.da il Foglio mercoledì, 19 settembre 2014
Nello stesso giorno, il 2 gennaio scorso, sono apparsi su “Avvenire” un articolo di Fofi in memoria e lode di Eliot (morto nel 1965) e su “Repubblica” una pagina di Asor Rosa in lode e memoria di Brecht. Due anziani e inconciliabili guru della sinistra culturale ripensano al loro passato di lettori ventenni che scoprono per caso due dei più importanti, influenti e discussi poeti del Novecento. Due maestri anche loro inconciliabili della letteratura del secolo scorso: un metafisico cristiano sulle orme di Dante e un cinico dialettico marxista attratto dalla saggezza taoista. Anche a me, per puro caso, nelle settimane precedenti era accaduto di trafficare con Eliot e Brecht, rinnovando la mia simpatia e curiosità per il primo e la mia indifferenza o antipatia (tardive: arrivate a quasi quarant’anni) per il secondo.
Quando è ormai chiaro che la cultura letteraria di oggi ha ben poco in comune con quella novecentesca, viene in mente il Novecento. Parlo di letteratura e non di poesia perché la poesia è, nel suo insieme (critica compresa), precipitata così in basso nella banalità e nell’inconsapevolezza culturale da impedire qualunque confronto con i due autori ricordati. Il 90 per cento della poesia attuale (non solo quella italiana) è soprattutto stupida: e lo è nel modo più evidente quando si sforza di esibire un pensiero, dato che un pensiero stupido è più ridicolmente tale di qualunque non-pensiero.

Bertolt Breht LA GUERRA CHE VERRA’. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti.
Eliot e Brecht sono stati due eccezionali esemplari di poeta intelligente. Pienamente consapevoli, fin troppo, della situazione in cui scrivevano, avevano entrambi una visione del passato storico e del presente sociale così lucida da rischiare l’inaridimento inventivo. Oltre alla spiccata attitudine sia filosofica che realistica, avevano un forte senso dell’umorismo, della parodia e del paradosso, sentivano molto il pubblico e anche per questo hanno scritto opere teatrali. Come poeti intellettualistici e teatrali non sono stati i soli nel Novecento. Filosofici erano anche Antonio Machado e Paul Valéry, teatrali anche Majakovskij e soprattutto García Lorca. La cosiddetta “poesia monologica”, tendente alla pura musicalità e alle fascinazioni associative, usciva così da se stessa acquistando un’energia costruttiva precedentemente quasi impensabile, diventando dialettica e dialogica. Il solo grande erede sia di Eliot che di Brecht sarà Wystan H. Auden, il cui acume analitico è spinto a estremi di sottigliezza e la cui potenza oratoria, allegorica, satirica potrebbe superare perfino quella dei suoi maestri, se non fosse minacciata da una labirintica inafferrabilità di allusioni.
L’eliotiana “The Waste Land” resta l’opera poetica più classica del Novecento. Il chiacchiericcio così domestico e un po’ metafisico di Beckett è già previsto e praticato da Eliot in alcuni inserti dialogati del suo poemetto. Anche in Eliot “En attendant Godot” si gioca a scacchi, si prende il tè, noiosamente ci si lamenta e ci si ubriaca fino a notte fonda. La storia umana non è una marcia trionfale ma, dopo la guerra 1914-’18, è un cumulo di rovine. Il mondo è in frantumi, non si riesce più a connettere niente, l’edificio della civiltà è sconnesso. Nella sua logica di costruzione, The Waste Land è una confutazione in atto della forma-romanzo, della sua tecnica e fiducia nella possibilità di connettere l’eterogeneo (l’“only connect” di E. M. Forster). Se la vita sociale nasce, sopravvive e si perpetua grazie alle sue connessioni istituzionali, comunicative, comunitarie e abitudinarie, quando le connessioni saltano prevale il caos e la conseguente impossibilità di capire.
Il mondo di Eliot è diviso fra mistica e ottusità, comico e sublime, desolazione e redenzione. In questo che è stato il maggiore pedagogo letterario-morale della cultura anglosassone nell’ultimo secolo, la società borghese appare senza speranza: sola salvezza sarebbe il ritorno a una società cristiana, poiché il tempo storico e biografico acquista senso soltanto grazie a ciò che lo trascende. Anche i re Magi, il cui viaggio Eliot racconta in una delle sue poesie più note, vanno incontro a una nascita che per loro, per ciò che erano prima, è una forma di morte: “Fu un freddo inverno per noi, / Proprio il tempo peggiore dell’anno / Per un viaggio, per un lungo viaggio come questo: / Le strade erano fangose e la stagione rigida, / Nel cuore dell’inverno. (…) Questo considerate / Questo: ci trascinammo per tutta quella strada / Per una Nascita o per una Morte?”.
