Alienazione. Il doppio volto dell’alienazione (Entfremdung). Per una rivalutazione del concetto marxiano di alienazione. La nuova teoria critica di Rahel Jaeggi di GIORGIO FAZIO

fotogramma di un film di Antonioni

fotogramma del film “La Notte” di Michelangelo Antonioni

Negli ultimi anni si è assistito nel dibattito filosofico tedesco a una riattivazione dell’interesse per il concetto di “alienazione”. A procurarlo è stato in particolare il libro di Rahel Jaeggi, Entfremdung, Zur Aktualität eines sozial-philosophischen Problems, uscito nel 2005. In questo articolo Giorgio Fazio spiega in che modo Jaeggi ha provato a riattualizzare questo concetto.

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Al pari di altri termini fondamentali della letteratura filosofica del Novecento, anche il concetto di “alienazione” ha subito negli ultimi decenni un processo di progressivo eclissamento dal dibattito teorico e politico, che solo negli ultimi anni sembra, in parte, essersi arrestato. Questo processo di marginalizzazione risulta tanto più evidente quanto più si richiama alla memoria la centralità rivestita da questo concetto nel dibattito filosofico, politico e culturale del XX secolo. La critica dell’alienazione non è stata infatti soltanto uno dei capisaldi teorici del “marxismo occidentale” e della prima teoria critica francofortese, nonché, su un altro versante della filosofia novecentesca, dell’esistenzialismo tedesco e francese. Nella seconda metà del Novecento, questa modalità di critica filosofica delle forme di vita moderne è assurta a vessillo di un’intera stagione politica e culturale. Essa ha costituito la fonte d’ispirazione di opere letterarie, artistiche, cinematografiche ed è divenuta una lente di analisi politica, sociologica e psicologica che è entrata a far parte del linguaggio comune.

Alberto Moravia scrittore dell'esistenzialismo

Alberto Moravia scrittore dell’esistenzialismo

Basti ricordare, a questo proposito, il ruolo di vero e proprio spartiacque che ebbe nella storia del cinema contemporaneo la cosiddetta trilogia dell’incomunicabilità di Michelangelo Antonioni che, con i film L’avventura, La noia, L’eclisse – che videro la luce tra il 1960 e il 1962 – diede veste cinematografica ai temi dell’alienazione e del disagio dell’esistenza borghese, contribuendo a formare quel tipo d’immaginario critico che mise la parola fine alla stagione del neorealismo e iniziò ad irrorare le fonti a cui poi si sarebbe abbeverata la contestazione del ’68. Fu anche, infatti, la critica dell’alienazione dell’uomo della società borghese, filtrata filosoficamente dalla lettura dei testi di Marcuse e di Fromm, lo sfondo a partire da cui fu coltivato il sogno di nuove forme di vita radicalmente alternative, emancipate da una società del lavoro, dei consumi e della famiglia livellante e conformistica, tendente a ridurre l’uomo ad un soggetto «unidimensionale», schiavo di falsi bisogni, inibenti una vita realizzata in tutti gli aspetti e le molteplici potenzialità della natura umana. E’ difficile negare, con il senno di poi, che i tratti di cattiva astrazione che attraversavano quel sogno ebbero un ruolo importante nel mettere in moto quel processo in cui il concetto di alienazione si è prestato progressivamente ad un uso sempre più dilatato, indifferenziato e con il tempo anche inflazionato. Processo a cui ha fatto seguito, come dicevamo, la sua marginalizzazione dal dibattito filosofico e politico, fino al punto in cui oggi la parola stessa a volte sembra suonare con il rimando a una Stimmung politica e culturale lontana, affetta da un tratto d’irrimediabile inattualità. Una parabola, questa, che è corsa in parallelo a quell’«esaurimento delle energie utopiche» (Habermas)[1] che ha accompagnato, come un rovescio negativo, l’affermarsi dell’ideologia neoliberista negli ultimi decenni.

filosofia geworfenheitNegli ultimi anni, nel contesto della Marx Reinassance che è esplosa in concomitanza con la crisi economica globale, questo processo di declino sembra avere incontrato una battuta d’arresto. Specie in Germania, sono molti gli autori che hanno ricominciato a fare uso del concetto di alienazione – anche se in contesti teorici mutati rispetto a quelli che inizialmente lo ospitavano – riconoscendovi un imprescindibile strumento di diagnosi di patologie sociali sempre più diffuse nelle nostre società, e legate a filo doppio alle nuove forme del capitalismo, al suo “nuovo spirito”, come lo hanno chiamato Boltanski e Chiappello, e alle conseguenze che esso ha sui caratteri delle vite personali.[2] Un merito indiscusso in questa ripresa lo ha avuto però un libro, uscito in Germania nel 2005, dal titolo inequivocabile: Entfremdung, Zur Aktualität eines sozial-philosophischen Problems.[3] A riprova di come la critica dell’alienazione fosse effettivamente di nuovo «nell’aria», fin dalla sua uscita questo libro si è rivelato un vero e proprio caso editoriale, conquistando l’attenzione di un pubblico di lettori ben più allargato di quello specialistico universitario.

filosofia Semplice presenzaGrazie all’originalità delle linee teoriche sviluppate in questo lavoro, la sua autrice, Rahel Jaeggi, si è subito profilata come uno degli esponenti più promettenti e più interessanti dell’ultima generazione della scuola di Francoforte, quella per intenderci formatasi all’istituto di ricerca sociale della Goethe Universität di Francoforte sul Meno, durante gli anni della direzione di Axel Honneth. Di Honneth, Jaeggi è stata assistente a Francoforte, prima di assumere la cattedra in Filosofia pratica alla Humboldt-Universität di Berlino, dove attualmente insegna. E’ difficile però non cedere alla tentazione di mettere in relazione l’interesse di questa filosofa per il tema dell’alienazione anche con le sue radici familiari: suo padre è infatti il sociologo marxista Urs Jaeggi, uno dei riferimenti teorici del ’68 berlinese, e sua madre la psicoanalista Eva Jaeggi. Marxismo e psicoanalisi: gli ingredienti perfetti, verrebbe da dire, per riprendere in mano un concetto che ha attraversato in lungo e in largo il Novecento e provare a imprimergli una nuova fisionomia, capace di entrare in comunicazione con tempi ed esigenze mutate, senza disperdere quanto di buono e di necessario esso recava con sé.

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Una critica dell’alienazione non essenzialista

La premessa fondamentale del lavoro di Jaeggi è che una ripresa della critica dell’alienazione è oggi non solo possibile ma anche necessaria, e tuttavia, ciò può avvenire solo nella forma, appunto, di una riattualizzazione critica, non di una mera ripetizione di formule e di moduli del passato. Se la critica dell’alienazione è potuta apparire negli anni un’imbarcazione concettuale arenatasi nelle secche ideologiche del Novecento, per Jaeggi, ciò non è dovuto soltanto al repentino mutamento degli orizzonti politici avvenuto negli ultimi decenni e all’affievolirsi di ogni prospettiva di critica radicale della società che questo processo ha portato con sé. Il declino della critica dell’alienazione ha alle sue spalle anche ragioni di ordine filosofico: nell’orizzonte che ha dominato la scena filosofica degli ultimi decenni, questo concetto è apparso gravato da ipoteche filosofiche ingombranti, legate a moduli e paradigmi concettuali che per molte e fondate ragioni si è ritenuto non essere più perpetuabili. Come scrive Honneth nella prefazione del libro, annunciando uno dei temi fondamentali del lavoro: nella sua formulazione classica, tanto in Rousseau quanto in Marx e i suoi eredi, la critica dell’alienazione presupponeva sempre «una determinazione essenziale dell’uomo».

