Giulia Perroni, nata a Milazzo (Me), vive a Roma stabilmente dal 1972. Unisce alla sua attività poetica un impegno di organizzatrice culturale e di attrice. Sue raccolte: La libertà negata prefata da Attilio Bertolucci, ediz. Il Ventaglio,1986; Il grido e il canto, prefazione di Paolo Lagazzi, 1993; La musica e il nulla, prefazione di Maria Luisa Spaziani, 1996, Neve sui tetti, 1999, La cognizione del sublime, 2001, Stelle in giardino, 2002, Dall’immobile tempo, 2004 (tutti testi pubblicati da Campanotto di Udine); Lo scoiattolo e l’ermellino edizioni del Leone, 2009, con postfazione di Donato Di Stasi e Quarta di copertina di Renato Minore. Nel gennaio 2012, quasi contemporaneamente, vengono pubblicati una “Antologia di percorso”, La scommessa dell’Infinito, introdotta da un commento critico di Plinio Perilli, per le edizioni Passigli, e il poema Tre Vulcani e la Neve, prefato da Marcello Carlino, Manni editori. L’ultimo libro, La tribù dell’eclisse, edizioni Passigli, marzo 2015, ha la prefazione di Marcello Carlino.
Presente in antologie e riviste in Italia, U.S.A, Giappone e Francia, numerose recensioni le sono state dedicate su importanti riviste nazionali – anche on-line, come le Reti di Dedalus – e internazionali: Gradiva, a New York, Il Fuoco della Conchiglia, in Giappone, Les Citadelles, a Parigi. Di lei si è interessato anche il grande poeta giapponese Kikuo Takano, che le ha dedicato il suo ultimo libro, Per Incontrare. Suoi testi sono stati musicati e portati in tournée in diverse università canadesi da Paola Pistono dell’Accademia Santa Cecilia di Roma. Vincitrice di molti premi, tra cui il Montale, il San Domenichino, il Contini Bonaccossi, R. Nobili al Campidoglio, Omaggio a Baudelaire, il premio Cordici per la poesia mistica e religiosa, il premio Europa Piediluco 2014. È stata invitata nel 2012 per La scommessa dell’Infinito al Festival Internazionale della Letteratura di Mantova. Giorgio Linguaglossa ha scritto, in “ Appunti critici”Roma 2002, per lei un saggio e ancora in “Poiesis (n. 23-24) scrive su “ La cognizione del sublime”. Dante Maffia, le dedica a sua volta un saggio su Poeti italiani verso il nuovo millennio, Roma 2002. Rosalma Salina Borrello, in La maschera e il vuoto, Aracne 2005 e in Tra esotismo ed esoterismo, Armando Curcio editore, 2007. Luca Benassi su La Mosca di Milano nel 2009. Paolo Lagazzi su La Gazzetta di Parma. I suoi libri sono stati presentati in Campidoglio e in altri luoghi prestigiosi di Roma e del territorio nazionale; ultimamente a Villa Piccolo, centro mitico della cultura siciliana. Ha gestito l’attività letteraria al Teatro al Borgo, al Café Notegen, al Teatro Cavalieri. Con il poeta Luigi Celi organizza dal 2000 presentazione di libri, incontri di arte, letteratura e teatro al Circolo culturale Aleph nel cuore di Trastevere.