Brecht lo lessi e lo rilessi (il suo teatro però mi ha sempre annoiato), poesie, aforismi, raccontini e teorie estetico-politiche, perché prima avevo letto Fortini, che di Brecht marxista aveva fatto una guida. Le poesie che preferivo però erano le prime, quelle degli anni Venti, o le ultimissime, del tutto disincantate. Ma qualcuna delle “Storielle del signor Keuner”, suo alter ego, le ricordo e le apprezzo ancora. Soprattutto due, quella sul rapporto tra forma e contenuto in arte e quella sul rapporto tra filosofia e comportamento quotidiano. La prima racconta di un giardiniere incaricato di arrotondare una pianta di alloro. Taglia di qua e taglia di là, la forma sferica non sembra mai perfetta e l’alloro diventa insignificante: “Bene, questa è la sfera, ma dov’è l’alloro?”. E’ una storiella che usai contro gli esteti. La seconda contro i marxisti anni Sessanta-Settanta e anche in polemica con Fortini: “Un professore di Filosofia andò dal signor K. a raccontargli della sua saggezza. Dopo una pausa il signor K. gli disse: – Tu siedi scomodamente, tu parli scomodamente, tu pensi scomodamente – . Il professore di filosofia andando in collera disse: – Non è su di me che volevo sapere qualcosa ma sul contenuto di quanto ho detto. – Non ha contenuto, – disse il signor K. – Ti vedo procedere goffamente e procedendo non raggiungi una meta. Tu parli in modo oscuro e dalle tue parole non proviene alcuna luce. Osservando il tuo comportamento, la tua meta non mi interessa”.
Thomas Stearns Eliot
I
Il seppellimento dei morti
Aprile è il piú crudele dei mesi: genera
Lillà dalla morta terra, mescola
Ricordo e desiderio, stimola
Le sopite radici con la pioggia primaverile.
L’inverno ci tenne caldi, coprendo
La terra di neve obliosa, nutrendo
Grama vita con tuberi secchi.
L’estate ci sorprese, piombando sullo Starnbergersee
Con uno scroscio di pioggia; ci fermammo nel colonnato,
E avanzammo nel sole, nel Hofgarten,
E bevemmo caffè, e parlammo per un’ora.
Bin gar keine Russin, stamm’aus Litauen, echt deutsch.
E da bimbi, quando si stava dall’arciduca
Mio cugino, lui mi condusse in slitta
E io presi uno spavento. Mi disse: Marie,
Marie, tienti forte. E giú scivolammo.
Sulle montagne ci si sente liberi.
Io leggo quasi tutta la notte, e d’inverno me ne vo nel Sud.
(…)
(da La terra desolata, 1926 trad. di Mario Praz)
I
The Burial of the Dead
April is the cruellest month, breeding
Lilacs out of the dead land, mixing
Memory and desire, stirring
Dull roots with spring rain.
Winter kept us warm, covering
Earth in forgetful snow, feeding
A little life with dried tubers.
Summer surprised us, coming over the Starnbergersee
With a shower of rain; we stopped in the colonnade,
And went on in sunlight, into the Hofgarten,
And drank coffee, and talked for an hour.
Bin gar keineRussin, stamm’aus Litauen, echt deutsch.
And when we were children, staying at the arch-duke’s,
My cousin’s, he took me out on a sled,
And I was frightened. He said, Marie,
Marie, hold on tight. And down we went.
In the mountains, there you feel free.
I read, much of the night, and go south in the winter.
(…)
T.S. Eliot
Il canto d’amore di J. Alfred Prufrock
« S’i’ credesse che mia risposta fosse
a persona che mai tornasse al mondo,
questa fiamma staria sanza più scosse.
Ma però che già mai di questo fondo
non tornò vivo alcun, s’i’odo il vero,
sanza tema d’infamia ti rispondo»
(Dante Alighieri, Inferno, Canto XXVII, 61-66)
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Andiamo dunque, tu ed io,
Mentre la sera è distesa sul cielo
Come paziente eterizzato sul tavolo;
Andiamo, per certe semideserte strade,
Tra mormoranti recessi
Di notti agitate in modesti piccoli alberghi
E ristoranti cosparsi di segatura e gusci d’ostriche:
Strade che si allungano come tedioso argomento
D’insidiosa intenzione
Per condurti a una domanda che opprime…
Oh no, non chiedere “Cos’è?”
Andiamo a fare la nostra visita.
Nella stanza le donne vanno e vengono
Parlando di Michelangelo.
La gialla nebbia che sfrega la schiena sui vetri della finestra,
Il fumo giallo che sfrega il muso sui vetri della finestra
La sua lingua ha leccato negli angoli della sera,
Ha indugiato sulle pozze formate negli scarichi,
S’è lasciato cadere sul dorso la fuliggine dei camini,
E’ scivolato sul terrazzo, ha fatto un balzo improvviso,
E vedendo che era una dolce sera di ottobre,
S’è arrotolato attorno alla casa e si è assopito.
E per la verità avrà tempo
Il giallo fumo che scorre lungo la strada
Per sfregare il dorso sui vetri della finestra;
Ci sarà tempo, ci sarà tempo
Per preparare un volto a incontrare i volti che tu incontri;
Ci sarà tempo per uccidere e creare,
E tempo per tutti i lavori e giorni di mani
Che sollevano e versano una domanda sul tuo piatto;
Tempo per te e tempo per me,
E tempo anche per cento indecisioni,
E per cento visioni e revisioni,
Prima di prendere un toast e un tè.
