POESIE SCELTE IN LINGUA URDU di MIRZA ASADULLAH GHALIB (1797-1869) traduzione di Steven Grieco-Rathgeb in tandem con il Prof. Teppei Yamada, dell’Università Meiji di Tokyo. UN POETA PER TUTTI I TEMPI – La lingua Urdu e il ghazal – Singoli sher (Prima traduzione in italiano)

IndiaCenni biografici

Mirza Asadullah Ghalib nacque a Agra nel 1797 e morì a  Delhi nel 1869. Discendeva da una famiglia turca dell’Uzbekistan. Come altri uomini di stirpe nobile e guerriera dell’Asia Centrale, il nonno, Mirza Kokan Beg, era calato in India verso la metà del XVIII sec. in cerca di fortuna.

Orfano del padre a 5 anni, Ghalib crebbe come rampollo di una famiglia aristocratica non agiata. Imparò in giovanissima età a scrivere versi in Persiano, oltre che in Urdu. A 13 anni fu sposato con Umrao Begum, una ragazza del suo stesso ceto. Dopo il matrimonio si trasferì a Delhi. Nacquero figli, ma i due non raggiunsero mai una vera intesa, vivendo in appartamenti separati nello stesso haveli (casa padronale). Tranne un lungo viaggio compiuto a Lucknow, Benares e Calcutta, il poeta non lasciò mai più Delhi.

La famiglia conobbe diverse disgrazie. Forse la più grave per il poeta fu la scomparsa in giovane età di Arif, l’amato figlio adottivo. Le ristrettezze economiche lo perseguitarono per tutta la vita. Non riusciva a pagare il macellaio e il vinaio, perché infatti mangiava quasi solo carne e pane, ed era bevitore appassionato. Spesso dovette ricorrere agli usurai.

Ghalib ebbe una relazione molto intensa con una cortigiana che morì giovane in circostanze mai del tutto chiarite, ma certo tragiche. Tali esperienze, e l’indifferenza dei contemporanei verso la sua opera, lo portarono sempre più ad appartarsi dal mondo. Per un breve periodo fu precettore poetico dell’ultimo Imperatore Mughal, Bahadur Shah Zafar, grazie a cui poté percepire una pensione, peraltro modesta.

Nell’ultimo periodo di declino dei Mughal, le casse di stato erano vuote, e la stessa famiglia regnante era ridotta sul lastrico. Nel Lal Qila, un tempo splendido palazzo imperiale, il Badshah, le mogli e i fedeli ormai occupavano poche stanze, dove erano costretti a vivere al lume di qualche fioca candela. La fine dell’Impero fu affrettata dalla presenza nel subcontinente degli Inglesi, intenti a influenzare le vicende politiche a proprio vantaggio, senza intervenire di prima persona. L’instabilità politica sfociò nella grande e cruenta sommossa nazionale, detta The Indian Mutiny (1857-59), di cui Mirza Ghalib fu diretto ma imparziale testimone.
 

huñ garmi-e nishāt-e tasavvur se naghmah-sanj
maiñ andalīb-e gulshan-e nah āfrīdah huñ

 
nelle mie melodie è il riverbero di una gioia profonda –
sono l’usignolo di un giardino che sarà

 Il maharana Amar Singh II e una concubina

Il maharana Amar Singh II e una concubina

L’eco dei torbidi che sconvolsero il mondo e l’epoca di Ghalib sono in genere rintracciabili soltanto nell’epistolario di questo grande letterato, molto meno nella sua opera poetica. Le lettere ci dicono che egli visse i suoi tempi con tutto lo slancio umano di cui era capace un uomo della sua sensibilità. Oggi però noi ci ci rendiamo conto che l’angoscia ghalibiana dell’essere, la sua solitudine, hanno una dimensione  cosmica e senza tempo. Ghalib è poeta non della storia, ma dell’eternità.

In India il modernismo viene in genere fatto risalire al secolo 19°, e all’impatto che l’Occidente ebbe su questa parte del mondo. Senza negare questa ovvia realtà, l’opera poetica di Ghalib tuttavia esprime un modernismo Indo-centrico che non ebbe niente a che vedere con le influenze occidentalizzanti, ma è frutto di dinamiche culturali specifiche al Subcontinente, avviate in tempi più antichi, e di cui elemento fondante è l’incontro secolare fra due grandi tradizioni culturali – la Persiana e l’Indiana. Ghalib si situa al vertice di questo processo.

