto più chiaramente, anche quando non comprendiamo subito perché la nostra attenzione sia stata indirizzata verso quell’oggetto, e anche quando non ne afferriamo subito l’associazione con una serie di altri oggetti. Così nella sua divertita e affettuosa attenzione per gli animali –dal gatto domestico e dal mulo fino alle più esotiche e bizzarre dei tropici-, Marianne Moore riesce di colpo a gettarci in un inconsueto stato di consapevolezza, di farci percepire incredibili modelli visivi grazie a strumenti che hanno quasi il fascino proprio d’un microscopio d’alta potenza.
Si potrebbe definire come “descrittiva”, piuttosto che “lirica” o “drammatica”, la poesia di Marianne Moore, o la maggior parte di essa. Si crede generalmente che la poesia descrittiva sia legata a un certo periodo, e quindi condannata a un rapido tramonto; e invece essa è uno dei modi permanenti d’espressione. Nel secolo diciottesimo –o, se si preferisce, nel periodo che comprende Copper’s Hill, Winsdor Forest ed Elegy di Gray– la descrizione della scena è il punto di partenza per riflessioni su questo quel tema. La poesia del romanticismo, dal peggior Byron al miglior Wordsworth, oscilla tra riflessione ed evocazione; ma la descrizione, il quadro messo dinanzi al lettore, risponde sempre allo stesso scopo.
Il fine dell’ “imagismo”, per quanto ne capisco, o per quanto si possa parlare di un fine, era quello di promuovere una particolare concentrazione su un dato visivo per poi mettere in movimento una successione sempre più ampia di sensazioni concentriche. Alcune poesie di Marianne Moore – per esempio, quelle che riguardano animali o uccelli – hanno un vastissimo spettro di associazioni. Sarebbe difficile dire quale sia il “soggetto-tema” di una poesia come Il gerboa. Per uno spirito così agile, e per una sensibilità così reticente, il soggetto meno importante, com’è appunto un grazioso animaletto saltellante che ha il colore della sabbia, può essere il mezzo migliore per liberare le emozioni più profonde. Soltanto il “letteralista pedante” può giudicare banale il soggetto-tema: la banalità è dentro di lui. Ognuno di noi deve scegliere quel qualsiasi soggetto-tema che gli offra il mezzo per la liberazione più efficace e più segreta: e questa è una faccenda del tutto personale.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2015/05/08/otto-poesie-di-marianne-moore-presentazione-di-alfonso-berardinelli-traduzione-di-lina-angeletti-e-gilberto-forti/comment-page-1/#comment-7459
Versi nobili ed estremamente moderni come aveva profetizzato Eliot, e se l’antefatto è la contemplazione il risultato è una sapienza “poietica” che schiude una visione e una conoscenza. La forza di una poesia che va oltre il Laudario o il cantico creaturale per le profonde radici etiche e le implicazioni sociali . .. Comunque mi ha ricordato lo sguardo entusiasta degli antichi alchimisti, un salto a piè pari contro reificazione e nichilismo, ecco questa mi sembra una poesia aperta che non si ferma alla denuncia e propone modalità risolutive… Una poesia del futuro opposta all’avvitamento di un “io” lirico solipsistico.
Se volessimo mettere questi versi sotto la lente d’ingrandimento di una sapienza alchemica potrebbero essere illuminanti le parole di Zolla: “Come riacquistare la sensibilità?…Guardandoci d’attorno con esultanza. Soltanto a questo patto, sollevando una gleba odorosa, spiccando un frutto contemplando lo splendore d’un incarnato umano o d’una liscia pelliccia…Il segreto dell’arte alchemica e d’ogni sapienza sta nella capacità d’intuire con esaltazione questa mano solerte, invisibile ai distratti e ai tristi”.
Quanta poesia contemporanea è distratta e triste? Altro non saprei aggiungere alla bella prefazione e al saggio di Eliot se non che la lettura di “A una lumaca ” mi ha davvero emozionato e presto mi procurerò questo libro dal titolo splendido…Grazie allo spirito luciferino di Linguaglossa!