Nella stanza le donne vanno e vengono
Parlando di Michelangelo.
E per la verità ci sarà tempo
Per chiedersi “Oso io?” e, “Oso io?”
Il tempo per voltarsi e scendere le scale,
Con una macchia di calvizie in mezzo ai miei capelli –
(Essi diranno: “I suoi capelli diventano più radi!”)
La mia giacca, il mio rigido colletto sotto il mento,
La mia cravatta ricca e modesta, ma fissata con un semplice spillo –
(Essi diranno: “Ha le braccia e le gambe così sottili!”)
Oso io
Disturbare l’universo?
In un minuto c’è il tempo
Per decisioni e revisioni che un minuto cambierà.
Perché le ho già conosciute tutte, proprio tutte –
Ho conosciuto le sere, le mattine, i pomeriggi,
Ho versato la mia vita con cucchiaini da caffè;
Conosco le voci morenti con un morente tono
A di sotto della musica da una stanza più lontana.
Perciò come dovrei presumere?
E io ho già conosciuto gli occhi, proprio tutti –
Gli occhi che ti guardano in una frase formulata,
E quando io sono formulato, confitto con lo spillo,
Quando sono inchiodato e mi dimeno sul muro,
Allora come dovrei cominciare
A sputar fuori le cicche dei miei giorni e modi?
E io ho già conosciuto le braccia, proprio tutte –
Le braccia ingioiellate e bianche
(Ma alla luce della lampada si vede una peluria bruna!)
E’ il profumo di un vestito
Che mi rende così digressivo?
Le braccia posate sul tavolo, o avvolte in uno scialle.
Dunque dovrei presumere?
E come dovrei cominciare?
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Dirò che ho percorso all’imbrunire strette strade
E ho guardato il fumo che usciva dalle pipe
Di uomini soli in camicia, alle finestre affacciati?…
Dovrei essere un paio di artigli rapaci
Che fuggono sul fondo di mari silenziosi.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
E il pomeriggio, la sera, dorme così sereno!
Lisciato da lunghe dita,
Addormentato…stanco…oppure esso finge,
Steso sul pavimento accanto a te e a me.
Dovrei io, dopo il tè, il dolce e il gelato,
Avere la forza di superare il momento della sua crisi?
Ma benché io abbia pianto e digiunato, pianto e pregato,
Benché io abbia visto la mia testa (un po’ calva) posata su un piatto,
Io non sono un profeta – e non c’è niente di grande;
Io ho visto per un attimo il lampo della mia grandezza,
E ho visto l’eterno Valletto porgermi il soprabito, e lo sbuffo
E a farla breve, ho avuto paura.
E varrebbe la pena, dopo tutto,
Dopo le tazze, la marmellata, il tè,
Tra la porcellana, tra il parlare un po’ di te e di me,
Varrebbe la pena,
Ignorare la questione con un sorriso,
Comprimere l’universo in una palla
E rotolarla verso una domanda opprimente,
Dire: “Io sono Lazzaro, vengo dai morti,
Ritorno per dirvi tutto, io vi dirò tutto” –
Se qualcuno, sistemandole il cuscino sotto la testa,
Dicesse: “Non è affatto ciò che intendevo.
Non è affatto questo.”
E varrebbe la pena, dopo tutto,
Varrebbe la pena,
Dopo i tramonti e i cortili e le strade irrorate,
Dopo i romanzi, la tazze di tè, dopo le gonne strascicate –
E ciò, e assai di più? –
E’ impossibile dire proprio cosa intendo!
Ma se una lanterna magica proiettasse i nervi sullo schermo:
Varrebbe la pena
Se qualcuno, sistemando un cuscino o gettando via uno scialle,
E girandosi verso la finestra dicesse:
“Non è affatto questo,
Non è affatto ciò che intendevo.”
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
No! Io non sono il Principe Amleto, né voglio esserlo;
Io sono uno del seguito, uno che
Ingrosserà il corteo, farà una scena o due,
Consiglierà il principe; senza dubbio, un facile strumento,
Rispettoso, felice di essere d’aiuto,
Politico, cauto e meticoloso;
Pieno di massime elevate, ma un po’ ottuso;
A volte, per la verità, quasi ridicolo –
A volte, quasi Giullare.
Sto invecchiando…Sto invecchiando…
Rimboccherò i risvolti dei pantaloni.
Dividerò in due i capelli? Oserò mangiare una pesca?
Indosserò pantaloni di flanella bianca, e me ne andrò sulla spiaggia.
Ho sentito le sirene cantare, una ad una.
Non credo che canteranno per me.
Le ho viste cavalcare le onde marine
Pettinando i bianchi capelli delle onde risoffiate
Quando il vento soffia l’acqua bianca e nera.
Abbiamo girellato nella sale del mare
Inghirlandati dalle sirene con alghe rosse e brune
Finché voci umane ci sveglieranno, e noi annegheremo.