Se l’affermarsi dell’essere umano come individuo è uno dei tratti determinanti del modernismo in genere, possiamo dire che Ghalib fu uno dei nostri primi moderni. Egli iniziò a definire l’uomo in questo senso. Privato delle antiche narrazioni come modello per il proprio agire, delle certezze della tradizione, della solidarietà di un determinato ceto o gruppo sociale, della sicurezza di religione e fede in Dio, l’uomo moderno emerge come individuo solo, vulnerabile, ed esposto a tutte le intemperie, che si interroga su ogni cosa e vive con forte angoscia l’oscurità della vita. Non ha né casa né dimora, ma si trova, rahguzar, sul ciglio della strada (vedi sher n. 4, “non un tempio, non la Ka’aba…”).

Dove si pone dunque l’uomo in questo mondo ostile;  quale la condizione del poeta di fronte a se stesso e agli altri; dove si situa l’amore in una società caratterizzata dall’indifferenza?

Da qui è breve il salto al quesito cruciale – cosa sia l’Essere – che sottende tutta l’opera poetica di Ghalib. Tuttavia, egli è profondamente scettico di ogni possibile spiegazione: “ogni luogo, ogni attimo, cantano il proprio specifico non-essere nell’Essere”. In questo il nostro poeta si avvicina per certi versi al nichilismo occidentale. Con la differenza che in lui il rifiuto del mondo è del tutto assente, e la disperazione si stempera nella coscienza che la fine corsa del nichilista è anch’essa inganno, semplice tappa sulla via dell’infinita esistenza, della memoria che involontariamente crea i diversi stadi e le inesauribili trasformazioni della vita. A questo proposito, un suo distico, prossimo al pensiero indiano tradizionale:

Self-encrypted is what we take as our waking state
they are still in dream who have awoken in dream
 

ascoso in sé è quel che noi pensiamo realtà diurna
sono ancora in sogno coloro che si svegliano in sogno

India 5Il mondo allora diventa tamasha, uno spettacolo che ora diverte, ora lascia sdegnati. Ghalib ebbe suprema la facoltà di ridere di se stesso, della sua poesia e delle sue passioni. Da una parte il poeta intravede in ogni attimo l’unità del Tutto – “sempre il cielo si china giù per salutare la propria luce” – da un’altra egli si trova a contemplare i frantumi della vita, dell’amore, dello spirito.

Oggi Ghalib ci appare come un gigante della poesia, e noi volgiamo lo sguardo verso lui per ringraziarlo del suo estremo ardire e della sua angoscia, del suo spirito innovatore e penetrante, soprattutto per essersi addentrato, senza facili certezze, nel dilemma dell’essere e del non-essere.

Sempre scettico di se stesso, Ghalib spinge i suoi lettori a esserlo di se stessi.

donna cinese antica

donna cinese antica

La lingua Urdu e il ghazal

 La lingua Urdu si sviluppò in India dal X sec. in poi, negli accampamenti militari degli invasori musulmani provenienti da Occidente. Essa è commistione delle lingue locali, basate sul Sanscrito, con elementi di Persiano, Arabo e Turco. Con il tempo l’Urdu divenne lingua letteraria delle più raffinate. Grandi poeti lo preferirono al Persiano per scrivere le loro opere più significative.

Il ghazal, forma poetica di origine Araba e poi Persiana, si articola in una sequenza di singoli bayt, o distici, in numero variabile.

I due versi del primo distico fanno “rima” (più propriamente si tratta di un ritornelloradif). Questa si ripete nel secondo verso di ciascun distico successivo. Lo schema dunque è: aa, ba, ca, da, ea, fa, ecc.

Se è impossibile enumerare in questa sede le altre convenzioni stilistiche legate alla forma, è necessario però dire che il ghazal non prevede, in genere, lo sviluppo di un dato tema poetico su tutto l’arco della composizione – così come succede, ad esempio, nel sonetto occidentale (che da esso sembra derivare). Ciascun bayt (distico) affronta un tema, una riflessione, una immagine, e la sviluppa, risolvendola al suo interno, per cui risulta un mondo completo in se stesso.

Si dice che il ghazal sia l’anima della poesia Urdu. In Ghalib esso è come una collana di perle: ogni distico è unico, ma legato agli altri per mezzo di un filo tanto sottile quanto tenace.