Giorgio, quelle tigri mi risulta siano delle zebre.Non ho mai visto una tigra con gli zoccoli.
Non amo i molluschi e mai avrei pensato di rimanere affascinata da una femmina di Argonauta-Argo nella pregevole poesia di Marianne Moore che reca il titolo “L’Argonauta”.
Tale mollusco appartiene alla famiglia dei Cefalopodi ed è munito di otto tentacoli-braccia, La femmina, molto più grande del maschio, è raffigurata dalla poetessa mentre compie la sua funzione di madre, deponendo le uova in una fragile conchiglia da lei stessa creata e covandole a lungo nella culla avvolta dalle otto braccia perché sia più protetta. Infine, come un uccellino becca dall’interno il guscio dell’uovo ed esce libero verso la vita, così le uova dell’Argonauta, liberandosi, liberano al tempo stesso il fragile favo “bianco su bianco”, le cui rughe di conchiglia richiamano alla mente le pieghe del chitone ionico (come quello delle Kore) o le pieghe della criniera di un cavallo del Partenone, scolpito nel timpano o nel fregio.
Raffinato il richiamo alla mitologia e all’arte greche: Eracle che lotta con l’Idra di Lerna, il chitone pieghettato delle Cariatidi, il cavallo che richiama a sua volta Poseidone, in lotta con Atena per la fondazione della città.
Non solo questo nella poesia della Moore.
“Forse per i potenti che affidano
le speranze a mani mercenarie?
O per scrittori presi nella trappola
della gloria mondana e degli agi
del fine-settimana? Non per costoro
l’argonauta femmina
fabbrica il suo sottile guscio vitreo.”
Nell’incipit la poetessa nega che la bellezza del lavorìo compiuto dall’Argonauta per creare Il suo “guscio vitreo” sia finalizzata ai potenti o agli scrittori amanti della gloria mondana.
Nel mondo animale si trova l’esempio del “poiein” per fini molto più nobili di quelli umani.
Giorgina Busca Gernetti
Versi a tratti davvero magnifici: dimostrano che da qualsiasi elemento si può creare poesia autentica. L’unico particolare che non condivido: le parole tutte in carattere maiuscolo.
Almè, non conoscevi questa mediocrità americana, e allora sei salvo!
caro Antonio Sagredo,
però se ci spieghi meglio (a noi comuni mortali) perché la poesia della Moore è mediocre, magari ci farai aprire gli occhi…
Anche a me piacerebbe essere illuminata sull’argomento, dato che ho apprezzata più delle altre la poesia “L’Argonauta”, non tanto per il linguaggio quanto per le immagini delicate e nel contempo pregne di significati “altri”.
GBG
Illuminatemi Voi su questo giudizio ridicolo di Brodskij su Elizabeth Bishop, che la definì come “Callas della poesia del novecento”; il poeta russo ama le classifiche, le gerarchie dei poeti, e prende cantonate una sull’altra sui poeti, come quella celebre, dove definì Auden il più grande poeta del ‘900! Sui poeti russi – che credo non conosca bene fino in fondo dimostra di avere dei bruttissimi pregiudizi, cominciando da pasternàk! E se quella americana è la Callas… cosa è la Marina Cvetaeva? Una comparsa?
O lo stesso troppo considerato critico Harold Bloom quando paragona Leopardi, come se fosse l’ulimo venuto, “a livello” di poeti Keats, Shelley e Wordsworth , che il recanatese invece si lascia molto addietro! E anche Bloom come il russo ama le liste: scemenze!
E mi fate la richiesta di spiegare perchè la Moore sia una “mediocrità americana”?
E allora analizzate parola per parola – anche in inglese se volete – i versi che compone…
come questi:
———–
La complessità,
poi, che sia stata affidata alle tenebre, invece
di dichiararsi per quella peste che è in realtà, si agita intorno
come per confonderci con la tetra
illusione che l’insistenza
è la misura di ogni risultato e che ogni
verità dev’essere caligine. Gutturale com’è principalmente
la sofisticazione è quel che è sem-
pre stata – agli antipodi delle iniz-
iali grandi verità.