cinese drago Si racconta che nei tempi antichi, in Cina, quando arrivava un’eclissi di sole, si usasse battere i tamburi per cacciar via il dragone che si stava …
Commento di Giorgio Linguaglossa
Siamo ancora dentro una Civiltà di tipo 0, secondo la tipologia indicata dal fisico teorico Michio Kaku, una civiltà che trae energia da elementi che trova già pronti in natura (il carbone, il petrolio, l’uranio etc.). È quello che ci vuole dire Giulia Perroni con questo bizzarro titolo, apparteniamo ancora alla «tribù dell’eclisse», siamo simili a quegli arcaici che assistevano con spavento alla eclisse come ad un evento taumaturgico e divino. Tutta la variegata «sostanza» del discorso poetico di Giulia Perroni ha qualcosa di arcaico e di moderno insieme, è costituita da immagini e substrati di immagini, di metafore e di substrati di metafora, di schegge di immagini, di voli spericolati tra le immagini, di capovolgimenti di tempi e di spazi. Poema che si estende per 170 pagine senza un attimo di tregua, con un ritmo percussivo ed avvolgente che vuole irretire il lettore nelle proprie spire. Come sappiamo dagli studi di un sinologo come Ernest Fenollosa, le parole astratte, incalzate dall’indagine etimologica, ci svelano le loro antiche radici affondate nell’azione; e forse il dinamismo della poesia della Perroni è un lontano parente del dinamismo universale che un tempo animava le lingue primitive; della lingua primordiale l’autrice eredita la capacità di creare universi paralleli e «mondità». Come sappiamo, non è da un arbitrario intento soggettivo che nacquero le primitive metafore, esse seguono la matrice delle relazioni che accadono in natura, la natura ci fornisce le sue chiavi, e il linguaggio recepisce questa matrice che si trova in natura. Giulia Perroni è convinta che il mondo sia pieno di omologie, simpatie, identità, affinità e che sia compito della poesia catturare i segreti di queste relazioni interne tra le «cose». La metafora è la vera sostanza della poesia, l’universo è un orizzonte di miti sedimentatisi; la bellezza del mondo visibile è impregnata di arte, è quest’ultima che crea la bellezza della vita; la poesia fa coscientemente ciò che i primitivi fecero inconsciamente, e la poesia di Giulia Perroni non fa altro che riesplorare e rielaborare i miti e le imagery della civiltà del Mediterraneo, getta ponti che si estendono tra il visibile e l’invisibile, attraverso il tempo e lo spazio, il lessico prosaico e quello ricercato. È questa la poetica di Giulia Perroni, leggere la sua poesia significa accettare questa impostazione di vita e del modo di concepire l’arte poetica; ma nella sua poesia c’è anche il gusto del gioco, l’allegria degli spazi, la gioia del ritrovarsi nell’universo, l’ironisme, l’istrionisme. C’è altro, c’è la «mondità», un riepilogo e una accelerazione del mondo di fuori e del mondo di dentro.
Caro Giorgio,
ti faccio i complimenti per la tua interpretazione della poesia di Giulia, una poesia non facile da accogliere, fuori, com’è, dai parametri stantii e prosastici di buona parte dei linguaggi poetici contemporanei. La poesia di Giulia è un’esplosione di metafore. Per il grande poeta giapponese Kikuo Takano – che Giulia ed io abbiamo fatto conoscere in Italia, lavorando sinergicamente con Yasuko Matsumoto -: “Nella nostra anima esiste una innegabile sete che può essere soddisfatta soltanto dalla metafora”, La “metafora – scriveva – è ciò che trasporta”… Essa trasporta il “Risveglio”… “più di una volta e lo fa più volte fino al punto in cui le cose si risvegliano”; e tuttavia: “scrivere poesie vuol dire anzitutto soffermarmi con uno stupore profondamente fresco di fronte a ciò che esiste, accettare insieme la molteplicità e la continuità degli esseri, fissare su di loro lo sguardo fino a quando svaniscono. La poesia era per me l’unica via per incontrare il senso e la bellezza misteriosa dei legami tra gli esseri, legami che più fissavo e più perdevo (ma tutto intanto diventava limpido)”. Certo, la poesia di Giulia si svolge, si avvolge, si dipana obbedendo al ritmo di una musicalità che mira a connettere e ad amplificare consonanze e dissonanze della Natura e della Storia.