Questa è la prima volta che viene proposta una scelta di ghazal del poeta indo-musulmano tradotta in italiano e disancorata dalla ricerca filologica pura.

Le poesie di Ghalib, specialmente in forma di popolarissime canzoni, costituiscono ancora oggi nel subcontinente un patrimonio poetico vivente amato e condiviso da tutti. Tipico di quell’ethos è proprio il singolare fatto che i versi di un poeta così arduo e spesso oscuro, possano stare sulle labbra anche dell’uomo di strada. Ciò è dovuto in parte al fatto che in Ghalib, è del tutto fluido il passaggio, nello stesso contesto, dal dialogo amoroso al dialogo profondo con il Sé e con l’Inconoscibile.

Presentiamo tre ghazal e una serie di sher,  nome che designa un distico che spicca per bellezza e significato, e viene dunque spesso scorporato dal ghazal di appartenenza e presentato da solo.

Per la traslitterazione dall’originale in lettere Romane, si è usato il sistema diacritico semplificato.

 Il maharana Amar Singh II e una concubina

Il maharana Amar Singh II e una concubina

               Ghazal

sab kahāñ kuchh lālah-o-gul meñ numāyāñ ho ga’īñ
ķhāk meñ kyā sūrateñ hoñgī kih pinhāñ ho ga’īñ

non tutti, solo alcuni apparvero nei fiori e nelle foglie –
chissà i volti che rimangono nascosti nella polvere

yād thīñ ham ko bhī rangārang bazm-ārā’yāñ
lekin ab naqsh-o-nigār-e tāq-e nisyāñ ho ga’īñ

anche noi ricordiamo lo splendore di sontuose e polìcrome feste
meri arabeschi ormai, che sbiadiscono nella nicchia dell’oblìo

thīñ banāt un-na’sh-e-gardūñ din ko parde meñ nihāñ
shab ko un ke jī meñ kya ā’ī kih ’uriyāñ ho ga’īñ

le figlie dell’Orsa rimasero celate nel velo diurno –
perché mai ascesero nude, radiose nella notte?

jū-e khūñ āñkhoñ se bahne do kih hai shām-e firāq
maiñ yih samjhūñgā kih sham’eñ do firozāñ ho ga’īñ

la sera dell’addìo, sgorghi pure un fiotto di sangue dagli occhi –
mi farà pensare a due luci diventate incandescenti

in parīzādoñ se leñge khuld meñ ham intiqām
qudrat-e haq se yihī hūreñ agar vāñ ho ga’īñ

di questa progenie di fate ci vendicheremo in cielo –
se per giustizia divina le ritroveremo houri (donzelle) lassù

nīñd us kī hai dimāgh us kā hai rāteñ us ki haiñ
terī zulfeñ jis ke bāzū par pareshāñ ho ga’īñ

suo è il sonno, suo l’animo, sue le notti
fra le cui braccia si sciolgono inquiete le tue chiome

maiñ chaman meñ kyā gayā goyā dabistāñ khul gayā
bulbuleñ sun kar mire nāle ghazal-khvāñ ho ga’īñ

al mio entrare in giardino, il coro di gorgheggi si fece attento
ascoltando i miei lamenti gli usignoli divennero poeti

vāñ gayā bhī maiñ to un ki gāliyoñ kā kyā javāb
yād thīñ jitnī du’ā’eñ sarf-e darbān ho ga’īñ

e se anche andassi lassù, che risposta dare alle ingiurie di lei:
le preghiere che ricordavo le sprecai tutte sul guardiano

jāñ-fizā hai bādah jis ke hāth meñ jām ā gayā
sab lakīreñ hāth kī goyā rag-e jāñ ho ga’īñ

il vino è afflato vitale – le linee della mano che regge il calice
vanno tutte pulsando verso la grande vena dell’Essere

ranjh se khūgar hu’ā insāñ to mit jātā hai ranj
mushkileñ mujh par parīñ itnī kih āsān ho gaīñ

quando al dolore l’uomo si abitua, il dolore se ne va –
di guai me ne capitarono tanti, finché non mi parvero leggeri

yūñ hī gar rotā rahā ghālib to ay ahl-e-jahāñ
dekhnā in bastiyoñ ko tum kih virāñ ho ga’īñ

gente del mondo! se Ghalib continua a versare lacrime così
questi rioni affollati diventeranno una città fantasma