(Versione di Paolo Statuti)

Bertolt Brecht Prima di tutto vennero a prendere gli zingari. e fui contento perchè rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei. e stetti zitto perchè mi stavano …
Bertolt Brecht
«chi parla è il rifugiato, lo scrittore politico in fuga; il giovane ladro si disegna allora sullo sfondo di una catastrofe universale con la eleganza e l’allegria di un angelo, con una morale non dissimile da quella di Laotse, fondata sulla invincibilità del povero, sulla sua irresistibile libertà segreta. Così il messaggio di morte che il ladro apporta è anche il segno di speranza positiva; perché «vince l’acqua docile / a lungo andare, la pietra tenace». (F.F.)
(Franco Fortini da Introduzione a Poesie di Svendborg Einaudi, 1976)
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Il ladro di ciliege
Una mattina presto, molto prima del canto del gallo,
mi svegliò un fischiettio e andai alla finestra.
Sul mio ciliegio – il crepuscolo empiva il giardino –
c’era seduto un giovane, con un paio di calzoni sdruciti,
e allegro coglieva le mie ciliegie. Vedendomi
mi fece cenno col capo, a due mani
passando le ciliegie dai rami alle sue tasche.
Per lungo tempo ancora, che già ero tornato a giacere nel mio letto,
lo sentii che fischiava la sua allegra canzonetta.
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Mio fratello aviatore
Avevo un fratello aviatore.
Un giorno, la cartolina.
Fece i bagagli, e via,
lungo la rotta del sud.
Mio fratello è un conquistatore.
Il popolo nostro ha bisogno
di spazio. E prendersi terre su terre,
da noi, è un vecchio sogno.
E lo spazio che si è conquistato
sta sulla Sierra di Guadarrama.
È di lunghezza un metro e ottanta,
uno e cinquanta di profondità.
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Generale, il tuo carro armato è una macchina potente
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Spiana un bosco e sfracella cento uomini.
Ma ha un difetto:
ha bisogno di un carrista.
Generale, il tuo bombardiere è potente.
Vola più rapido di una tempesta e porta più di un elefante.
Ma ha un difetto:
ha bisogno di un meccanico.
Generale, l’uomo fa di tutto.
Può volare e può uccidere.
Ma ha un difetto:
può pensare.
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Leggo della battaglia di carri armati
Tu figlio del tintore di Lech che al gioco delle biglie
con me ti misurasti in anni ormai passati
dove sei nella polvere dei cingoli
che per le belle Fiandre ora discendono?
La grassa bomba su Calais caduta,
figlio del tessitore della filanda, eri tu?
O figlio del fornaio del mio mondo d’infanzia
è per te che urla in sangue la Champagne?
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Quelli che stanno in alto
Si sono riuniti in una stanza.
Uomo della strada
lascia ogni speranza.
I governi
firmano patti di non aggressione.
Uomo qualsiasi,
firma il tuo testamento.
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Non ti ho mai amata tanto
Non ti ho mai amata tanto, ma soeur,
come quando ti ho lasciata in quel tramonto.
Il bosco m’inghiottì, il bosco azzurro, ma soeur,
sopra stavano sempre le pallide costellazioni dell’Occidente.
Non risi neppure un poco, per niente, ma soeur,
io che per gioco andavo incontro a oscuro destino –
mentre i volti dietro di me lentamente
sbiadivano nella sera del bosco azzurro.
Tutto era bello in questa sera unica, ma soeur,
non fu mai così dopo nè prima –
certo: ora mi restavano solo i grandi uccelli
che a sera, nel cielo oscuro, hanno fame.
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Il fumo
La piccola casa sotto gli alberi sul lago.
Dal tetto sale il fumo.
Se mancasse
Quanto sarebbero desolati
La casa, gli alberi, il lago!
Anno per anno
COMINCIAMO DA BRECHT
Troppo comodo essere marxistI novant’anni fa, quando quel che era rosso era rosso e quel che era nero era nero. Queste poesie di Brecht mi hanno fatto ricordare le compagne di classe alle superiori, tutte di sinistra negli anni ’70 a parte una. Il pensiero si sviluppa nella misura in cui si ha la possibilità di pensare. Oggi non è più così. Per Stearns rileggo perché proprio non sapevo nemmeno chi fosse fino a stamattina
Possiamo dire che quell’epoca che va da L’opera aperta di Umberto Eco (1962) a Versetti satanici di Salman Rushdie (1988) si è concluso il Post-moderno e siamo entrati in una nuova dimensione. Nel romanzo di Rushdie il fittizio, il fantastico, il mitico, il reale diventano un tutt’uno, diventano lo spazio della narrazione dove non ci sono separazioni ma fluidità. Il nuovo romanzo prende tutto da tutto. Oserei dire che nella poesia di Transtromer è finita l’epoca di una poesia lineare (lessematica e fonetica) ed è iniziata una poesia topologica che integra il fattore Tempo (da intendere nel senso delle moderne teorie matematiche topologiche secondo le quali il quadrato e il cerchio sono perfettamente compatibili e scambiabili). Chi non si è accorto di questo fatto, continuerà a scrivere romanzi tradizionali (del tutto rispettabili) o poesie tradizionali (basate ancora su un concetto di reale e di finzione separati), ovviamente anch’esse rispettabili; ma si tratta di opere di letteratura che non hanno l’acuta percezione, la consapevolezza che siamo entrati in un nuovo “dominio” (per dirla con un termine nuovo).