Ciò che veniva diagnosticato come alienato si presupponeva si fosse allontanato da qualcosa, che fosse «divenuto estraneo rispetto a ciò che costituisce l’autentica natura dell’uomo, la sua vera essenza».[4] Di modo che, il ritorno da questa condizione alienata in una condizione non alienata veniva inteso come la riappropriazione di un’originaria unità dell’uomo con sé stesso e con il mondo: un’unità che passando per lo stadio, necessario ma transitorio, dell’estraneazione, giunge infine alla sua piena destinazione e realizzazione storica, laddove la differenza tra proprio ed estraneo è definitivamente tolta e superata. Questi presupposti metafisici erano all’opera tanto nella declinazione marxista della critica dell’alienazione quanto in quella esistenzialista.

Tura Satana, Haji, Lori Williams, ossia Varla, Rosie e Billie come trasformare il deserto del Mojave nel (non) luogo del sesso come pretesto per la violenza

Tura Satana, Haji, Lori Williams, ossia Varla, Rosie e Billie come trasformare il deserto del Mojave nel (non) luogo del sesso come pretesto per la violenza

Se in Marx l’alienazione – o l’estraneazione, per essere più fedeli al termine tedesco, appunto Entfremdung, che compare nei Manoscritti economico-filosofici – era il risultato dell’impedimento, determinato dalla strutture di classe del capitalismo, della riappropriazione delle forze di genere umane oggettivate ed estraniate nel processo della produzione, in Kierkegaard e in Heidegger l’alienazione era il risultato dell’impossibilità dell’individuo di ritornare dall’universalità anonima e livellata del potere sociale reificato del Man, alla propria autentica e auto-scelta individualità. Pur in direzioni (apparentemente) opposte, in entrambi i casi, tuttavia, l’alienazione veniva concepita come «la mancata relazione a quella relazione in cui consiste l’autentica natura dell’uomo, sia questa intesa come cooperazione o come autoriferimento esistenziale». Un presupposto che lo sviluppo filosofico degli ultimi decenni, tanto in Europa quanto negli Stati Uniti, si è incaricato di demolire criticamente. «Nel frattempo noi sappiamo – continua Honneth – che, anche se non dubitiamo affatto di determinati universali della natura umana, non dobbiamo più parlare in un senso oggettivistico di un’«essenza» dell’uomo, delle sue «forze di genere essenziali», dell’originaria posizioni di fini».[5]

Valerio Zurlini le_desert_des_tartares

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Le ragioni che stanno alla base del congedo da questi presupposti sono molte, filosofiche e politiche. In apertura del suo testo, Jaeggi si concentra in particolare sulle critiche del post-strutturalismo e del liberalismo filosofico e politico. Sulle orme della critica althusseriana al giovane Marx, condotta in nome della «rottura epistemologica», Foucault, ricorda Jaeggi, ha estromesso dal proprio vocabolario critico il concetto di “alienazione” per la ragione che esso, poggiando su presupposti essenzialistici, suggerisce l’idea che al soggetto dell’emancipazione sia sufficiente far saltare i meccanismi repressivi dei processi storici, economici e sociali per riconciliarsi con sé stesso e con i prodotti estraniati della sua prassi sociale. Per Foucault, ad essere postulata, nel concetto di “alienazione”, è l’idea che esista una soggettività autentica prima o al di là dei processi di regolamentazione e di normativizzazione dei poteri sociali: come se questi poteri, nella misura in cui assoggettano i soggetti, non li sollecitassero anche a soggettivizzarsi, e come se quindi, proprio l’alienazione – l’estraneazione in ciò che non è proprio – non sia in realtà l’atto inaugurale, e mai definitivamente superabile, delle stesse pratiche di soggettivazione.

Diversa è stata la critica condotta nel quadro del liberalismo filosofico e politico. Qui la classica critica dell’alienazione di matrice hegelo-marxiana è stata presa a bersaglio soprattutto per il suo presupporre una determinazione oggettiva dei fini essenziali dell’autorealizzazione umana: una visione etica sostanziale, inconciliabile con il pluralismo etico e politico, ma anche foriera di un’attitudine paternalistica che contraddice il convincimento fondamentale di ogni società pluralistica liberale, secondo cui a ciascuno deve essere lasciata la decisione sul modo in cui egli vuole dare forma alla propria vita. Ridurre bisogni e interessi soggettivi “integrati” nel sistema capitalistico a espressioni di una «falsa coscienza», immune da questa stessa falsità, come faceva ancora disinvoltamente Marcuse ne L’uomo a una dimensione, vuol dire pretendere paternalisticamente di disporre di un punto di vista valutativo assoluto sulla buona vita, sottratto alle autointerpretazioni pratiche degli individui coinvolti nel “sistema”. E vuol dire anche disconoscere che i bisogni umani mutano e si trasformano storicamente, e che pertanto, se questo mutamento avviene sotto il condizionamento degli imperativi di mercato, ciò non ha per forza il significato di una trasformazione antropologica che mette a repentaglio l’integrità etica e umana dei soggetti.

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Per Jaeggi, qualsiasi ripresa o riattualizzazione della critica dell’alienazione deve mostrare di sapersi porre all’altezza di queste critiche: deve ripartire da esse. Ma come fare a criticare una forma di vita individuale in quanto alienata da sé e dal mondo, senza farsi carico dell’idea che da qualche parte esiste un’autenticità o una trasparenza umana verso cui fare ritorno? Nel corso del volume, Jaeggi sottolinea come con il concetto di alienazione, tanto nella linea marxista quanto in quella esistenzialista, si è sempre voluto fare riferimento a due fenomeni tra loro strettamente correlati, eppure non coincidenti: da una parte la perdita di controllo da parte dei «soggetti – individuali o collettivi – sulle proprie azioni, dall’altra l’impossibilità di questi soggetti d’identificarsi in maniera ricca di senso con ciò che fanno e con coloro con cui lo fanno. Questa irriducibile bidimensionalità del concetto, spiega, è il modo con cui si è tentato di cogliere, anche sul piano fenomenologico, processi di etero-determinazione peculiari, non riducibili a meri rapporti di soggezione ad un dominio esterno, ma piuttosto espressione di paradossali processi d’inversione, in cui si finisce per essere dominati da ciò che è nello stesso tempo proprio ed estraneo.