Proprio come tu dici, caro Giorgio, sviluppando un pensiero di Ernest Fenollosa: “Le parole astratte, incalzate dall’indagine etimologica, ci svelano le loro antiche radici affondate nell’azione; e il dinamismo della poesia della Perroni è un lontano parente del dinamismo universale”… E la metafora – che Giulia utilizza moltissimo – è colta da te nel rapporto ancestrale, genetico, “con le relazioni che esistono in natura”. È come se Giulia volesse riconquistare “omologie, simpatie, identità, affinità … i segreti delle relazioni interne tra le ‘cose’, riesplorando anche i miti e le imagery della civiltà del Mediterraneo, gettando ponti tra il visibile e l’invisibile”. Non si potevano cogliere più profondamente le caratteristiche di questo misterioso poema, che avvolge e trascina nei suoi incalzanti ritmi e nel camaleontico iconismo del suo narrato. Non trascurerei i continui rimandi storici che costituiscono un filone sotterraneo, per certi versi un filo d’Arianna di questa labirintica scrittura, che procede generalmente in maniera eccentrica rispetto a qualsiasi significato logicamente predeterminato e unificando senso e non senso. L’istinto poetico della Perroni privilegia, certo, le possibilità innovative della sua neo-lingua; un linguaggio a volte destrutturato, intessuto da stilemi desueti, ma altre volte più collegabile alla tradizione per l’uso dell’endecasillabo e delle sottostrutture metriche dello stesso, per le assonanze, le allitterazioni, le rime. L’istinto musicale, a mio avviso, affinato nel tempo e nella lunga pratica della versificazione, è sicuro e consapevole anche delle possibilità inesplorate della sua lingua poetica e, filosoficamente, sembra ricostituirsi in una cifra ontologica e metafisica, nei suoi analogici rimandi alla trascendenza; tutto ciò in contrasto con il tempo della povertà, in cui il linguaggio ha cessato di essere “casa dell’essere”, per l’avvenuto rovesciamento dell’ontologia nel nihilismo. Se si collegasse la poesia di Giulia all’anomalismo dei linguaggi sperimentali sarebbe facile apprezzare la pratica del contrappasso ad ogni significato, e ancora potrebbe essere ritrovato in questa poesia una qualche ascendenza surrealista. In realtà Giulia si esprime – come ha notato Marcello Carlino – per ossimori. Questa poesia, nel suo anomalismo strutturale opera una riconsacrazione ludica e insieme metafilosofica del significato; se si guarda oltre gli aspetti di dettaglio, essa fa ciò mentre coniuga per contrasto – ripeto – senso e non senso. Questa poesia è nel continuum un aneddoto, simile al Kōan zen di cui Moreno Montanari – ne Il Tao di Nietzsche – scriveva che viene proposto all’apprendista o al lettore, perché dopo essersi sbarazzato da ogni volontà di razionalizzazione, giunga attraverso un suo personale interrogare e peregrinare nelle domande ad una nuova non-logica chiarezza, che “trasformerà il suo modo di essere e di concepire la vita”. R. Barthes, vedeva nel Kōan zen “un aneddoto che viene proposto dal maestro: non di risolverlo, come se avesse un senso, e nemmeno di afferrare la sua assurdità (che sarebbe ancora un senso) , ma di rimasticarlo ‘sino a che casca il dente’ “. Questi versi collegano le contraddizioni e li fanno coesistere senza superarli; gli audaci e a volte anche improbabili accostamenti di parole e di iconismi, svelano e nascondono le lacerazioni dolorosissime della storia e della vita, senza però mai cedere al nihilismo e alla disperazione. La caleidoscopica accensione dei versi, nella pratica ossimorica di oscurità formali e di luminose trasparenze, mira alla gioia, al godimento della bellezza. Anche un barocchismo dei versi che fa pensare a Lucio Piccolo si coniuga all’esperienza della ferace natura siciliana, alle primaverili esplosioni sinestesiche di colori, odori, sapori, al sensuale rifiorire del mondo dopo ogni inverno di violenza e sopraffazione. Tutto ha risonanza anche come Memoria ancestrale, primigenia. Qui ci troviamo d’accordo con ciò che tu scrivi sui miti mediterranei sedimentati.
Tribù di eclissi è verso della Dickinson… Qui l’eclisse, però, è forse mancanza di memoria mitica e storica; il mito serve a conoscere l’inconscio, la storia è funzionale alla coscienza. In ogni caso si raggiunge un’inedita consapevolezza attraverso l’arte, la poesia, che non danno risposte razionali. Pochi sanno dire qualcosa negando l’immediatamente traducibile in senso del significante, come fa Giulia… Tuttavia, i rimandi storici fanno di questa poesia un calembour di notizie e di particolarità non da tutti conosciute per quel che attiene la storia d’Italia, del Meridione e della Sicilia. Giulia opera ancora con una scaltrita capacità d’individuare in maniera sguincia questioni sociali anche contemporanee. C’è inoltre una filosofica consapevolezza della natura conflittuale delle relazioni umane, dei tradimenti delle attese e di aspettative antropologiche e sociali rimaste inevase.