Nei nuovi romanzi e nelle nuove poesie, finzione e realtà non costituiscono più un’opposizione ontologica, il reale stesso si mostra come il fittizio o fantastico potenziale, il presunto originale si presenta come un mero poscritto ad un testo passato, una sorta di palinsesto nel quale appaiono le tracce di ciò che il Novecento aveva già pensato e ci aveva consegnato. La poesia di Eliot e Brecht rappresenta i due corni della distanza che separa i due tipi di poesia rendendole inconciliabili. Ancora una volta il grande precursore di questo modo di intendere la letteratura è stato Borges con Finzioni (1941) e con Pierre Menard autore del Chisciotte (scritto già nel 1939); l’ambizione di Menard sarebbe stata quella di riscrivere il Chisciotte adeguato al proprio tempo. Ebbene, l’opera di Borges ci pone il problema seguente: che non è possibile scrivere un’opera di letteratura se non consideriamo il fattore Tempo che interviene a modificarla dall’interno. Ecco il punto: nel mondo tecnologico odierno è il fattore Tempo ad essere sovversivo. A mio modesto parere, della nostra epoca presente sopravviveranno soltanto le opere che si approprieranno del fattore Tempo.
Scusami Giorgio, ma è sempre stato così, se un’opera d’arte non supera il fattore tempo, quindi è fittizia non resiste al tempo nè lo domina. Questo concetto ritengo valga per tutte le epoche. Quindi se un autore dice, mah questa poesia è roba vecchia l’ho scritta tre anni fa, vuol proprio dire che ammette di essere un pacco. Giusto?
PS. a proposito di Brecht: uno che scelse la DDR come il migliore dei modi possibili, forse non aveva proprio capito nulla. Giusto?
Molto interessante. Il concetto andrebbe sviluppato. Per esempio, posso suggerire che nella poesia di Transtroemer (ma anche della migliore Ewa Lipska, mi è sembrato l’altro giorno) il fattore Tempo interviene come raffica, colpo di vento, ruggito di una realtà inaudita, del tutto imprevista, che straccia il tessuto della narrazione poetica, pur lasciandolo miracolosamente intatto, anzi completandolo – per cui possiamo dire: giù il cappello.
Il Pufrock è l’Eliot che preferisco, ancor più della Terra desolata e dei Quattro quartetti che risentono troppo dell’incomprensibilità poudiana. L’unica stonatura mi sembrano i sei versi danteschi citati all’inizio, che ricordano al mondo che Eliot si ispira a Dante ma non è Dante, vorrebbe forse esserne la versione aggiornata ma ne è abissalmente lontano; come in Pound anche e ancor più in Eliot le velleità superano di molto la riuscita letteraria, per quanto di altissimo livello.
Molto apprezzata anche la scelta dei testi del più umile Brecht, che si diletta in canzonette di cui diviene facilmente un maestro.
Un saluto.
caro Almerighi,
quando parlo dell’ingresso del fattore Tempo all’interno delle poesie vorrei dire qualcosa di diverso di quanto ci dice il concetto del fattore Tempo esterno all’opera d’arte. La teoria della ricezione è basata sul fattore Tempo in quanto elemento esterno all’opera d’arte, io invece intendo qualcosa di assai diverso: il fattore Tempo (da cui l’essere heideggeriano) è qualcosa che ci inerisce nel profondo e fonde in un unico dominio il reale e il fittizio, l’immaginario e il simbolico, l’io e l’Altro, il chi parla con chi ascolta. E la poesia di un Transtromer indica mirabilmente questa nuova condizione ontologica. Chi non comprende questo nesso, a mio avviso, è destinato a rimanere indietro, a concepire la poesia, il romanzo e la pittura come caratterizzate da quel flusso continuo (ma esterno) che chiamiamo convenzionalmente Tempo.
In effetti Eliot invecchia meglio
Ho sempre apprezzato entrambi i poeti oggi proposti, benché così diversi tra loro per formazione ideologica e poetica, per tematica e stile.
Ottima scelta antologica per Thomas Stearns Eliot, di cui, per un mio gusto personale, preferisco il poemetto “The Waste Land”, in particolare l’immagine primaverile del lillà, correlativo oggettivo del passato e nel contempo fiore connesso ai riti della fertilità. Aprile, dunque, è crudele perché unisce la terra morta alla rinascita primaverile della natura, quindi la morte e la vita, temi a me cari.
Ho conosciuto Bertolt Brecht a teatro, al “Piccolo” di Milano con la regia del grandissimo Giorgio Strehler. Brecht era appena stato tradotto in italiano e circolava soprattutto negli ambienti universitari, almeno alla Cattolica grazie al mio docente di Storia del Teatro Prof. Mario Apollonio.