In gioco, nella critica dell’alienazione, è uno stato d’impotenza rispetto a dinamiche auto-prodotte e la connessione tra questa soggezione e i fenomeni di svuotamento di senso della vita del singolo. Così, nei Manoscritti economico-filosofici del giovane Marx, ricorda Jaeggi, l’alienazione è la conseguenza del fatto che «le proprie azioni e i propri prodotti, le istituzioni e i rapporti sociali che noi stessi abbiamo prodotto, sono diventati poteri estranei».[6] Il lavoratore salariato nel mondo della produzione capitalistica è alienato in quanto «non possiede ciò che ha prodotto: è quindi sfruttato ed espropriato; non dispone e non determina le condizioni entro le quali produce: è quindi senza potere e non libero». E l’effetto di tutto ciò è che questo lavoratore non può realizzarsi nelle azioni in cui pure dovrebbe realizzarsi, è esposto a rapporti privi di senso, perché interamente strumentalizzati, con i quali quindi non si può identificare, dai quali si sente dissociato.[7] Ora, a veder bene, questa diagnosi aveva come presupposto un’idea tutt’altro che ovvia e scontata di libertà: l’idea cioè secondo cui posso essere un attore che si autodetermina, posso essere libero, soltanto in un mondo che posso rendere realmente “proprio”, nel senso di un’identificazione appropriante.

Indagine su un cittadino al di sopra ogni sospetto 1970 Drammatico Florinda Bolkan Gian Maria Volonté Gianni Santuccio Orazio Orlando Salvo Randone Elio Petri

Indagine su un cittadino al di sopra ogni sospetto 1970 Drammatico Florinda Bolkan Gian Maria Volonté Gianni Santuccio Orazio Orlando Salvo Randone Elio Petri

Per Jaeggi, una critica non essenzialista dell’alienazione deve ripartire da qui, da questo concetto positivo di libertà, a cui rinunciano, per ragioni diverse, tanto il post-strutturalismo quanto il liberalismo filosofico e politico. Deve ripartire dall’idea che si dà libertà solo nel confronto con il negativo, nel processo di integrazione di ciò che è inizialmente estraneo: detto diversamente, e in termini hegeliani, che «gli individui si trovano già da sempre in relazioni, la cui realizzazione (in molteplici significati) è il presupposto della loro libertà»[8]. Questo concetto può ancora guidare una critica delle forme di vita sociali dal punto di vista dell’alienazione, a patto però che si abbandoni il presupposto che il superamento del negativo e l’integrazione dell’estraneo coincidano con il definitivo superamento dell’estraneo: con la ri-appropriazione di un’originaria relazione d’identità soggetto-oggetto, già esistente, ma divenuta oscura e dimenticata. Precisamente ciò è quanto veniva presupposto nel giovane Marx, dove a mancare era il riconoscimento che il prodotto della prassi sociale tende a conquistare necessariamente un’autonomia rispetto ai soggetti che lo hanno prodotto. Da questo disconoscimento scaturiva il tratto prometeico del suo concetto di prassi rivoluzionaria, che alla fine portava a immaginare «coscienza di classe», «interesse di classe» e «agire di classe» come attributi oggettivi di un «Subjekt in Grossformat», nella cui dis-alienazione politico-rivoluzionaria, raggiunta attraverso un totale superamento dell’oggettività estraniata e una completa disponibilità sul mondo della produzione, si compiva il senso teleologico della storia.[9]

Una critica non essenzialistica dell’alienazione deve «riabilitare l’estraneo» e uscire fuori dal cerchio magico di un pensiero dell’identità, che equivale sempre a negazione della pluralità e della storia. Il concetto di alienazione deve diagnosticare non la perdita di una determinazione sostanziale, ma «differenti forme di disturbo nei rapporti di appropriazione».[10] Laddove questi rapporti di appropriazione devono essere concepiti in termini produttivi e aperti, non teleologicamente e circolarmente determinati: come integrazione e trasformazione di ciò che è dato, in quanto processi rimessi alla prassi autonoma dei concreti soggetti coinvolti. Soggetti che d’altra parte, solo nel confronto, anche agonistico, con i ruoli e le funzioni sociali date, possono appropriarsi e sviluppare il loro sé, che non esiste prima e al di là di questo stesso processo di sviluppo e d’interazione con i ruoli. Come afferma Jaeggi: il superamento dell’alienazione non coincide con il «superamento della socialità rappresentata attraverso i ruoli, ma con la loro appropriazione e trasformazione». «Un autorapportamento non alienato del sé è possibile solo attraverso un riferimento appropriante alle pratiche sociali che determinano la nostra vita, non attraverso la loro negazione astratta». Questa appropriazione dipenderà certo dalle attitudini soggettive delle persone, ma anche dal carattere oggettivo delle istituzioni: «il superamento dell’alienazione necessita di offerte di ruoli sociali e di istituzioni, che rendono possibili identificazioni e appropriazioni».[11]

Elsa Martinelli in La decima vittima directed by Elio Petri, 1965

Ursula Andress in La decima vittima directed by Elio Petri, 1965

Libertà come appropriazione e trasformazione di sé e del mondo

Il cuore della proposta del libro consiste quindi nell’elaborazione del concetto positivo, ma non teleologico, di libertà come appropriazione. Richiamandosi alla riflessione del filosofo Ernst Tugendhat – ma anche a quella di altri autori contemporanei, come Harry Frankfurt,Thomas Nagel a Charles Taylor – Jaeggi definisce questo concetto formalizzato e processuale di libertà positiva come “capacità di funzionamento della volontà”. Con questa “capacità”, spiega, va intesa la possibilità della persona di potere attribuire a sé stessa ciò che fa e vuole, di potere identificarsi con le proprie azioni, realizzando scopi per essa carichi di valore. Il criterio di libertà così definito è formale e non sostanziale, in quanto non indica possibili contenuti e scopi materiali della volontà. D’altra parte, però, ponendo l’accento sulle modalità di utilizzo e di attuazione della volontà, permette di riconoscere come non tutte le prese di posizione personali sono libere: sono tali solo quelle che dimostrano di essere qualificate, di corrispondere cioè a una volontà verace. Il concetto di alienazione, allora, deve tematizzare proprio «le complesse dimensioni di questo “porsi in collegamento con sé”, “potersi attribuire”, “appropriarsi” le proprie azioni, i propri desideri (e in generale la propria vita), e le molteplici ostruzioni e fonti di disturbo che possono coinvolgere questi rapporti».[12]

Il tutto sul presupposto che non si dà libertà del sé, cioè capacità di volontà, senza un’appropriazione “riuscita” del mondo delle pratiche sociali e delle istituzioni in cui si è coinvolti. In altre parole, riprendersi da uno stato di alienazione non vuol dire tanto riconoscere cosa si è già, quanto attuare processi di riconfigurazione creativa e trasformativa dei significati e delle identità sociali da cui si è già presi, al fine di imprimere su di essi un marchio e uno stile nuovo e inedito. Jaeggi mette alla prova questa proposta nella parte centrale del volume, dove dà origine a un vero e proprio percorso fenomenologico, analizzando situazioni di vita quotidiane caratterizzate da stati personali di stallo, d’irrigidimento, di perdita di riferimento significativo al mondo. L’obiettivo è mostrare come queste patologie sociali della vita quotidiana acquistino piena perspicuità se interpretate alla luce delle categorie determinate in sede preparatoria. La sfida ogni volta è quella di valorizzare momenti centrali della critica dell’alienazione marxista ed esistenzialista, senza assumere però lo sfondo di premesse essenzialistiche in cui esse erano inscritte. In queste pagine, risulta molto ben chiarita la dimensione etica del fenomeno dell’alienazione, ancorata alla innovativa teoria della soggettività umana ruotante attorno al concetto di libertà: non sembra però adeguatamente articolata una riflessione sulle istituzioni, sui contesti oggettivi che devono fornire le condizioni sociali di cui gli individui hanno bisogno per vivere una vita libera dall’alienazione.