Luigi Celi, Roma 28 aprile 2015
Giulia Perroni da La tribù dell’Eclisse Passigli, Firenze, 2015 pp. 170 € 20
Timido viene il canto
il cappio ha un contatto preciso
il raggio riporta il sereno
dove è fuggita l’anima
Peraltro si fa titubante
il passo che unisce la trave
a forma di antichi narrati
lì dove gridano i morti
Tuppete qua tuppete là
gira la foglia la verità
tenta la vita un giro a mezzo
il mare sogna la sua cavezza
un alto monte seduce il mare
non ha la spuma per navigare
sotto le chiome sta Carolina
ma fugge il vento dalla collina
e tutto quanto già s’addormenta
il bene e il male nessuno sente
solo la pioggia sta sui limoni
come l’avviso dei lucumoni
tante certezze un solo inciso
rimane l’oro sulle camicie
rimane tutto nel suo silenzio
nel tempo d’ocra di Sua Eccellenza
non tuona il mare né più il sovrano
anche le teste nessun ricorda
rimane il mare rimane il monte
una dolcezza una ansietà.
Tuppete qua tuppete là
E nel giardino scoiattola il bimbo
tessera franca sono i guardiani
di là si stinge persino il mare
di un suo bisogno di verità
Tuppete qua tuppete là
Trallallallero trallallallà
Incustodita la luna fugge
non c’è guardiano sopra il mistero
né sulla guglia di mezzanotte
la luce bianca o il fuoco nero
Trallallallero trallallallà
fuori chi parla senno se no
bruca l’ampolla
ghirighigò
Non c’è parola per il silenzio
Incrociano i gigli la fresca notte
la rosa è come una margherita
bianca nel volto ma sulle dita
come un rossore di vanità
Bianca e sognante: m’ama non m’ama
urge al tramonto la sua campana
è tutto un gioco come la vita
la folle foglia di margherita
Interessante senno sennò
bruca la foglia
ghirighigò
Questa è la vita che altro vuoi
la guglia ha fretta di rami d’oro
ha fretta il sangue delle mattine
per dove passa la birichina
Senno di luce senno sennò
bruca la terra
ghirighigò.
Bellissimo barone fastoso
anche tu hai parlato di danaro
sotto lo squallido scalone
risuscitato dallo sfarzo
Sono tornate in su le torrette
e i lillà infuocati di giglio
come fu che l’ardente cipiglio
bisticciò con le lodi?
La guerra fece cucù dai rami
e il sogno si ritirò dal cancello
in una tana di pioggia serrata
per lasciare fuggire la stella
Saffo non voglio sapere
né di tuo fratello, né della prigione
mi basta il fascino delle viole
che hai lasciato quaggiù sulla terra
Barone Wolff non so nulla di te
ma il ritratto è di un grande bell’uomo
non distruggere la visione onorata
che lascia trapelare i canti
Saffo e il barone
l’ammucchiata delle folli corse
nelle macchine al gran premio di Rally
che vanno per funghi e per boschi
Fecero man bassa i delitti
sulle stuoie di languidi araldi
un arco lontano e difficile
preparò la festa agli intrugli
Ma se da dietro a un cappello
un giardino fa capolino
io tendo alla rapida gogna
il profumo che mi fa secca
Erano alberi alti
e la villa non aveva finestre
un sogno masticato di giallo
nella vendetta sicura
Ed anche chi rovistava le stelle
aveva fama di gattopardo
macellaio di spade pesanti
in un paradiso che perdeva le braghe
Lungo la Senna con alberi lunghi
e ombrellini di rame a passeggio
Ed anche in Lettonia o in Ispagna
Fecero rami pazzi martiri e santi
che urlavano come contralti
quando la vita aveva ancora altro da aggiungere
E per favore niente bocche storte
Non mi parlate di angeli scarabocchiati
che con tenaci lanterne rasentano
lungo muri scrostati i pisciatoi delle stelle
I padri a volte seviziano le virtù delle fanciulle
e la santità delle terre
che non appartengono a nessuno
Solo il tempo agita con armi di corallo
la primavera che ha baciato in bocca
la chiesa-madre affollata
Ed era vera la grandiosa licenza del guardare la sponda liberata
il granellino del contrasto dei semi, il terribile amico sonnecchiava
tra i rami della pioggia verso d’oro che si faceva bianco gelsomino
quando spuntava l’alba
Chiedo a Babington una luce come fossi Maria Stuarda
e lo pregai una volta (occhialino aggiustato sul naso)
che inoltrasse le gambe o il fango delle strade
nel rubinetto d’oro della folla e rimanessi intatta
nel mio collo di splendida figura
Fu la terra un segnale di bimbo
fu la terra pestata e illuminata in fondo a un cuore
da vessazioni inutili
Mi accodo a tutto questo
Tutto quel mare sussiegoso e tranquillo
in ogni specchio delle favole antiche
E mia cugina in visconti di numeri
affannati nei quattro salti della torre
affida ad un quaderno tutti i suoi ricordi
Le notizie del padre di suo nonno
Del tempo birichino e incriminato
Lasciato come spegnere
Anche questi morirono in un giorno e tutto fu silenzio
Anche la vita macchiata dal suo sangue
Se potessi fuggire la mannaia!
