(Invitiamo tutti i lettori ad inviare alla email di Giorgio Linguaglossa glinguaglossa@gmail.com per la pubblicazione sul blog poesie edite o inedite sul tema proposto)
L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ(non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).
Antonio Sagredo è nato a Brindisi il 29 novembre 1945 (pseudonimo Alberto Di Paola) e ha vissuto a Lecce, e dal 1968 a Roma dove risiede. Ha pubblicato le sue poesie in Spagna: Testuggini (Tortugas) Lola editorial 1992, Zaragoza; e Poemas, Lola editorial 2001, Zaragoza; e inoltre in diverse riviste: «Malvis» (n.1) e «Turia» (n.17), 1995, Zaragoza. La Prima Legione (da Legioni, 1989) in Gradiva, ed.Yale Italia Poetry, USA, 2002; e in Il Teatro delle idee, Roma, 2008, la poesia Omaggio al pittore Turi Sottile.
Come articoli o saggi in La Zagaglia: Recensione critica ad un poeta salentino, 1968, Lecce (A. Di Paola); in Rivista di Psicologia Analitica, 1984,(pseud. Baio della Porta): Leone Tolstoj – le memorie di un folle. (una provocazione ai benpensanti di allora, russi e non); in «Il caffè illustrato», n. 11, marzo-aprile 2003: A. M. Ripellino e il Teatro degli Skomorochi, 1971-74. (A. Di Paola) (una carrellata di quella stupenda stagione teatrale).
Ho curato (con diversi pseudonimi) traduzioni di poesie e poemi di poeti slavi: Il poema: Tumuli di Josef Kostohryz , pubblicato in «L’ozio», ed. Amadeus, 1990; trad. A. Di Paola e Kateřina Zoufalová; i poemi: Edison (in L’ozio,…., 1987, trad. A. Di Paola), e Il becchino assoluto (in «L’ozio», 1988) di Vitězlav Nezval; (trad. A. Di Paola e K. Zoufalová).
Traduzioni di poesie scelte di Katerina Rudčenkova, di Zbyněk Hejda, Ladislav Novák, di Jiří Kolař, e altri in varie riviste italiane e ceche. Recentemente nella rivista «Poesia» (settembre 2013, n. 285), per la prima volta in Italia a un vasto pubblico di lettori: Otokar Březina- La vittoriosa solitudine del canto (lettera di Ot. Brezina a Antonio Sagredo), trad. A. Di Paola e K. Zoufalová.
Commento di Giorgio Linguaglossa
La poesia di Antonio Sagredo è un atto irriducibile che si inserisce nel mondo. Un atto che per incarnarsi deve pescare nelle profondità dell’Estraneo.La sua è una poesia che si assenta da questo e quello, dagli oggetti storici, sembra quasi vivere in un limbo a-storico. Come ho scritto altre volte, l’impiego degli aggettivi (mai dimostrativi o qualificativi di una sostanza) è volto a stravolgere e a sconvolgere la sostanzialità e la stanzialità del discorso linguistico. Sarà bene dire subito che la poesia di Sagredo non è poesia pura, non riposa sull’atto poetico in sé, non abbandona mai i significati particolari delle parole nemmeno quando alza il diapason della significatività fino agli orli dell’incomprensibile e dell’indicibile.
Scrive Octavio Paz ne “L’arco e la lira”: «Un’opera poetica pura non potrebbe esser fatta di parole e sarebbe, letteralmente, indicibile. Nello stesso tempo un’opera poetica che non lottasse contro la natura delle parole, obbligandole ad andare oltre se stesse e oltre i loro significati relativi, un’opera poetica che non cercasse di far loro dire l’indicibile, risulterebbe una semplice manipolazione verbale. Ciò che caratterizza un’opera poetica è la sua necessaria dipendenza dalla parola tanto quanto la sua battaglia per trascenderla».
La parola poetica di Sagredo è fondatrice di un mondo, un mondo surrazionale e incipitario, vuole fondare l’arché, il principio, si pone all’origine della Lingua come se dovesse modellarla secondo nuovi bisogni, seguendo la logica perlocutioria dell’atto fondativo, ma per far questo essa paga un altissimo pedaggio di indicibilità e di incomunicabilità. Sarebbe incongruo chiedere all’atto fondativo sagrediano di porsi nella secondarietà della comunicazione, in essa non c’è comunicazione ma fondazione, non c’è mediazione tra un destinatore e un destinatario ma un atto, come detto, incipitario del senso.
C’è un insieme ballerino e convergente:
sono i numeri dei versi e i versi dei numeri,
curvatura dei versi, curvatura dei numeri.
Sublime finzione l’infinito! La sua maschera… finita!
Solitudine della logica: punto del non-ritorno.