 La classe operaia va in paradiso Gian Maria Volontè e Salvo Randone

La classe operaia va in paradiso Gian Maria Volontè e Salvo Randone

Stando alle dichiarazioni di Jaeggi, queste lacune dovrebbero essere colmate nel suo prossimo libro, Kritik der Lebensformen, la cui pubblicazione è stata annunciata per la fine di quest’anno. Questi rilievi, tuttavia, nulla tolgono a un libro che oltre ad essere molto godibile da leggere e ad esibire profondità e creatività teoretica, ha avuto il merito di riaprire una pagina di storia delle idee che sembrava definitivamente consegnata alla «critica roditrice dei topi», come aveva voluto, ironicamente, lo stesso Marx. D’altra parte, si potrebbe osservare, per giungere a criticare le istituzioni sociali, e in primis il capitalismo in quanto “forma di vita”, oggi non sembra esserci altra strada che quella di ripartire dal terreno dell’esperienza soggettiva, ponendosi il problema di come riuscire ad articolare concettualmente le sofferenze sociali, anche quelle senza voce, senza assumere un atteggiamento paternalistico nei confronti dei soggetti coinvolti. Una volta assunta questa esigenza, la stessa critica delle istituzioni non potrà più assumere la forma di un’ingegneria sociale che stabilisce le vie dell’emancipazione e della presunta liberazione, come se queste fossero già tracciate, ancor prima che i soggetti si attivino per decidere autonomamente il modo in cui dare forma, individualmente e collettivamente, alla loro pratiche sociali: il modo in cui appropriarsi, e non riappropriarsi, delle loro vite.

NOTE

[1] J. Habermas, La nuova oscurità. Crisi dello Stato sociale ed esaurimento delle utopie, a cura di A. Mastropaolo, Edizioni lavoro, Roma 1998.

[2] L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, tra. it. di M. Guareschi, M. Schianchi, Feltrinelli, Milano 2013.

[3] R. Jaeggi, Enfremdung. Zur Aktualitat einer sozial-philosophischen kategorie, Campus Verlag, Frankfurt a. Main – New York 2005.

[4] R, Jaeggi, Entfremdung, cit., p. 7.

[5] Ibidem.

[6] Id., p. 30.

[7] Id., p. 32.

[8] Id., p. 26.

[9] Si veda su questo i lavori di Habermas degli anni sessanta e settanta, J. Habermas, Prassi politica e teoria critica della società (1971), trad. it. Di A. Gajano e altri, Il Mulino, Bologna 1973; Id. Conoscenza e interesse, trad. it. di G.E. Rusconi (1973), Latera, Roma-Bari 1983: Id. Per la ricostruzione del materialismo storico (1976), trad. it. e cura di F. Cerruti, Etas Libri, Milano 1979.

[10] R. Jaeggi, Entfremdung, p. 19.

[11] Id., p. 256.

[12] R. Jaeggi, Entfremdung, cit., p. 30.

Giorgio Fazio ha studiato all’Università di Roma “La Sapienza”. Attualmente è fellow della Alexander von Humboldt-Stiftung presso l’Università di Potsdam, dove svolge attività di ricerca sui temi dell’antropologia filosofica e della secolarizzazione. Ha scritto numerosi saggi su Karl Löwith e altre figura del pensiero filosofico tedesco del XX secolo. E’ di prossima uscita la sua monografia Il tempo della secolarizzazione. Saggio su Karl Löwith.

(29 maggio 2013)

22 commenti

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22 risposte a “Alienazione. Il doppio volto dell’alienazione (Entfremdung). Per una rivalutazione del concetto marxiano di alienazione. La nuova teoria critica di Rahel Jaeggi di GIORGIO FAZIO

  1. Il fotogramma innominato a inizio articolo è tratto dal film La Notte di Michelangelo Antonioni, copioincollo e leggo con calma durante la giornata, questa articolessa è molta carne al fuoco

  2. Che L’Ombra delle Parole sia impegnata al ripensamento di alcune parole (leggi categorie) che erano state messe nel dimenticatoio della Storia quali: Alienazione ed Estraneazione, significa che c’è, oggi, in Italia, un bisogno oggettivo di ripensare le fondamenta di una critica radicale al sistema capitalistico, e che questa critica è un elemento che non appartiene soltanto ai marxologi di professione o ai comunisti già estinti, credo che tutto questo sia chiaro. E allora, penso con piacere che dissotterrare dalla «critica roditrice dei topi», come scriveva Marx, queste categorie vada incontro ad una necessità storica del pensiero critico.

    Il concetto di alienazione nel Marx dei Manoscritti economico filosofici del 1844 può essere riassunto così:
    a) l’uomo è alienato dalla natura;
    b) l’uomo è alienato da se stesso (dalla sua propria attività);
    c) l’uomo è alienato dal suo «ente generico» (in quanto membro del genere umano);
    d) l’uomo è alienato dall’uomo (dagli altri uomini).

    Il primo di questi quattro aspetti esprime la relazione del lavoratore con il prodotto del suo lavoro, la sua relazione con il mondo esterno sensibile, con gli oggetti della natura (ivi compresa la sua vita quotidiana).

    Il secondo esprime la relazione del lavoro con l’atto della produzione al’interno del processo lavorativo come attività alienata che non gli procura soddisfazione in sé e per sé, ma solo se la «cosa» viene venduta a qualcun altro (questo significa che non è l’attività del produrre a procurargli soddisfazione ma la sua vendibilità, una proprietà alienata della sua attività produttiva). Marx chiama il primo aspetto «alienazione della cosa», e il secondo «autoalienazione».

    Il terzo aspetto (l’alienazione dell’uomo dal suo essere generico) implica l’oggettivazione generica dell’uomo, il lavoro alienato, dove «l’uomo si sdoppia non solo intellettualmente, come nella coscienza, bensì attivamente, realmente, e vede se stesso in un mondo fatto da lui». Il lavoro alienato fa dunque della essenza dell’uomo una essenza alienata, estranea all’uomo, al suo corpo, alla sua dimensione spirituale, in una parola, estranea alle sue relazioni umane con gli altri uomini.