La sua suocera era addimandata
da tempesta di grilli e si scusava
d’essere così astuta
così grata al dio delle farfalle
Si scusava della follia incipiente
e donava misura e fiori d’oro
al buco stretto di un linguaggio
E chiamava la terra a testimone della vicenda avita
Ora è finita ogni tenue riscossa
Si, la terra
Innocente e sublime in un androne di foglie rosse
quanto più il cammino è vergine veggente
e sdilinquito in rabbie musicali
con l’accento donato ai puri
La terra, connestabile e astrale
Il mio giardino nel fumo di scintille
E Euridice sussulta
Sono morti anche quelli che uccisero
L’ingaggio fece bum bum tra i rami
E si accasciarono venti fanciulli nella neve
La ducea degli inglesi
E mia cugina che sventaglia la luna
E quella villa nel cuore della notte
Quando nessuno può ascoltarne il silenzio
C’è luna piena ancora?
La ricordo
Uno Stuart sposò quella antenata
(signora della villa e del silenzio)
nel nostro sangue si è incarnato lo scettro
siamo pari all’albagia dei numeri
sempre arditi quando soffia una musica
immortali perduti in un viaggio
e stupiti per il male nel mondo
Sempre adusi alle veneri scialbe
nella luce della bellezza urgente
Potessi ancora vivere!
Se nel castello inciampa l’arma bassa delle nevi del giglio
In primavera
quando ancora non ci sono spifferi
cento tazze di succo della mela
nell’inverno appena sbocciato
Fui regina di Francia lo sapete?
liquidata da Caterina come una domestica
per una grave mancanza
e la mancanza era il giovane sposo
Scelsi di traghettare come tutti verso le radici
anche se era il cuore del freddo
Ho un broccato di foglie chiedo unita al dio che mi perseguita
il mio canto di folle dicitura era scritto come un diadema
sulla fronte che su di me nascessero le voglie prone all’armi incredibili
più regina di fastosi miraggi, di convivi
fatti sulla mia pelle
Sono fuori
non mi si lascerà morire tanto spesso lungo viali di magnolie
avranno necessità di nuvole albeggianti sulla stanca corona
del cervello e le sciancate sopravvivono per arrendersi con tutti
i fiumi del passato lungo i porti dell’Everest o le fronde
del deserto dei Tartari in quella nube della trascendenza
che tanto mi fastidia
Fate come non fossi né riguardo per il collare né per l’ignominia
la disapprovazione dei regnanti lo sconcerto dei popoli
il bruciore sotto le ascelle
L’Inghilterra avrà altri maneggi altre pecore al pascolo
Dio non voglia
caricarsi dell’unico arboscello che tanti giochi ha fatto
Altri miracoli sono pronti sugli alberi
Altre sere dove bevuta luna orchestra un ballo
nella villa che si trasforma
Altre serate bevono
Altri tomi brilleranno ruggendo dentro sale
che non hanno ricordi
La prigione scuoterà i suoi diari
e altre mani faranno doni ai bimbi
Altri dolori cresceranno immancabili
Siate seri io non voglio rimorsi
Uscite piano senza fare rumore
Benedico tanti spiragli …
Omero avrà una tomba sotto la melodia degli uccelli
anche quando Venezia turberà la sua musica
e quando la formella non dipingerà più il suo impeto
l’istinto sa che ci si incontrerà nella vibrazione della frivolezza
nell’occhio dato di sbieco al foglio che rovina il mandato
per una buccia esausta di desiderio
Io ricordo un viale
e un fiacre fermo nel viale
e mia zia morta giovane in quella carrozza
eternamente immobile nel silenzio dell’ora
e quasi pioggia nel cielo
Nell’acronia si incontrano le forme i personaggi il sole
la nebbia iridescente in cui si ignora anche quelli che vissero
Come sei alto e candido e in quanto inconoscibile
come amico del vento e del mio cuore!