India 4
Singoli sher

* * *
yā rab zamānah mujh ko mitātā hai kisliye
lauh-e jahāñ pah harf-e mukarrar nahīñ hūñ maiñ

Dio mio, perché il Tempo mi cancella?
io non sono una lettera (cifra) scritta due volte sulla lavagna del mondo

* * *
ab maiñ hūñ aur mātam-e yak shahar-e ārzū
torā jo tū ne ā’inah timsāldār thā

e ora io sono, e il dolore di una città che anela:
lo specchio che rompesti era creatore d’immagini

* * *
dair nahīñ haram nahīñ dar nahīñ āstāñ nahīñ
baithe haiñ rah-guzar pah ham ghair hameñ uthā’e kyūñ

non un tempio, non la Ka’aba, non una porta, né una soglia:
stiamo seduti sul ciglio della strada – perché mandarci via?

* * *
nah gul-e naghmah hūñ nah pardah-e sāz
maiñ hūñ apnī shikast kī āvāz

non sono né il fiore del canto, né il mistero della cetra:
io sono la voce del mio stesso spezzarsi

* * *
hai kahāñ tamannā kā dūsrā qadam yā rab
ham ne dasht-e-imkāñ ko ek naksh-e pā paaya

dove sta il secondo passo del desiderio, oh Signore –
sulla desolazione del vissuto abbiamo trovato
l’impronta di un piede solo

India 6

Ghazal

hāñ khayo mat fareb-e hastī
har chand kaheñ kih hai nahiñ hai

no, non consumarti nell’abbaglio delle apparenze
anche se dicono, “qualcosa c’è, forse non c’è”

hasti hai nah kuch adam hai ghalib
ākhir tu kyā hai ai nahiñ hai

Ghalib, Essere e Nulla entrambi vacillano –
in fondo, come puoi tu essere e non essere

.

Ghazal

nah hu’ī gar mire marne se tasallī nah sahī
imitihāñ aur bhī bāqī ho to yih bhī nah sahī

se la morte non mi recasse alcun conforto, pazienza
dovessi superare altre prove, di nuovo, pazienza

ek hangāme pah mauqūf hai ghar kī raunaq
nauhah-e gham hī sahī naghmah-e shādī nah sahī

è il continuo via vai che dà calore alla casa –
se questo è un grido di angoscia, non un canto festoso, pazienza

nah satā’ish kī tamannā nah sile kī parvā
gar nahīñ haiñ mire ash’ār meñ ma’nī nah sahi

non ho sete di plausi, né bramo compensi:
se nei miei versi non è alcun senso, pazienza

.

Ghazal

zulmat-kade meñ mere shab-e gham kā josh hai
ik sham’a hai dalil-e sahar so ķkhamosh hai

nella mia buia dimora, la notte di dolore trabocca
c’è una candela, segno dell’alba, ma è spenta (ma ora riposa)

dāgh-e firāq-e suhabat-e shab kī jali hu’i
ik sham’a rah ga’i hai so vuh bhī ķhamosh hai

arsa dall’angoscia del notturno lasciarsi
è rimasta una candela – anch’essa è spenta

āte haiñ ghaib se yih mazāmiñ khiāl meñ
ghālib sarīr-e khāmah navā-e sarosh hai

giungono dal Vuoto questi temi all’immaginare –
Ghalib! il frusciare della penna è richiamo dell’Arcangelo

*Questo lavoro è frutto di una collaborazione fra A.shok Vajpeyi e Steven Grieco. Il primo dei contributori è poeta in lingua Hindi e saggista. Ha creato e diretto per diversi anni il Bharat Bhavan Culture Centre, Bhopal, nel Madhya Pradesh. Il secondo è poeta in lingua Inglese e traduttore.

Steven Grieco

Steven Grieco

Steven J. Grieco-Rathgeb, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi.

è stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia.

Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka, in tandem con il Prof. Teppei Yamada, dell’Università Meiji di Tokyo. In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni. Dieci sue poesie sono comprese nella Antologia di poesia a cura di Giorgio Linguaglossa Come è finita la guerra di Troia non ricordo (Roma, Progetto Cultura, 2016) indirizzo e-mail: protokavi@gmail.com

44 commenti

Archiviato in Poesie di Mirza Asadullah Ghalib, Poesie in lingua urdu

44 risposte a “ POESIE SCELTE IN LINGUA URDU di MIRZA ASADULLAH GHALIB (1797-1869) traduzione di Steven Grieco-Rathgeb in tandem con il Prof. Teppei Yamada, dell’Università Meiji di Tokyo. UN POETA PER TUTTI I TEMPI – La lingua Urdu e il ghazal – Singoli sher (Prima traduzione in italiano)

  1. Quando Mahmud di Ghazni aprì la via alla conquista musulmana dell’India, portò con sé la Zeban-e-Urdu, la lingua dei suoi soldati, delle sue orde.