    Il terzo aspetto dell’alienazione riguarda quindi la dimensione che si suole chiamare estetica, quella dimensione che media i rapporti tra l’uomo e l’ente generico attraverso una speciale forma di attività produttiva, la cosiddetta attività produttiva estetica.

  3. montmar

    Nel penultimo fotogramma si vede Ursula Andress e non Elsa Martinelli.
    Detto ciò, leggerò il post appena libero.
    Cordialmente
    m.m.

  4. Articolo molto interessante: complimenti a Giorgio per la scelta della tematica, molto complessa, ma- a mio parere- eternamente attuale…Personalmente apprezzo tantissimo le definizioni di alienazione del giovane Marx nei “Manoscritti economico-filosofici” del 1844, ma anche le loro “radici”- piuttosto diverse, in realtà- formulate da Feuerbach e, ancora prima, da Hegel.

    • Ivan Pozzoni

      I “Manoscritti economico-filosofici” del 1844 furono demoliti, a] in primis dal matematico/filosofo Giovanni Vailati, senza che nessuno ne abbia mai avuta un’idea seria dato che nessuno ha la minima cognizione dell’esistenza di Giovanni Vailati, uno dei maggiori intellettuali italiani di fine Ottocento (in una trasmissione su Raistoria sulle riviste di fine Ottocento, discutendo del “Leonardo” di Gian Falco e Giuliano, il docente universitario di turno, esperto di riviste, commenta una foto: Papini e Prezzolini, “con un amico”: l’amico, anonimo, era Vailati, di spessore culturale infinitamente superiore ai due scapigliati discepoli); b] in secundis con Materialismo storico ed economia marxistica (1900) di Benedetto Croce. Pregasi, Mariano mio, di esplorare con maggiore attenzione un momento storico ricco di idee e di fermento (come hai notato in Michelstaedter), servendoti di un classico: E. GARIN, La cultura italiana tra ‘800 e ‘900: studi e ricerche, Bari, Laterza, 1962.

      • Ti ringrazio per il consiglio, sono qui per imparare (come in questo caso), non certo per salire in cattedra 🙂

      • Conosco questo testo di Eugenio Garin. Adoro Michelstaedter.
        GBG

        • Ivan Pozzoni

          Bellissimo e imprescindibile testo: in troppi, in Italia, hanno dimenticato Vailati, Salvadori, Limentani, Juvalta, Labriola, Calderoni, Peano, Michelstaedter, Lombroso, Curiel, Pareto e moltissimi altri. Purtroppo, volontariamente o meno, Croce e Gentile cancellarono tutti i filosofi non idealisti di fine Ottocento. Il 90% delle buone idee filosofiche del Novecento sta in nuce in costoro, dimenticati da tutti: una miniera di suggestioni e spunti interessantissima.

  5. giuseppe pernacchia

    ma commentate Max Stirner che beffeggiò Marx e i suoi seguaci!

  6. Articolo molto interessante da leggere e rileggere con molta attenzione. Quanto ai film, ho visto tutte le opere di Michelangelo Antonioni appena venivano proiettate nelle sale cinematografiche. Questa precisazione non per vanteria, ma per chiarire che ho gustato e criticato queste opere appena pensate e create dall’Artista, prima che i sommovimenti socio-politici e il rifiuto di certe forme d’arte le denigrassero o ne travisassero il significato. Ricorderei anche “Deserto rosso” (1964), sempre di Antonioni, con Monica Vitti, ancora sul tema dell’alienazione, dell’insoddisfazione e del senso di inadeguatezza alla vita.
    Magnifici attori tutti quanti e una Monica Vitti, Musa di Antonioni, lontana dalle parti comiche cui si dedicò più tardi. Sempre brava comunque.

    Giorgina Busca Gernetti

    • Da ricordare la celebre frase pronunciata da Monica Vitti in “Deserto Rosso”, a proposito dell’alienazione e incomunicabilità.
      Entra nel soggiorno con aria tra il quasi sofferente e l’annoiato. Si infila le dita della mano destra fra i capelli e dice quasi cantilenando: “Mi fanno male i capelli!”. Da parte di lui indifferenza e silenzio.
      GBG

  7. …credo che dobbiamo ritornare ad una analitica esistenziale dell’esserci, ripensare l’ontologia dell’essere sociale in chiave critica. E mi chiedo: dove sono oggi i filosofi italiani in grado di tentare l’impresa?. Anche la filosofia (un po’ come la poesia) va dove la porta il vento dell’attualità. A furia di rincorrere l’attualità ed il nuovo ci siamo ritrovati tra le mani una filosofia vecchia e decrepita, stereotipata, fatta da bravi professori: filosofi che parlavano di angeli e della morte degli angeli, che si sono perduti nel rincorrere problematiche esotiche che il mercato delle opinioni richiedeva. Ma il pensiero filosofico deve essere qualcosa di diverso dal mercato delle opinioni, così come la poesia e il romanzo devono essere qualcosa di diverso dalle narrazioni che vediamo ogni giorno in televisione. Possono sembrare banali queste mie osservazioni (e forse lo sono), ma forse è venuto il momento di mettere in campo un pensiero critico, anche per il semplicissimo motivo che una democrazia funziona meglio se ha a che fare con un pensiero critico che la critica, ma laddove ci sono soltanto pifferai e piastrellisti delle didascalie e il tip tap del pensiero, è la stessa democrazia ad essere in bilico, il consorzio del vivere civile che ne soffre.
    Il pensiero che evapora di fronte ai problemi posti dal reale è simile ad una poesia che evapora di fronte ai problemi posti dal reale. Il pensiero diventa intrattenimento culturale e la poesia e il romanzo diventano oggetti decorativi..

  8. Ivan Pozzoni

    Molto interessante la ricostruzione storiografica realizzata da Fazio sulla concezione jaeggiana di «Enfremdung». Purtroppo, a contatto con Honneth, scolaro – influenzato da Mead e da Lukács- non tra i migliori di Habermas, la Jaeggi si smarrisce nella impasse dicotomica liberalismo / communitarianism (risolta brillantemente da Rawls), tralasciando l’innovativa strada di Jonas (rehabilitierung ed estensione della nozione di «responsabilità») o della sociologia tardo-modernista (Bauman, Beck, Sennett). La chiave del fallimento teoretico della Jaeggi sta in una concezione anacronistica dei rapporti tra «soggetto» e istituzione (denominati “di appropriazione”):

    Il tutto sul presupposto che non si dà libertà del sé, cioè capacità di volontà, senza un’appropriazione “riuscita” del mondo delle pratiche sociali e delle istituzioni in cui si è coinvolti. In altre parole, riprendersi da uno stato di alienazione non vuol dire tanto riconoscere cosa si è già, quanto attuare processi di riconfigurazione creativa e trasformativa dei significati e delle identità sociali da cui si è già presi, al fine di imprimere su di essi un marchio e uno stile nuovo e inedito.