Apprezzo le sue opere indipendentemente dalla sua ideologia politica che non condivido. Anche le sue poesie mi trasmettono emozioni forti, in particolare “Mio fratello aviatore”, il cui incipit dovrei parafrasare così;
“Avrei avuto un padre aviatore…”
Grazie per la pregevole offerta poetica
Giorgina Busca Gernetti
La terra desolata (1922) è tragedia grottesca e come tale anticipa la poetica di Beckett e di Federico Fellini, con rifermento alla città infernale, secondo Blake, prima, e Baudelaire, poi, ed Eliot a tal fine attinge alla mitologia del ciclo di Re Artù e del Sacro Graal. Ma è con i Quattro Quartetti (1942) che T.S.Eliot volge la sua poetica verso l’energia immaginativa come momento salvifico sull’impossibilità, sulle rovine, sulla mancanza, una sorta di riscatto metafisico dal Peccato affidandosi alle coppie secco/umido, tempo/eternità, pieno/ vuoto: “Il tempo presente e il tempo passato/ sono forse insieme presenti nel tempo futuro…” Ora è chiaro che il “tempo” eliottiano non coincide con il tempo linguaglossiano e le due diverse concezioni di “tempo” sorreggono due poetiche differenti.
caro Gino,
come tu hai compreso perfettamente, la mia posizione di poeta che riflette sulla poesia (e che tenta di farla), si basa sulla comprensione dei mutamenti fondamentali che dal 1922 anno di pubblicazione di the waste land di Eliot, arriva ai giorni nostri. Il Novecento è stato un secolo ricco e convulso, che ha visto un susseguirsi rapidissimo di mutamenti di paradigma. Dopo Eliot la poesia europea e occidentale è cambiata. Ma prima di Eliot una rivoluzione analoga era stata introdotta da Mandel’stam con la sua idea di una poesia basata sulla metafora tridimensionale.
In Italia, la poesia del neorealismo e del post-ermetismo è ancora attestata su un concetto arretrato e non evoluto di forma-poesia. Questa arretratezza impedì la lettura e la ricezione di un libro come Sessioni con l’Analista di De Palchi (1962) e tuttora è presente una fortissima resistenza, come sappiamo, alla rivisitazione del paradigma poetico dominante. Con Satura di Montale (1971) le cose cambiano, ma a mio avviso in peggio, perché si continua a pensare ad una poesia lineare progressiva in linea di continuità con la tradizione italiana che si faceva iniziare da Myricae di Pascoli. È restata estranea alla cultura poetica italiana l’idea di una poesia come modellizzazione secondaria del fattore Tempo, cioè una poesia che non seguisse più il modello lineare progressivo. Sfuggiva, e sfugge ancora oggi che la poesia più evoluta in Europa è stata la poesia che va sotto la denominazione di poesia modernista, non si arriva a comprendere che la poesia italiana ha oggi bisogno urgentissimo di un nuovo tipo di DISPOSITIVO ESTETICO che contempli la adozione di un concetto di poesia tridimensionale, ovvero, fondata sulle proprietà del peso specifico e sulla forza gravitazionale che ha ogni costrutto linguistico. E qui mi fermo.
Da parte mia rifiuto sia l’idea della poesia come evoluzione (ciò che è vero per le scienze), sia l’atteggiamento del critico che indica le vie future dell’arte. La critica si fa a posteriori. Questo è il mio pensiero. Buona serata.
Giorgio caro,
condivido tutto quel che affermi e aderisco pienamente al tuo lavoro di ricerca poetica: del resto, proprio da “L’ombra…” Paolo Lagazzi ci segnalò
che la poesia contemporanea è semplicemente la voce di una mancanza di voce, forma di un nodo, di un viluppo insondabile non più riconducibile nemmeno al nichilismo.. Altro che poesia dei nipotini di Sereni.
Gentili…, non conosco bene la lingua inglese come altre lingue. ma se WASTE si traduce DESOLATA – perché suona meglio di MARCIA mi sta anche bene… ebbene, intervenga un collega che ne sa più di me. Già all’apertura del poema di Eliot tutto il contesto mi indica MARCESCENZA più che DESOLAZIONE; penso anche che “desolata” non è sinonimo di “marcia” (questo in lingua italiana; e in lingua inglese?) – Negli anni lontani ormai trascorsi domandai come uno scolaretto a luminari: non sapevano darmi una risposta precisa; io sono per “La terra marcia”, anche se ad un orecchio non poeta suona meglio “desolata”.
Credo si debba tradurre “La terra sterile”
Però ho trovato anche “La terra guasta”.
Sì, “sterile”. La parola “wasteland” può servire anche per rendere “steppa”, che non dà fruttti. In persiano (e poi urdu) “dasht”, “an arid plain”, “una landa desolata”.