Venivi ed eri tutto eri le specie che sussurravi
quando nel mio letto sentivo nel silenzio la campagna
eri tutto per me e sempre sei l’azzurro nell’ordito
del pensiero al di là di ogni cosa e di parole.
Sei alto e inconoscibile e per questo alto mio Dio sei Tutto
il greto il fiume la rugiada d’oro che nel sole si spegne
Io sono una bambina in ordine sparso
Dio come è profondo l’abisso!
Lotto tra le pupille per dire che ci sei
raso di mille lune abbarbicato alle gomène
Un’altra civiltà appoggerà la schiena
nel piccolo sonno delle finzioni
la nostalgia ripara l’eccesso
la buia cornice le ruote
E per tutto l’ingresso dell’inverno
e tutte le visioni addormentate
fuoco rovina l’alba
e il suo dolore
fuoco per rami inventa
Talismani di tenebra
Consiglio
Vergine muta
Attanagliata al verde
Contessina degli esuli affannata
nei quattro solchi d’ebano
Tendo le mani al tuo cavallo d’aria
criniera inaccessibile e superba
Le navi inglesi erano di fronte al golfo…
Oh città nello spettrale della luce!
Il parlamento inorridì per le notizie
ma quanta strada aveva fatto insieme!
E fu il Britannia a venire dentro al porto
come a Palermo nella notte buia
il vascello ha un destino silenzioso
nel correre a un agguato
Ora la finestra lascia sbalordire gli uragani
chi non vorrebbe partire ha sempre un albero che si contorce
ci prepariamo alla guerra con una mano sulle valige
nella murata memoria di ogni apprendista stregone
Alto è il cammeo nel brivido
Raccolgo le mie cose è tempo di partire
La pace ha ordito i suoi merletti
nel punto più alto della cattedrale
nel quasi irraggiungibile
della notte che si dissolve
L’importante è che il cerchio si chiuda
nella perfezione assoluta della sua ruota
Anche i calessini si macchiano.
tuppete qua tuppete la, ghirigò ghirigà, trallallero trallallà, poi il macellaio di spade pesanti (Macelleria Spada di Faenza ringrazia per la pubblicità occulta), ma cos’è questa roba che non si distingue minimamente da tutta una serie di divagazioni senza costrutto??? Andiamo, per favore.
Ricevo alla mia email e trascrivo il commento di Giulia Perroni:
Caro Giorgio
ho letto il tuo commento che mi convince moltissimo. C’è una natura vibrante di cui noi siamo l’eco o parte integrante; e la scrittura poetica è, secondo me, la più adatta ad esprimere questo impasto di interno ed esterno; è il ritmo stesso dell’esistenza, dell’essere e dell’esserci. Se entriamo in questo flusso entriamo nel ventre della vitalità. E oserei aggiungere che anche l’invisibile tenta una strada attraverso la poesia, e le metafore e il simbolo ne sono una disperata e deliziosa ricerca. Grazie per aver individuato una fondamentale arcaicità che ho cercato di sottolineare anche con l’assunzione del termine eclisse.
Ti faccio anche i complimenti per come hai articolato le pagine e per la scelta delle immagini di accompagno.
Un saluto
Giulia
Questo tipo di poesia mi affascina, mischiando linguaggi diversi, stile aulico e infantile, sfruttando tecniche anche delle filastrocche per raggiungere le profondità della natura umana, le voci ancestrali. Un saluto.