    L’antica lingua iranica, indoeuropea come il Sanscrito, conobbe nella sua evoluzione storica vari stadi; uno di questi fu il Dari di cui un dialetto, il Ghaznavi, e’ ancora comunemente parlato nella corrispondente regione afghana. Quando Mahmud, di lingua Dari, invase e razzio’ l’India nord-occidentale, contava con un esercito composto in gran parte da soldati di lingua turca, che utilizzavano una sorta di lingua franca, la Zeban-e-Urdu, la lingua dell’esercito. La parola Urdu è infatti di origine turca e indicava accampamento militare, esercito, e il termine ha finito così per significare nelle lingue europee una moltitudine bellicosa e barbara, un’orda appunto.

    La lingua nobile dei conquistatori islamici era il Persiano, quella della loro religione l’Arabo, quella del loro esercito la Zeban-e-Urdu, quelle del popolo conquistato erano le varie lingue regionali, dette Bhashas, evolutesi dal Sanscrito. Il processo di fusione di queste lingue diede origine al cosiddetto Hindustani. È questo un termine coniato alla fine dell’Ottocento da un funzionario britannico, che ne studiò la grammatica e ne compilò un dizionario. Si sviluppò nella zona di Delhi, per poi espandersi in tutto il subcontinente; ma fu nelle corti del Deccan, che osteggiavano la tradizione puramente persiana del Nord, dove acquisì ampia popolarità e dove venne impiegata in poesia; presto divenne la lingua dei Moghul, convivendo con tutte le altre lingue e dialetti locali.

    Ma lo Hindustani in realtà già si componeva di due lingue: Hindi e Urdu. Le due lingue condividono la stessa grammatica di base e la stessa percentuale di vocaboli derivanti dal Persiano, dall’Arabo e dal Turco ( circa il 40 % ); quello che le distingue e separa maggiormente è la scrittura, poiché la Hindi utilizza l’alfabeto Devanagari, mentre l’Urdu si esprime coi caratteri Nasta’liq, di derivazione araba e naturalmente da destra a sinistra. Nella Hindi forbita e ufficiale si privilegiano i termini derivanti dal Sanscrito, come nell’Urdu quelli arabo-persiani, rendendo ad alto livello assai diverse le due lingue che invece, nel linguaggio popolare, presentano differenze molto minori.

    Per questo è la Hindi la lingua dei films di Bollywood, dove però si privilegia l’Urdu classico ( parlato dai musulmani indiani e lingua ufficiale del Pakistan) nelle canzoni, che tanta parte hanno nel successo di una produzione, comunque comprensibili per la stragrande maggioranza dei cittadini di entrambe le lingue. Con l’avvento di Internet si è poi diffuso una sorta di Urdu/Hindi translitterato ai caratteri latini, che rende immediatamente comprensibile ogni sito, messaggio o scritto online ad un enorme pubblico, che comprende anche gli emigrati di seconda generazione nei 5 continenti, che generalmente conoscono solo la lingua parlata.

    Come detto, le canzoni dei films Bollywoodiani sono spesso in Urdu classico, poiché questa lingua e’ considerata una delle piu’ belle e musicali del mondo. La forma poetica più rappresentativa e nota e’ il Ghazal, amata e cantata dagli appartenenti ad ogni religione dell’Asia meridionale. Si tratta basicamente di una sequenza di strofe in rima indipendenti, ognuna di due versi, il secondo dei quali deve sempre terminare con la stessa parola e che seguono tutte lo stesso metro che consta di 19 varianti. Oggi è una forma stilistica prioritariamente utilizzata per la composizione di Na’t, odi religiose in onore del Profeta Maometto.