—
Ci vuole davvero coraggio da mentecatti a definirli versi!
E pure “immortali” per giunta, allora è meglio che vi date una mazzata sul Vostro cerebro, anche interiore!
Io, mentecatta (dal latino “mente” -abl. di limitazione- e “captus”, preso, quindi colpito da grave infermità mentale, dovrei anche darmi una mazzata in testa nonché nel cerebro interiore (dov’è se non nella scatola cranica?).
Suvvia, Signor Antonio Sagredo, stia bonino questa sera e ci faccia leggere i versi in inglese, anzi, in americano.
Buona serata
Giorgina Busca Gernetti
E’ partito il giro d’Italia e subito Alberto Stroncador è maglia rosa alla prima tappa. Sagrè siamo un popolo di mentecatti che ci vuoi fà.
Gentile Sagredo, non penso che la Moore possa essere tacciata di mediocrità già solo per la potenza visionaria che la sostiene, il forte linguaggio delle immagini (e debordiamo nell’altro dibattito in corso), e la cui finalità non è solo ricerca espressiva ma ethos e impegno estetico di riattivazione di certe modalità di percezione che inevitabilmente sboccano nel civile… Osservare con la vista del cuore che “nella forma fisica, nel corpo animale, che è «stile di vita» e modo di essere dettato dalla Natura (o da Dio), sia depositata una saggezza, un senso della realtà immediata e cosmica che noi non possediamo o che in noi è labile.” (cit. dall’intr.) è un approccio avanguardistico in un certo senso.
Non ho ancora letto il testo in originale, e ha ragione Giorgina, bisogna aguzzare l’orecchio alla “pelle d’oca uditiva” (Eliot) delle parole, ma se immettere nel dettato poetico lasse prosastiche o intertestuali per esigenze di poetica è criterio di valutazione allora dovremmo tacciare di mediocrità anche Eliot o perfino quel maestro di uno stile che “fosforeggia” come Benn, penso a molte sue poesie in “Apreslude”..ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi.
A parte la bellezza di queste poche poesie che ho letto, e la sua poetica, la grandezza della Moore è anche nel ricordarci costantemente, quasi ad ogni verso, che la poesia sta per prima cosa dentro la vita e poi dentro i libri;e dal fatto che in genere la poesia americana sia forse più “on the road” se ne potrebbero ricavare utili suggerimenti.
Questa è la sfida e la modernità di un messaggio che ci arriva nell’ora in cui Hawking annuncia l’estinzione dell’umanità tra mille anni, non aggiungendo però nel suo articolo quella di tutte le altre specie animali (però se avesse letto le poesie della Moore..!)
E aggiungo, sebbene la mia predilezione sia per una poesia molto lontana da questa. Ma ogni tanto apro le finestre per far cirolare l’aria…almeno l’ultima che rimane.
https://lombradelleparole.wordpress.com/2015/05/08/otto-poesie-di-marianne-moore-presentazione-di-alfonso-berardinelli-traduzione-di-lina-angeletti-e-gilberto-forti/comment-page-1/#comment-7545
caro Sagredo,
la tua è una provocazione, anche simpatica, ma resta una provocazione. Del resto la Moore aveva ricevuto l’avallo di un certo Eliot in quale in vita credo abbia rilasciato non più di 5 o 6 investiture ufficiali a poeti del suo tempo. Capisco anche che i tuoi gusti in fatto di poesia non collimino con quelli che prediligono o apprezzano una poesia discorsiva, o narrativa o espositiva… ma così facendo rischi di estromettere dal podio dei poeti laureati, come dice argutamente Letizia leone, lo stesso Eliot, lo stesso Montale e W. Stevens, e Brodskij, ma anche Milosz e quant’altri… ecco, io credo che per questa via si rischia di perdere il contatto con la realtà della poesia del Novecento, e forse anche il buon senso che ci deve guidare nel perorare intorno al letterario. Personalmente, quando indosso le vesti del critico (e non credo di esserlo, tanta è la stima che nutro per i veri critici), sono sempre accompagnato dal retropensiero che il mio giudizio è qualcosa di relativo, che vale cioè ha validità entro l’ambito della mia persona fisica e non oltre. E questo è un salutare esercizio di relativismo e di senso di autocritica al quale credo sia opportuno che si debba sottoporre anche chi fa, o tenta di fare, poesia.