    «Presupposto» della realizzazione del «soggetto» è «[…] un’appropriazione “riuscita” del mondo delle pratiche sociali e delle istituzioni […]» (suona molto Mead) o, in termini iper-tecnici «[…] attuare processi di riconfigurazione creativa e trasformativa dei significati e delle identità sociali […]». Questa «appropriazione », intesa come soluzione/reazione alla «Enfremdung» è un’attività infattibile, sottesa ad un concetto anacronistico dei rapporti tra «soggetto» e istituzione. Col tardo-moderno si assiste alla crisi della nozione stessa di «identità», cagionata dal fatto che il c.d. «mondo delle pratiche sociali e delle istituzioni» muta – a differenza che nel moderno- in modo esponenzialmente superiore alle attitudini del «soggetto» a mutare adattandosi ad esso «mondo»: in altri termini, la fluidificazione, o de-solidificazione, di tale «mondo delle pratiche sociali e delle istituzioni» conduce all’impossibilità del «soggetto» di “afferrarlo” (ogni volta che il «soggetto» crede di avere “afferrato” il «mondo», esso è cambiato, costringendo, all’infinito, il «soggetto» a vani tentativi di «appropriazione»). Questo circolo infinito di tentativi di «appropriazione» conduce alla cd. crisi ontologica dell’«identità», riconosciuta da ogni serio studioso di sociologia o di psicologia sociale. «L’urgenza di libertà» di Marcuse ha lasciato spazio, nell’attuale tardo-moderno, ad una bulimia di libertà (ingestibile dal «soggetto») che ha smantellato ogni forma stabile di «identità», condannando l’uomo – dicendolo à la Sartre- all’immane «compito» di “diventare costantemente altro da ciò che è”, alla rincorsa di modelli istituzionali che svaniscono prima di essere raggiunti. Perché è assolutamente anacronistico e inutile discutere di «Enfremdung»? Perché il «soggetto» è – come sostiene Luhmann- irrimediabilmente «dis-locato»:

    […] l’“alienazione” presuppone un mondo totale e una persona totale che potrebbero essersi estraniati l’uno dall’altra, ma né la società multirete offre molte opportunità di esperirla come totalità, né i suoi membri “modularizzati” hanno molte occasioni di sviluppare l’autoconsapevolezza propria delle persone totali. Per i membri “modularizzati” della società “multirete”, l’“appartenenza” diviene un problema importante […] La condizione della “modularità” è una condizione di Unsicherheit […] [Z. Bauman].

    Quindi, nelle recenti discussioni sul malessere del «soggetto», al binomio «appropriazione» / «Enfremdung» da una decina d’anni si è sostituito il binomio “appartenenza” / Unsicherheit. Parlare di «Enfremdung» è anacronistico e inutile, se non a fini meramente storiografici (come riesce benissimo a delineare Fazio, nella sua ricostruzione storiografica). Le voci di Jonas e dei sociologi tardo-modernisti, eticamente e meta-eticamente, ci schiudono vaste regioni (chora) da esplorare, distanti da ogni anacronistico collegamento a un concetto morto e sepolto riferito all’epoca del “marxismo occidentale” e dell’esistenzialismo (cinquant’anni or sono): il concetto storiografico di «Enfremdung». Amen

    [Si consiglia l’attenta lettura dei saggi di Z. Bauman: L’identità nel mondo in via di globalizzazione e In cerca di modelli]

  9. E’ chiaro, penso lampante, che se una civiltà non parte da un sogno filosofico, un progetto teorico, questa non si rinnova non cambia non si adegua ed è destinata a scomparire come i dinosauri, i sumeri, i romani. L’illuminismo ha prodotto, semplicisticamente, la rivoluzione francese. Il pensiero marxista è all’origine di quella bolscevica. Modi di cambiare e intendere società radicalmente diverse dal sistema feudale e assolutistico di monarchi fuori tempo massimo. La base rimane quella di una forte componente ideologica, di una visione. L’occidente ha avuto due momenti di sfavillante fulgore, la bèlle epoque a cavallo tra il XIX secolo e la prima guerra mondiale. Un enorme sviluppo tecnologico economico durante di anni Cinquanta del XX secolo. Eppure l’Occidente stava già morendo. Il concetto di noia e alienazione diventa pensiero comune proprio durante questo secondo apogeo, nel momento in cui l’enorme espansione industriale genera benessere, lavoro garantito e tutelato da una parte, degrado ambientale, casermoni periferici e solitudini dall’altra. Una autore pochissimo citato, Giuseppe Berto, mi è sempre sembrato sotto questo aspetto un caso esemplare. L’alienazione passa da concetto teorico a piaga sociale senza che i più se ne accorgano: arrivano gli psicoanalisti, le tossicodipendenze di massa, l’Emilia sazia e disperata.
    Dopo la caduta dell’URSS era pensiero comune che l’ideologia fosse un male da estirpare, e che il mondo si sarebbe avviato verso la globalizzazione dei diritti e del benessere totale. La storia ha smentito tutto. La desertificazione del Sahel a partire dagli anni Settanta e le continue guerre dimenticate hanno prodotto un sommovimento di popoli che guardano all’Europa come asilo e come terra di cui impadronirsi. Intanto noi ci siamo rammolliti con la televisione, gli i phone e gli zero virgola della finanza. La civiltà del lavoro è diventata un lontano ricordo, il lavoro stesso, ove non sia possibile meccanizzarlo completamente, è un semplice affitto di persone a prezzi sempre più modici. La politica non può rispondere perché è diventata appannaggio di sempre meno fasce sociali e sempre più di interessi meramente economici e corruttivi che non riguardano più la generalità della popolazione. Siamo in una situazione da basso impero, e senza scomodare il razzismo becero e idiota non dobbiamo dimenticare che chi sta arrivando con i barconi, la nostra terra se la sta guadagnando con la fatica, il sangue e la pazienza. Sopportando pene di cui noi non potremmo sopportare nemmeno il dieci per cento.
    E’ necessario ridare spinta a un pensiero scomodo, frontale e innovatore, non assorbibile dai soliti muri di gomma, altrimenti faremo la fine dei dinosauri e dei romani. Spetta ai filosofi ripartire, sempre ammesso che ce ne sia ancora qualcuno fuori dai salotti.