Come nel distico di Mirza Ghalib, che ho tradotto così:
hai kahāñ tamannā kā dūsrā qadam yā rab
ham ne dasht-e-imkāñ ko ek naksh-e pā paaya
Dove è il secondo passo del desiderio, oh Signore:
sulla desolazione del vissuto abbiamo trovato l’orma di un solo piede
——-
Ripeto – a parte la mia non conoscenza completa della lingua inglese, mi faccio guidare dal mio intuito ed esperienza poetica; perciò grazie a chi è intervenuto quanto riguarda la traduzione in italiano di “desolata” che ripeto suona meglio di “marcia”, di “sterile” (che non lo è affatto, e poi dirò perché) e di “guasta” (non è il caso- questo termine è brutto riferito alla terra). E sia “desolata” poi che oramai è entrato questo termine nell’immaginario…. – ma resto convinto per “marcia” poi che dalla putrefazione delle sostanze organiche si crea quell’humus che poi dà nuova vita alle nuove piante “genera Lillà dalla morta terra” ,. E non solo: questo passaggio delle trasformazioni naturali è applicato alle trasformazioni delle stagioni umane “mescola ricordo e desiderio”;
anche sull’attacco iniziale i traduttori si sono divertiti :[“ Aprile è il mese più crudele” oppure “Aprile dei mesi è il più crudele”]
>> Aprile è il più crudele dei mesi: genera
Lillà dalla morta terra, mescola
Ricordo e desiderio, stimola
Le sopite radici con la pioggia primaverile.<<
“le sopite radici” credo si riferisca al mondo vegetale che a quell’umano, per cui Eliot continua alternando i due mondi.
Scoprii Eliot nel giorno della notizia della sua morte: non nascondo che questo poeta con questo suo poema specialmente mi ha accompagnato per decenni incidendo (talvolta prendendolo in giro anche!) su alcuni miei versi (allo stesso modo Le bateau ivre e La nuvola in calzoni; e pure il Cimitero marino). Qualche anno dopo 1966/67 scoprii Brecht che incise sui miei nove “poemi idioti”, e poi mai più.
Mi sembra abbastanza chiaro che la “Terra sterile” è una “Terra morta” come dice il poeta, e la crudeltà del mese di Aprile consiste nel creare dei lillà, quasi imponendoli a chi non li vuole…Antonio ti sembra che possa andare come interpretazione?
Caro Paolo, credo non sia una terra “sterile”; una tale terra (che non è “morta”) non produce quella putrefazione da cui poi si rigenera nuova vita (il poeta scrive “genera”); sterile non è sinonimo di “morta”; come dire che non c’è generazione se non c’è morte, e viceversa. Quanto riguardo la “imposizione” non penso nemmeno che sia così, poi che la generazione conduce alla fioritura, in maniera naturale, del lillà (poteva essere anche un altro fiore), ma il poeta sceglie lillà per un suo significato simbolico e per il suo colore e il suo profumo: apprendo: ” LILLA’ BIANCO nel linguaggio dei fiori rappresenta l’infanzia. LILLA’ VIOLA nel linguaggio dei fiori simboleggia la prima adolescenza – usato come addobbi floreali delle cerimonie nuziali o nei battesimi, come simbolo di purezza. Era antica credenza che le fate amassero stare tra i fiori di Lillà e che piantato in un luogo lo purificasse dal male. I fiori freschi potevano servire ad allontanare gli spiriti da luoghi infestati. L’olio era impiegato nei rituali di equilibrio mentale, per i poteri psichici e la purificazione” . Come vedi il poeta lo ha scelto per questi e altri motivi, forse privati.
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Così in una mia poesia del 2002:
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I dementi e le macerie hanno la saggezza dei carnefici,
a novembre è vano seppellire i morti!
La loro carne è vaniglia vischiosa per la terra,
lillà ha deluso aprile e i tramonti sono rancidi.
a. s.
caro Gino Rago,
non so cosa intenda Paolo Lagazzi quando indica nella «mancanza di voce» la debolezza principale della poesia italiana contemporanea. È, credo, una affermazione troppo generica sulla quale potremmo essere d’accordo tutti, ma, mi chiedo: che cosa significa esattamente? Nessuno lo sa. Ecco, io ritengo che dovremmo sostituire quell’espressione troppo generica con una più precisa: «mancanza della parola», sulla quale si era già soffermato Heidegger nei suoi studi sul linguaggio e sulla poesia. E riprendere da lì il discorso (discorso che io vado facendo da anni, sul quale rifletto da decenni… senza incontrare resistenza alcuna). Vorrei dire, caro Gino, che ogni Discorso per essere discorso deve incontrare una resistenza. Mi spiego: che cos’è il linguaggio minimale nel quale siamo immersi tutti i giorni? È quel flusso continuo che promana dalla civiltà mediatica… ma quel flusso sonoro continuo non è la VOCE, anzi, è il contrario della VOCE, è ciò che ottunde la «Voce» (nel senso in cui lo intende Lagazzi). In parole povere, io posso anche avere la «voce» ma se non ho una «parola», ovvero, un «Discorso» nel quale incarnare la mia voce, quello che rimarrà sarà un silenzio incolore e incompiuto… Anzi, dirò di più, tutte le opere di poesia che vengono celebrate oggi, ti chiedo, non assomigliano ad una VOCE continua, ad un FLUSSO SONORO inarticolato che non riesce ad incarnarsi in parole?