Forse
io vedo
nella vita
tutto un qualcosa
di profondamente bislacco
come una palude percorsa
da stupidi
martiri
e santi.
1968
Almerighi, dove sei?! Dove sei? Sei un fantasma, peggio: un ectoplasma! Invece di dire scemenze, cerca di capire ciò che scrivo, ma non sei capace di far analisi critica! Vi mancano gli strumenti e la conoscenza! Mi costringi a parlare con gli sciocchi! Quando invece dovrei non perdere tempo, con gli sciocchi! E non sei il solo!
A rivederci – ma spero di no! – nel tardo autunno.
a. s.
“Mi costringi a parlare con gli sciocchi!” (Sagredo)
Potrebbe tacere e non correrebbe questo rischio!
Che siano tutti sciocchi tranne lei?
GBG
Autunno, Acheronte, e Gesualdo
Quel tumulo di suoni rococò
raccolse le palpebre come briciole del pianto –
un cipresso, stupito fino alle radici,
sbirciava la Signora, e in penombra
la sua risurrezione, a malincuore.
Implorava, torturata da visioni,
la lettura di un osceno necrologio
sui vessilli di marmo del rincrescimento:
le sue stesse labbra baciare la nera rosa!
Per cosa? – urlò
risposi: sono già stato a Zaragoza!
e lì che ho lasciato i miei manoscritti!
Non mi è concesso di sognare l’Acheronte
quando una commedia non sa d’essere divina!
e lei, in falsetto: ma i due Cesari giocano col fuoco dei pugnali!
Il Requiem con passo equino, rotando la battuta
di un tamburo vuoto e gravido d’epitaffi come Marta
o come la puttana di Lot esclusa da tutte le tragedie,
ricusò lo specchio, e del miracolo il rinato oblio
o la morbida vanità dei letti muliebri tradita da Mefisto.
La geometria del silenzio ci traduce alla torre ottagonale
dove la corona attende l’orgia o l’algebra ottomana,
ma il volo del falco disegna una bianca cattedrale –
il leggìo si ribella alla tastiera! – la mente
del suono è un tugurio da celebrare con orrore.
Datemi un dò e vi muterò in nera rosa,
in muraglie, anfratti e gole prodigiose!
Noi viviamo delle briciole del pianto
quando l’amplesso misura i nostri frutti
tra quei cardini che sono i mostri insonni,
dove incedono scheletrici gli spasmi – di Palermo!
Orizzonti, Autunni, Acheronti… io e voi
non sappiamo più in quali finzioni – vivere!
antonio sagredo
Vermicino, 4-5 gennaio 2007
Caro Sagredo, lei sa bene come incantar gli sciocchi e m’incanta…
caro Antonio Sagredo,
https://lombradelleparole.wordpress.com/2015/05/08/otto-poesie-di-marianne-moore-presentazione-di-alfonso-berardinelli-traduzione-di-lina-angeletti-e-gilberto-forti/comment-page-1/#comment-7565
la tua poesia ha il fascino di una messa nera, del responso di un oracolo delfico, ha il delirio di un occhio mostruoso che osserva una carneficina… o meglio, è simile a una pupilla armata che convoca il delirio; risponde ad un atto di convocazione, ad una chiamata di un dio ottuso e moribondo, è una poesia ispirata, sublime ed iraconda, nasce già vestita come Pallade Athena dalla zucca di Zeus… gli aggettivi sono tutti spostati rispetto ai sostantivi, e viceversa, metonimie, metafore, poliptosi, inversioni, chiasmi, immagini baroccheggianti, c’è tutto di tutto nella tua scrittura, che è unica, ineguagliabile, ha del sublime ed è molto prossima alla fogna… (Cvetaeva),
ma, insomma, non è il solo modo di fare poesia, ci sono anche altri modi di scrivere. Credo.
L’ha ripubblicato su Maria Pia Dell'Omo.