  10. Caro Ivan,

    la liquidazione che Benedetto Croce fece del marxismo a rileggerla oggi sembra patetica per la scarsità di pensiero che conteneva, e, infatti, è caduta nel dimenticatoio. Della liquidazione del Vailati dei Manoscritti economici filosofici del 1844 non ne conosco i dettagli, ma si, molti pensatori borghesi ne hanno tentato la liquidazione, con il risultato che le categorie marxiane di Entfremdung e di Entäußerung restano ancora sul tappeto del pensiero critico, oggi come ieri. Certo, le categorie del pensiero non sono date una volta per tutte, non sono delle entità dogmatiche che stanno ferme e immobili nel tempo e nello spazio, sono dei binari concettuali che vanno attualizzati e applicati in ogni contesto sociale e in ogni epoca storica, ed è compito del pensiero critico rimettere in piedi (riattualizzare) categorie storiche che la vittoria del capitalismo liquido vorrebbe aver cancellato. Il pensiero della Jaeggi mi sembra che vada in questa direzione, nella direzione di una rinascita del pensiero critico a partire dalla ripresa della categoria marxiana di Entfremdung. E la categoria di Entfremdung deve essere messa in relazione con quell’altra categoria centrale sulla quale si incentrerà l’opera dell’Heidegger maggiore: Essere e tempo, cioè la categoria dell’autenticità e dell’inautenticità.
    Vorrei ricordare che in quell’arco di tempo che va dal 1910, data di pubblicazione di L’anima e le forme di Lukacs e il 1920, data di pubblicazione di Teoria del romanzo di Lukacs, fino all’anno 1923 data di pubblicazione di Storia e coscienza di classe, anche un pensatore come Lukacs aveva concentrato la propria speculazione sulla categoria dell’autenticità, per arrivare a conclusione molto diverse da quelle cui era giunto Heidegger. Nel 1910, situando l’autenticità nella coscienza di limiti della morte, Lukacs ne tirerà la necessaria conseguenza: nessuna vita inframondana sarebbe in grado di sopprimere i limiti della morte e di conferire all’esistenza una validità assiologica.
    Nel 1923 Lukacs ammetterà la possibilità di una esistenza storica autentica nell’ambito di una visione del marxismo proiettata in senso rivoluzionario, di una rivoluzione imminente.
    Il problema, negli anni che seguiranno alla prima guerra mondiale e in seguito alla rivoluzione d’ottobre avvenuta in Russia e alla nascita dei partiti comunisti europei, segneranno l’eclisse di categorie centrali come l’alienazione, l’estraneazione e di quella dell’autenticità.
    Il fatto che oggi, nel 2015, si ritorni a pensare quelle categorie che il marxismo ufficiale di quell’epoca aveva abbandonato nel 1923, significa, a mio modesto avviso, che finalmente si ritorna a pensare in termini critici ad una nuova ontologia del quotidiano e dell’essere sociale.
    Le categorie del pensiero non sono come i biscotti che puoi mangiarne a sazietà passando dall’uno all’altro, un conto è la società liquida di Bauman (che è una categoria descrittiva e non ontologica) che può anche essere accettata nella sua genericità ed equivocità giornalistica, un altro è pensare in termini critici il mondo del capitalismo contemporaneo (cosa molto più complessa)

    • Ivan Pozzoni

      Caro Giorgio,
      le conclusioni marxiane sull’economia divennero, naturalmente, anacronistiche, venti anni dopo la loro introduzione, con la riscoperta del marginalismo (c.d. teoria dell’utilità decrescente o “marginale”). Giovanni Vailati, SOCIALISTA, smonta l’intero castello economico marxiano, essendo un dotto conoscitore di economia (l’economia vera, basata sulla matematica, e non sull’idealismo, imparata da Peano); Benedetto Croce, digiuno d’economia, ne smonta il castello etico, basandosi su alcune interessantissime conclusioni di Labriola (socialista). La lettura incrociata di Vailati e Croce basterebbe a relegare il titano Marx nello spazio, meritato, dei grandi autori degni di mero interesse storiografico. Però, nel Novecento, nessuno si interessò di Vailati (…) e molti si interessarono di Croce (senza capire un accidenti della rivoluzione immanentistica anti-hegeliana introdotta da costui). Perché, in Italia, c’è l’obbligo morale di andare a cercare all’estero soluzioni/idee che sono state recepite in Italia da 100 anni, da italiani. E all’estero, della filosofia italiana tra Otto e Novecento, non ne sanno una emerita (bip). Se ti interessa approfondire la figura di Giovanni Vailati, ti consiglio il mio brevissimo saggio “Il programma minimo di socialismo di Giovanni Vailati” (in uscita su Per la filosofia, organo docenti italiani di filosofia) o moltissimi saggi miei o del mio maestro Mario Quaranta, discepolo di Geymonat. Per il resto, che dire? Io, facendo una rassegna del “problema” fino all’altro ieri, ho spiegato con massima chiarezza:

      Quindi, nelle recenti discussioni sul malessere del «soggetto», al binomio «appropriazione» / «Enfremdung» da una decina d’anni si è sostituito il binomio “appartenenza” / Unsicherheit. Parlare di «Enfremdung» è anacronistico e inutile, se non a fini meramente storiografici (come riesce benissimo a delineare Fazio, nella sua ricostruzione storiografica).

      Chi ha compreso bene i motivi dell’impossibilità assoluta (teoretica e storica) di discutere ancora di «Enfremdung», è libero di a] adattare la sua weltanschauung ai cambiamenti storici avvenuti da Heidegger a ieri mattina o b] continuare a sognare su concetti morti. Sognare non è reato! 🙂 Giuro che non sono stato io a uccidere l’«Enfremdung» marxiana: si è suicidata con Marcuse e col ’68.

      Comprendo e apprezzo Fazio che discute di riferimenti recenti, come Ernst Tugendhat, Harry Frankfurt,Thomas Nagel o Charles Taylor; comprendo me che discuto di Habermas, Jonas, Bauman, Beck, Sennett o Luhmann.
      Però, riservare alla sociologia baumaniana (uno dei massimi fondamenti ontologici/sociologici della critica recentissima al super-capitalismo nomade, essendo – con l’idea di glocalization- caduta la struttura stessa del capitalismo moderno) la nomea di «genericità ed equivocità giornalistica» e riferirsi a Hedegger e Lukács a me, mia modesta opinione, appare un minimo fuori luogo e fuori tempo, con tutto il mio abituale rispetto consolidato nei confronti di ognuno di voi.

  11. Ricopio quanto avevo scritto a proposito di un pensatore marxista, Karel Kosic:
    GIORGIO LINGUAGLOSSA: KAREL KOSÍK IL FILOSOFO DELLA PRIMAVERA DI PRAGA
    Karel Kosík
    Saggi di pensiero critico 1964-2000 a cura di Gabriella Fusi e Francesco Tava, Mimesis, pp. 278 € 24

    Karel Kosik è nato a Praga nel 1926 ed è morto nel 2003 nella sua città di nascita, è stato uno dei testimoni ed interpreti più acuti del nostro tempo, ovviamente nella versione e dal punto di vista ceco-praghese. Protagonista centrale della Primavera di Praga, ha praticato una originale sintesi del pensiero di Heidegger e del giovane Marx culminata nell’opera «La dialettica del concreto», in particolare, ha analizzato il problema della «pseudoconcretezza» nell’epoca della globalizzazione. Il nucleo centrale del suo pensiero è la dialettica del concreto. Con le sue parole: «Nell’economia capitalistica, si verifica il reciproco scambio di persone e cose, la personalizzazione delle cose e la cosificazione delle persone».