    (da Guida India)

  2. gabriele fratini

    Mirza Ghalib è un nome che in Italia, e in Occidente, non dice nulla, ma si tratta di un poeta veramente popolare, conosciuto e cantato da milioni di persone, come altri autori del genere Ghazal. Chiamarle poesie forse è anche riduttivo (per l’idea che si sta affermando oggi di poesia), sono testi che coinvolgono poesia, canzone e religione-filosofia. I poeti italiani che si accapigliano per vendere 100 copie in più o leggere davanti a 50 persone non hanno nulla a che vedere con questi cantori orientali. Un saluto.

  3. Mirza Asadullah Ghalib affascina il lettore per la freschezza, quasi ingenuità, nel contempo profondità filosofica dei suoi versi, strutturati in distici rimati nel modo illustrato con precisione da Steven Grieco.
    I veri poeti della fascinosa India, almeno per le mie scarse conoscenze, hanno questo nucleo ispirativo: il cielo notturno, le stelle, l’alba, la natura, gli uccellini, i fiori, l’amore, la sofferenza dell’uomo e la pazienza nel sopportarla. Mi riferisco anche a Rabindranath Tagore, benché l’epoca, la regione indiana, la lingua, la struttura delle poesie siano diverse da quelle di Mirza Asadullah Ghalib.
    Forse è l’anima dell’India che sa creare poeti così grandi.
    Mi piace riportare alcuni distici veramente pregevoli (quattro Ghazal e uno Sher):
    .
    “non tutti, solo alcuni apparvero nei fiori e nelle foglie –
    chissà i volti che rimangono nascosti nella polvere”
    .
    “le figlie dell’Orsa rimasero celate nel velo diurno –
    perché mai ascesero nude, radiose nella notte?”
    .
    “”suo è il sonno, suo l’animo, sue le notti
    fra le cui braccia si sciolgono inquiete le tue chiome”
    .
    “al mio entrare in giardino, il coro di gorgheggi si fece attento
    ascoltando i miei lamenti gli usignoli divennero poeti”
    .
    “non sono né il fiore del canto, né il mistero della cetra:
    io sono la voce del mio stesso spezzarsi”

    Giorgina Busca Gernetti

  4. È che oggi forse si dovrebbe ritornare a scrivere in distici, in ritornelli di distici… riprendere le antiche formule e ripartire da lì; scrivere pensieri conchiusi in immagini nell’arco di un distico, e poi nel distico seguente percorrere di nuovo il solito schema (magari con una variante), ovvero, provare ad introdurre un altro verso (la strofe caudata di tre versi) etc., e così via.
    Il fatto è che oggi si è persa la manualità della scrittura, si scrive senza far riferimento a nessun genere o sotto genere, e i risultati si vedono purtroppo! – Il parallelismo cui costringe un distico è una forza magnetica, un binario che soltanto chi sa la poesia nella propria pelle può capire; il parallelismo implicito in un distico, è cosa diversa da un distico con una coda (aggiunta di un terzo verso), a volte (anzi, sempre) basta una variante a cambiare il centro di gravità di tutto il componimento.
    Quindi io consiglierei chi vuole fare poesia a studiare le antiche formule, di scrivere in distici, per esempio, e in immagini di distici…

    Chiedo ad Antonio Sagredo e a Steven Grieco di farci conoscere la loro dotta opinione.

  5. Rilucono le stelle in un frammento
    d’immenso nella notte senza vento.
    .
    L’assenza dell’amata squassa l’animo
    dell’uomo che la invoca in un lamento.
    .
    Acceca il sole con la luce d’oro
    i mietitori curvi sul frumento.
    .
    Prestami la tua arte, sacro vate,
    perché possa cantare il mio tormento.
    .
    Foglie frementi nel bosco armonioso
    di canti d’uccelli in festoso concento.
    .
    GBG