Poesia ‘sbarazzina’ che non dispiace: non ha certo il ‘dono’ della sintesi.
A questo proposito, trascrivo quello che mi ha scritto Giulia Perroni circa la scarsa capacità di “sintesi” della sua poesia: «che la sintesi nella mia poesia si coglie dopo aver passato tutti i” trabocchetti “della frammentazione. E’ una sfida vitale che io pongo al lettore, la sfida stessa che ci fa la vita o forse anche l’arte di un oggi come io la percepisco. Non pretendo che tutti siano disposti a seguirmi ma sono convinta che chi segue il percorso avrà il piacere di scoprire come l’unità si formi arricchita da tante sfaccettature».
Il problema di come ricomporre l’infranto è comune a tutta la poesia moderna che tenti un discorso unitario, polifonico o monologante che sia, noi siamo in tutto e per tutto gli eredi del frammento e del frammentismo, ma, appunto, se non possiamo evitare il «frammento», possiamo tentare di evitare il «frammentismo», circumnavigarlo, esorcizzarlo… insomma, credo che quello che ha fatto Giulia Perroni in questo suo libro sia proprio questo: offrire al lettore un fiume di frammenti compresi i detriti che il fiume si porta appresso… E qui il discorso si riconnette con quanto dicevamo in un altro commento di come sia possibile, e se sia possibile riformulare in termini odierni la Commedia di Dante, la sua polifonia, la sua ricchezza…
Giorgio, questo non è frammentismo, è ghirighismo 🙂
Sarebbe meglio che leggesse il libro ma forse è chiedere troppo ad uno che è inciampato sul ghirighigò
Giulia Perroni
Sì è chiedere troppo cara signora Perroni, io non sono solito aggirare la poesia come fa Lei quando la scrive, per cui inciampo nei ghirgò, nei tuppete qua e nei trallallero trallallà, della sua ne ho avuto abbastanza in questo articolo, i miei peccati intendo espiarli in altro modo, più leggero.
Sono quattro brani da non leggere di fila come può forse non essere chiaro.
Sono stralci.
Comunque non voglio appenarla oltre. Mi dispiace che non ci siamo, secondo me, capiti.
Giulia Perroni
No no ci siamo capiti benissimo, quando il commento è negativo o non ossequioso come sui siti di poesia di bassa lega si attacca il commentatore che si è espresso liberamente.
Anche l’immortale aria di Musetta “Quando me’n vo, quando me’n vo soletta” della Bohème di Giacosa-Illica fu modellata sulla filastrocca “Cocoricò cocoricò bistecca”. Per fare un solo esempio. La cantilena è una tecnica che va saputa sfruttare e inserire nella poesia. Mi pare che Perroni questo l’abbia benissimo.
“Quando men vo” è una romanza in tempo di valzer lento della “Bohème” di Giacomo Puccini, cantata nel secondo quadro da Musetta. Il libretto fu scritto da Giacosa e Illica con molta difficoltà nell’adattamento del romanzo francese a un’opera musicale. Accade spesso, anche nelle opere di Verdi, che la poesia del libretto si debba adattare alla musica già composta dall’artista. Se invece prima nasce il libretto e dopo la musica (più raramente), i poeti devono seguire (indovinare?) i progetti del musicista. Peccato non avere qui lo spartito del valzer di Musetta, altrimenti si comprenderebbe subito dalle frasi musicali la ragione di quelle ripetizioni che possono sembrare una filastrocca. Il libretto è servo della musica.
Giorgina Busca Gernetti
Nel caso della Bohème il libretto non coincide con lo spartito. Siccome c’erano queste diffocoltà di cantabilità nel libretto (che era una vera e propria poesia di endecasillabi e settenari) fu proprio Puccini a suggerire a Giacosa la filastrocca “Cocoricò…” per rendere l’aria più cantabile. E l’aria del libretto fu modellata da Giascosa sulla cantilena. Queste informazioni le prendo da saggi di Mosco Carner e Ilaria Gallinaro.
nello specifico non stiamo parlando di un libretto
A Flavio. Io e Gabriele stiamo parlando di un celebre brano della “Bohème” in cui è inevitabile parlare anche del libretto, visto che l’Opera, tranne l’Ouverture e le Sinfonie, è unione di parole e musica.