Caro Giorgio,
dopo l’avvento della tv e di programmi come Uomini e donne, capisco che anche la poesia ci appaia sempre come “voce” per di più “di sottofondo “ aggiungerei e forse è solo “voce” e non più “discorso” come dici tu.
Il problema non è univoco, non è solo la poesia degli ultimi anni a ricalcare questa “voce” senza “discorso” ma è anche chi la riceve questa poesia (ammesso che la riceva e in tutti i modi possibili in cui la riceva) che è abituato a non dare valore a quel che riceve o a non capirlo e sopratutto a non rispondere a quel che riceve.
Un messaggio che sia poetico o meno è sempre costituito da emittente e ricevente. La tv da emittente ci ha abituato a ricevere (senza ascoltare) e a non rispondere, perché in fondo a un apparecchio elettronico non si può certo rispondere!
A quante presentazioni ci siamo abituati senza che nessuno alla fine dell’incontro intervenga al dibattito? Mi è capitato qualche settimana fa di assistere ad una presentazione, e quando una donna dal pubblico ha reagito in modo spropositato ad una asserzione dell’autore, mi sono quasi spaventata, non sono più abituata agli interventi del pubblico e peggio è stato comprendere che quella donna non aveva capito bene ciò di cui si parlava e nel suo fervore non riusciva neppure a dare la parola all’autore perché spiegasse meglio il suo concetto!
Cara Ambra,
Sì, è vero, viviamo in mezzo a miliardi di parole, ma questo forse dovrebbe indurci a diminuire il numero di parole che viaggia nell’etere. Il problema che io ripropongo (perché l’anno detto molti altri più autorevoli di me) è che in mezzo a miliardi di parole, può non esserci un Discorso… e, finché non c’è un Discorso, non c’è neanche la Voce. Dunque il problema è il Discorso. Tu, ad esempio, fai la «quasi-poesia» (come tu la definisci) e quindi ti poni consapevolmente fuori dal Discorso poetico… è che a mio avviso ti devi decidere se stare Fuori o Dentro, finché resterai sulla soglia della «quasi-poesia» sarai come un giocatore di calcio che sta in panchina e commenta il gioco dei calciatori che stanno in campo. Il che può essere un buon esercizio prima di entrare in campo per fare qualche sostituzione di calciatori… ma prima o poi ti dovrai decidere se entrare in campo oppure no. Un grande autore che avrebbe avuto grandi potenzialità è stato Emilio Villa, ma lui per tutta la vita si è rifiutato di entrare in campo… ed è rimasto in panchina a guardare gli altri calciatori giocare…
Ricordiamo il famoso incipit di In cammino verso il linguaggio di Heidegger:
L’uomo parla. Noi parliamo nella veglia e nel sonno. Parliamo sempre, anche quando non profferiamo parola, ma ascoltiamo o leggiamo soltanto, perfino quando neppure ascoltiamo o leggiamo, ma ci dedichiamo a un lavoro o ci perdiamo nell’ozio. In un modo o nell’altro parliamo ininterrottamente. Parliamo, perché il parlare ci è connaturato. Il parlare non nasce da un particolare atto di volontà. Si dice che l’uomo è per natura parlante, e vale per acquisito che l’uomo, a differenza della pianta e dell’animale, è l’essere vivente capace di parola. Dicendo questo, non s’intende affermare soltanto che l’uomo possiede, accanto ad altre capacità, anche quella del parlare. S’intende dire che proprio il linguaggio fa dell’uomo quell’essere vivente che egli è in quanto uomo. L’uomo è uomo in quanto parla. È la lezione di Wilhelm von Humboldt. Resta però da riflettere che cosa significhe: l’uomo
Caro Giorgio,
come ti dicevo anche per mail, stare sul filo del rasoio per me in questo momento non è solo una scelta estetica, ma è anche la mia natura poetica e a quella proprio non posso oppormi!
Tra l’altro io odio le partite di calcio :-p
“Un grande autore che avrebbe avuto grandi potenzialità è stato Emilio Villa, ma lui per tutta la vita si è rifiutato di entrare in campo… ed è rimasto in panchina a guardare gli altri calciatori giocare…” : non sonoi
assolutamente d’accordo con questo giudizio di Linguaglossa (tra l’altro a posteriori! e non Ti offendere)… se mai vi fu una verità fu quella che rarissimi furono alla sua altezza- di Emilio intendo! – erano i giocatori a restare seduti e non Villa!: questi sapeva giocare magistralmente, non come quei giocatori che poltrivano ” magistralmente” in panchina. Caro Giorgio dovresti rivedere a fondo questo giudizio tuo altrimenti ti cadrà come una spada di Damocle grande quanto i massicci dell’Himalaja!!!!
questa prefazione del Berardinelli non dice nulla di nuovo di quanto non sappia già da 60 anni
Eliot e Brecht sono due grandi poeti, spesso imitati. Trovo ci sia del vero in questa asserzione (non so dove l’ho letta): “Il grande scrittore non è quello che tutti imitano ma quello che nessuno riesce a imitare”.