  6. Steven Grieco

    Certo, la questione della forma a cui accenna Giorgio sarà sempre un problema per la poesia e per i poeti. Ma è proprio, e in modo sovrano, la struttura aperta o libera a valere oggi come forma poetica “tradizionale”. Quella che più ci impone un rigore. (Per il domani, chissà.)
    A proposito, sembra che i giovani giapponesi usino spesso il haiku o il waka per messaggiarsi tramite telefonino… O allora è stata solo una moda qualche anno fa, che è già tramontata.
    In questi tempi spietati, ma anche incredibili e entusiasmanti, in cui ogni tradizione è stata ridotta all’assurdo, sembra che un vero poeta (ma, se è per quello, anche un vero artista con i suoi dipinti e le sue installazioni) debba mettere tutto il rigore e la disciplina proprio nella forma aperta, la forma per eccellenza che ti dà tutte le possibilità, ma poi ti castiga se di essa hai fatto cattivo uso.
    Lo stesso Ghalib lamentò verso la fine della sua vita, in un suo distico (che adesso non ho a portata di mano), il fatto che la forma del ghazal e le immagini convenzionali ad esso associato (rosa, usignolo, giardino, candela, rugiada, etc.) imprigionassero troppo la sua vena creativa. Più moderno dei moderni, già alla metà dell’Ottocento, quando i poeti francesi iniziavano solo vagamente a muoversi in questa direzione, Ghalib sognava la possibilità di esprimersi con una forma espressiva aperta.
    Tanti anni fa ho visto le bozze originali di diverse poesie di Shelley. Aveva già deciso il metro e la rhyming scheme, il tipo di rima, ponendo sopra il rigo gli accenti tonici (8, o 10, a seconda). Gli accenti tonici c’erano già tutti, ma qua e là ancora mancava la parola prescelta per completare quel verso (di solito all’interno del verso, per ovvie ragioni). Ecco, questo ti fa capire che il poeta che usa una forma poetica specifica deve comunque già avere nel cuore e nell’orecchio il ritmo – voglio dire la musica – del verso, prima ancora della scelta di tutte, tutte le parole. Per un poeta di secondo ordine potremmo dire: ah, ecco, la musichetta a scapito del senso, ma le bozze delle poesie di Shelley invece ci mostrano quanto la musica già contenga il senso profondo del dire, e quanto in poesia musica e significato non possono proprio scindersi.
    Ed ecco che mi vien da pensare che quindi anche il poeta oggi deve imporsi una grandissima disciplina con la forma aperta: perché una poesia senza musicalità e comunicazione di un significato (quale che sia e in qualsiasi modo lo si faccia, anche a testa in giù), be’, non so, forse non si tratterebbe più di poesia. Penso ad esempio, in musica, a uno Stockhausen o uno Scelsi, che hanno lavorato con forme in qualche modo aperte ma dandosi una disciplina immensa, lo senti in ogni nota, e quel rigore è proprio una delle cose che ti entusiasma, ti fa pensare che è solo con la forma (se anche per ritrarre il chaos), che possiamo comunicare, comunicando perfino realtà, immagini, concetti sublimi.
    Detto questo, faccio posto a tutte le definizioni possibili della parola poesia, ovviamente. Ancora oggi vale quello che disse Montale una volta, “in poesia tutto fa brodo.”
    Questo anche per la forma della poesia.

  7. Caro Steven,

    è vero quello che tu dici, che condivido al 100%. Tu scrivi che già «Ghalib sognava la possibilità di esprimersi con una forma espressiva aperta», perché si era reso conto che la forma chiusa tradizionale del distico era troppo costrittiva per la sua poesia.
    Ecco, siamo arrivati al punto. Nel Novecento siamo passati attraverso una rivoluzione delle forme espressive, siamo passati dalla forma-chiusa alla forma-aperta (U. Eco L’opera aperta, 1962), fenomeno che ha investito il romanzo, la poesia, la pittura, la scultura, la musica, l’architettura etc., quindi un fenomeno globale, come si dice oggi. Ma per la poesia è poi intervenuto un fenomeno, al tempo, ancora più vistoso e più misterioso: la caducazione del verso tradizionale per il verso libero e la caducazione del verso libero per il verso arbitrario, dove ciascun autore è libero di adottare il verso (nel senso della lunghezza) che più gli aggrada. Se oggi apriamo un libro di poesia di un autore contemporaneo, troviamo appunto il verso arbitrario (non so quanti autori ne siano consapevoli), dove l’arbitro del verso è deciso dallo stesso autore, dove è l’autore che dà legittimità alla lunghezza e alle intensità (foniche e toniche e ritmiche) del verso. Siamo arrivati alla Babele del verso arbitrario, e i risultati sono piuttosto evidenti. Siamo arrivati al punto che non esistono più le differenze tra la forma-poesia e la forma-prosa, addirittura non si ha più cognizione di quella cosa chiamata un tempo la forma-poesia.
    Ma torniamo al verso-arbitro o arbitrario e veniamo ad esso, esaminiamo la sua struttura interna ed esterna. Vorrei invitare i lettori ad andare a rileggersi una poesia di un poeta contemporaneo che abbiamo pubblicato su questo blog: Gezim Hajdari nella poesia “Il contadino della poesia

    https://lombradelleparole.wordpress.com/2014/12/15/fare-il-contadino-della-poesia-di-gezim-hajdari-con-una-nota-di-armando-gnisci/