    L’elaborazione della teoria della dialettica del concreto risale al 1963 quando il giovane pensatore si misura con il problema del Totalitarismo nelle sue due varianti, del nazismo e del socialismo stalinista. Giovanissimo, si oppone al nazismo, viene catturato e rinchiuso nel campo di concentramento di Terezin, anticamera di Auschwitz. Subisce la repressione di Stalin. All’avvento del capitalismo, dopo il 1989, si sottrae al coro dei sostenitori del nuovo corso dell’economia neoliberista e viene di nuovo isolato dagli apparati culturali del suo paese. Adesso questa interessante raccolta di scritti del filosofo ci consegna la fisionomia di un intellettuale che non si è mai piegato alla dittatura della maggioranza. Belle e profonde le pagine di riflessione che dedica alla «Metamorfosi» di Kafka sull’uomo che cambia aspetto e si adatta alle idee maggioritarie di volta in volta in voga. E qui compare Milena Jesenska, l’amica di Kafka: «Il suo destino consiste nel fatto che, in quella situazione senza uscita che fu il breve periodo dell’autunno del 1938 all’autunno 1939, lei si è opposta contemporaneamente a tutte le tre forme del male allora presenti: sia al male del nazismo tedesco, sia al male del bolscevismo russo, sia al male della viltà europea di Monaco». Milena finì nel campo di concentramento di Ravensbruck, non stava mai in fila, si ribellava all’ordine imposto, come ci racconta Margarete Buber Neumann. Kosík aveva per lei il sentimento di un fratello per una sorella, e si batté per l’accettazione del valore dell’opera di Kafka che i funzionari intellettuali del socialismo reale vedevano come un piccolo borghese decadente.

    La Primavera di Praga

    Kosík era stato protagonista della Primavera di Praga quando i carri armati sovietici entrano in piazza Venceslao con i cingolati e i soldati sulle torrette dei carri armati T65. «La Primavera di Praga a suo tempo dovette essere soffocata, oggi deve essere minimizzata o lasciata cadere nel dimenticatoio: recava l’embrione di una alternativa storica». «Se l’esperimento cecoslovacco dovesse riuscire -scriveva nel 1968 Kosík – noi ci troveremmo di fronte alla prova pratica che il sistema della manipolazione generale può essere superato, e in ambedue le forme storiche oggi dominanti: tanto in quella dello stalinismo burocratico quanto in quella del capitalismo democratico».

    La costruzione dell’embrione di una alternativa storica è il compito che Kosík assegna al suo marxismo rivoluzionario e umanistico: «La filosofia è la festosa iniziazione ai segreti della realtà: perciò è, al tempo stesso, critica della mera apparenza, è distruzione della pseudoconcretezza onnipervasiva che come un chiaroscuro di verità e di inganno plasma le nostre vite, una pseudoconcretezza onnipervasiva in cui siamo risucchiati, che assorbe tutte le nostre energie, smarriti in una prassi di “cura” che ci impedisce di vederne il carattere derivato, sociale, non fisso… La cura è la mera attività dell’individuo sociale isolato» che, accecato dalla pseudoconcretezza, non riesce a vedere le cose come prodotti sociali, che siano le merci, lo Stato, il mercato etc.
    In ceco, rammenta Kosík, la parola mercato risulta dalla combinazione di tre lettere magiche TRH, a cui tutti tributano un tributo che ha del magico.

    «La caratteristica del tempo in cui viviamo non è il mercato, bensì la globalizzazione capitalistica, il dominio planetario del supercapitale. Chi confonde il mercato con il capitalismo nega l’esistenza del supercapitalismo come potenza planetaria. Per esso il mercato è soltanto uno strumento subordinato al proprio funzionamento». C’è una superpotenza che governa oggi il mondo, il latifondo planetario, reclutata fra i nuovi ricchi e che «unisce imprenditorialità con la mafiosità, la truffaldinità con la criminalità organizzata. La lumpenborghesia è un’enclave combattiva, apertamente antidemocratica all’interno di una democrazia funzionante, ma imperfetta e irresoluta». La critica della «pseudoconcretezza», dell’apparenza del reale, resta l’incompiuto dovere della filosofia. Questo è il messaggio della riflessione che Kosík venne elaborando a metà degli anni Novanta con il dichiarato intento di combattere la omologazione del pensiero dei nostri tempi. Il «Presente» attende dunque la sua «Primavera»: «Ciò che libera, germoglia e matura lentamente, sullo sfondo, e all’inizio si manifesta come esiguità risibile. Ma la storia ci fornisce esempi di inizi in-significanti dai quali sono derivati grandi avvenimenti. Per quanto possa sembrare esiguo, importante è l’inizio».

  12. antonio sagredo

    L’alienazione intanto non ha (possiede) un doppio volto, ma sono innumerevoli i fantasmi a cui si attiene, e gli stessi fantasmi non s’addicono all’alienazione!
    Per cui è tutto da rifare… sfatando la presenza dell’alienazione nella mente umana, cacciando dalla mente umana le varie giustificazione della sua esistenza! Disponendo una serie di tavole algocriptiche, dove far risiedere un barlume di barbarie razionale, che è la peggiore delle barbarie, perchè naturalmente umana. a. s.

  13. caro Ivan,
    tu scrivi: «dell’impossibilità assoluta (teoretica e storica) di discutere ancora di «Enfremdung».

    A questo punto il dialogo è interrotto. Non ho nulla da aggiungere alla tua certezza.

    • Ivan Pozzoni

      Caro Giorgio, non è causa mia. La colpa è della storia. Nemmeno io ho nulla da aggiungere alla tua certezza della “possibilità assoluta (teoretica e storica) di discutere ancora di «Enfremdung»”. 🙂

      Formuleremmo due discorsi mai tangenti: tu discuteresti di «Enfremdung» e io di «Unsicherheit». Due concetti connessi a momenti storici diversi: l’«Enfremdung» al XX; l’«Unsicherheit» al XXI secolo. L’«Enfremdung» connessa ad un sistema di controllo modello Panopticon («il COMPITO della società/comunità è la realizzazione dell’individuo»); l’«Unsicherheit» connessa ad un sistema di controllo modello Glocalization («il COMPITO dell’individuo è la sua stessa realizzazione»). L’«Enfremdung» connessa ad una concezione di società come comunità; l’«Unsicherheit» connessa ad una concezione di società come «multi-rete». L’«Enfremdung» connessa ad una visione di uomo come homo faber; l’«Unsicherheit» connessa ad una visione di uomo come homo consumens o, meglio ancora, come homo eligens. L’«Enfremdung» connessa ad una concezione di capitalismo come «proprietà dei mezzi di produzione»; l’«Unsicherheit» connessa ad una concezione di super-capitalismo nomade come «fuga dai mezzi di produzione».

      C’è un fatto banale: che siamo nel XXI secolo, che facciamo riferimento ad un modello di Glocalization, che viviamo in intersezioni «multi-rete», che io sono, e noi siamo, homo consumens o homo eligens, che siamo dominati da un super-capitalismo nomade che abbandona le fabbriche e si diverte, con un click del mouse d’un secondo, a sconquassare le borse mondiali e a disintegrare le economie/finanze di intere nazioni. Io affronto una situazione di «Unsicherheit», non di «Enfremdung». Tu?

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