Giorgina
Il sistema ha messo la risposta a Gabriele sotto la tua frase
Sì parliamo dello stesso pezzo. La ringrazio per avermi fatto rivivere le atmosfere melodrammatiche. La Bohème insieme all’Elisir d’amore è senz’altro l’opera che amo di più. Anzi la mia passione per la rima giocosa nasce proprio dal personaggio cialtronesco di Dulcamara. Ma questa è un’altra storia.
PS. Gallinaro, che non conosco personalmente, per quello che so è docente a Parma, specialista di Tasso, della letteratura melodrammatica e degli intrecci tra musica e poesia (argomento che mi affascina da sempre).
Quella che conosco io è torinese. Strano caso d’omonimia. Dell'”Elisir d’amore” io amo “Una furtiva lacrima” specialmente cantata da Pavarotti.
Un saluto e … diamoci del “tu”.
Giorgina
Grazie per la precisazione. Conosco personalmente Ilaria Gallinaro, se non è un’omonima. Come dicevo prima, “accade spesso, anche nelle opere di Verdi, che la poesia del libretto si debba adattare alla musica già composta dall’artista.” Aggiungo ora che spesso Giuseppe Verdi correggeva da solo il libretto per far aderire le parole e i versi alla sua musica già composta o già ideata nella sua mente. Così fece anche Puccini. Comunque è un valzer lento in cui la prima frase (“Quando men vo” è molto lenta mentre la ripetizione “quando men vo soletta” è molto veloce. Puccini ha fatto ciò che ha voluto indipendentemente dal libretto.
Ma parliamo dello stesso pezzo?
Giorgina
Caro Almerighi le ho citato un libretto perché la rima giocosa dopo Leopardi è quasi sparita dalla poesia italiana (a parte casi isolati tipo Ragazzoni Palazzeschi Scialoja i romaneschi ecc.) e spesso si ritrova nel melodramma, nell’opera buffa ma anche in un’opera apparentemente seria come La Bohème ma ricca di allacci con il nonsense, la filastrocca, il buffo. Ma la storia della poesia è piena di autori che utilizzano cantilene in opere più o meno serie. Un saluto.
Dante scrive: «Papè Satan, Papè Satan Aleppe», un gioco di parole forse di origine onomatopeiche, una ricetta magica forse, o semplicemente dei fonemi assemblati per aludere semanticamente e non significare niente; questi modi sono sempre stati usati dai poeti nelle loro poesie per suscitare echi e sensazioni nel lettore, echi e sensazioni indefinite, quindi non mi meraviglio che Giulia Perroni abbia inventato “ghirighigò” e “Tuppete qua e tuppete là”, tutte queste fraseologie sono esemplificazioni di un linguaggio primitivo e infantile, direi transmentale che la storia ha seppellito… è questo, credo, il messaggio cifrato che Giulia Perroni voleva far filtrare… e cmq non possiamo poi decidere in base a questo punto della validità o meno di una poesia…
«Papè Satan, Papè Satan Aleppe»,
Dantisti e studiosi dei linguaggi medioevali hanno cercato di interpretare questo verso dantesco senza fermarsi alla spiegazione più facile, cioè una serie di fonemi senza senso.
Senza dubbio è un’esortazione / esclamazione per spaventare Dante, ma con quali parole. L’unica certa è Satana, ma le altre? Il latino “papae” (greco παπαί) dovrebbe essere un’esclamazione di stizza come il nostro “accipicchia” “oddio”.
Satan = Satana. In greco “avversario”
Aleppe, pronuncia medioevale dell’ebraico “aleph / alef” derivante dal fenicio “aleph ” che è la prima lettera dell’alfabeto, divenuta in greco “alpha”. Significherebbe “il primo essere”, cioè Dio, ma anche “il primo nemico di Satana”.
Vi sono molte altre interpretazioni.
Forse significa: “Oh Satana, oh Satana Dio” (Domenico Guerri), Oppure:
“Presso Satana, presso Satana, l’Inespugnabile.” (Todisco da studi greci)
Giorgina Busca Gernetti