    È chiaro che qui ci troviamo davanti ad un sistema aperto dove ciascuna frase raddoppia e ripete la struttura semantica della frase precedente mediante una variatio del significato e del ritmo interno ed esterno dei versi. Siamo davanti alla forma più elementare e primordiale del linguaggio poetico, il verso singolo che viene ripetuto con varianti all’infinito, la repetitio. Qui dunque il sistema è aperto, apertissimo, e permette al’autore di introdurre le varianti che crede opportune al fine di ottenere un effetto moltiplicatore dell’intensità orchestrale.

    E fin qui ci siamo. Esaminiamo (per semplicità di ipotesi) adesso un effetto di moltiplicazione interna di un singolo verso di una, perdonatemi, mia poesia:

    Kinder Nacht. Kinderschreck. Kinderspiel.*
    Un cane rabbioso abbaiava.
    Ma tu non c’eri. Guardai indietro.
    C’era un corridoio con tante stanze chiuse. L’hotel Astoria.

    (*Notte di bambini. Spauracchio. Gioco infantile.)

    Come si vede, la ripetizione di parole (composte) che iniziano con una medesima parola (Kinder, ovvero, bambini), serve ad introdurre un effetto moltiplicatore (e straniante) della forza semantica, inoltre i punti introducono delle cesure, degli stop. Così che si ha: moltiplicazione della ripetizione + cesure = Ritmo a singhiozzo, ritmo interrotto, interruzione e ripresa = effetto di straniamento. I tre versi che seguono (sono frasi nominali e dichiarative) sono spezzati da punti. Con l’ovvio effetto di concentrazione e di spezzatura interna dove il lettore è costretto a fermare l’occhio e la lettura a voce (o silenziosa). Qui mi sono permesso di impiegare il verso-arbitrario nel senso che sono io l’autore ed io soltanto posso intervenire sul dove e sul come interrompere l’ordine del discorso e riprenderlo a mio gradimento. Ho scelto una mia composizione per non fare torto a nessuno. È chiaro che nelle mie intenzioni definire un verso verso arbitrario non c’è alcuna connotazione negativa o spregiativa, è semplicemente un dato di fatto, un evento. Ed è una procedura che io utilizzo spessissimo nelle mie composizioni in vista di un determinato fine; cioè è una procedura consapevole, filtrata però da quella particolarissima cosa chiamata sensibilità verso la Lingua e i suoi linguaggi letterari.

    Ecco, io ritengo che l’italiano di oggi abbia in sé DELLE ENORMI POSSIBILITà DI ESPRESSIONE, È UNA LINGUA MATURA…

    Dimenticavo: altra cosa dal verso arbitrario è il verso inventato, cioè quella entità che non si distingue in nulla dalla prosa e allora non si capisce perché in tanti ci si ostina ad andare a capo (dal punto di vista narrativo e metrico) quando non c’è alcuna ragione di andare a capo. Potrei, di ciò, portare migliaia di esempi, ma diventerebbe un gioco al massacro che non mi diverte, anzi, che mi deprime.

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  13. E’ ben difficile che l’utilizzo del distico, inteso come forma chiusa e completa di significato in sé, possa assicurare continuità descrittiva. Credo richieda un atteggiamento mentale diverso, meno veloce perché fatto di pause. Il fatto però che si tratti di versi lunghi, se confrontati ad esempio con l’haiku, fa pensare che la forma prosa potrebbe non esserne estranea. Va detto che anche la forma poesia di per sé non assicura poesia, se è vero che poesia non è la sua forma. Distici ne abbiamo scritti tutti, mi sa, ma non premeditatamente, per scelta stilistica; percorrendo a ritroso questa esperienza dovremmo riconoscere che il nostro atteggiamento mentale era diverso: con l’emozione più controllata, forse perché più intensa, se ne avvantaggia la densità del significato. Quel che trovo straordinario in queste poesie di Ghalib è la leggerezza, che non si può ottenere facilmente utilizzando solo gli artifici della scrittura. Ringrazio Steven Grieco per questa utile e bellissima testimonianza.

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