Solitudine del paradosso: punto del ritorno.
Da punto del non-ritorno al punto del ritorno,
dal ritorno del punto al non-ritorno del punto.
Solitudine del punto.
Solitudine del ritorno.
Solitudine della linea.
Solitudine dell’insieme.
L’inizio non ha fine all’inizio della fine!
È un atto poetico che vuole situarsi all’inizio della costruzione della Lingua, in una solitudine assoluta ed eroica. È un atto maniacale e spasmodico, incipitale e magmatico.
Ogni atto «incipitario» è un «atto fondativo». La poesia di Sagredo va letta in quest’ottica: come ogni fondazione di città, traccia il decumano e il cardo e le innumerevoli vie trasversali che li attraversano, anche nella poesia sagrediana si pone il medesimo problema di disseminare i sensi e le direzioni di senso ai fini dell’orientamento nella città del Verbo. Sagredo sa bene che in ogni atto fondativo di parola si cela il teatro della rappresentazione, un rito, un altare (divelto), un logos (rimosso), un messaggio (tradito) ove il parlante è contraddetto e contraddistinto dalla parola parlata. La parola sagrediana assume la forma di una erotecnica, è sospinta da un desiderio di parola che vuole rimettere la parola al centro della scena della rimozione e del tradimento (di qui l’abbondanza nella sua poesia di armi bianche, di scene di tradimento, di sanguinamenti, di oltraggi etc.). La poesia sagrediana è una rappresentazione teatrale di un teatro finto, posticcio, bislacco, è una parola di cartapesta che la abita, una parola consunta e infingarda che guarda con orrore e dispetto al discorso poetico che crede ingenuamente di risolvere il conflitto tra il conscio e il rimosso, tra il tradimento e la fedeltà con il semplice ricorso ad una parola referenziale che tradisce un concetto federativo tra discorso poetico e reale (visto come una serie di oggetti che stanno di fronte al parlante). Primo intento di Sagredo è quindi rompere il patto federativo che lega la parola al referente e la parola al significante, il tacere al parlare, il parlare al tacere visti come soluzioni non accettabili ed insufficienti; secondo intento è rimescolare l’ordine e il disordine delle parole, considerate quali frattaglie algebriche della impossibilità di attingere un senso o una direzione di senso nella città del Verbo. Lo scompaginamento, lo scassinamento e il caos verbale che ne conseguono sono il diretto risultato di un atteggiamento quasi donchisciottesco del poeta che si rivela impagliatore di frasari, fustigatore di parole, allibratore di scommesse perdute…
Poesia – Matematica
Finzione matematica, disincanto del numero,
gioia dell’Ordine barbarico…Zero Cardinale,
la Poesia è vera e non si dimostra: è furore dello sguardo!
È fantasia di una potenza che ha numeri reali,
non immaginari, né naturali, sospesa fede incredula…
metafora del numero è il sogno della lingua,
insiemi di luce e luce degli insiemi:
divergenti nella lacrima degli universi!
Utopia di Pierrot: Aritmetica!
Fantasia di Colombina: Algebra!
Capriccio di Arlecchino: Geometria!
Il suono scrive il numero:
curvatura del punto i/n/immaginabile.
La parabola di un punto
non è una linea bene-stante,
ma la sua finis-terrae
Curo i versi perché curo i numeri
sono malati immaginari, e non reali,
ma di naturale hanno la bellezza:
la lingua quasi pura della probabilità.
C’è un insieme ballerino e convergente:
sono i numeri dei versi e i versi dei numeri,
curvatura dei versi, curvatura dei numeri.
Sublime finzione l’infinito! La sua maschera… finita!
Solitudine della logica: punto del non-ritorno.
Solitudine del paradosso: punto del ritorno.
Da punto del non-ritorno al punto del ritorno,
dal ritorno del punto al non-ritorno del punto.
Solitudine del punto.
Solitudine del ritorno.
Solitudine della linea.
Solitudine dell’insieme.
L’inizio non ha fine all’inizio della fine!
(Roma, 17 febbraio 2011)
*
Qabbalah, Circonferenza della Chiave,
Soglia della Prima Luce,
quale cristallo mi sottrae l’Utopia
al mio discernimento?
Come è aguzzo il Verbo che penetra la Lettera
e col Numero genera l’unica Volta dello scibile!
Non ho che un Maestro da espiare – il patibolo
è orfano del boia – che il Dubbio sia
la Mistica del mio Quadrato all’infinito?
Nel regno di Como leggero è il mio passo.
La Visione attende uno spartito estremo,
ma non può la Grazia chiudere un Principio
e il Riso giocare alla rinascenza di un Custode.
No!
La Censura dona alla Lettera quella Soglia
che il Numero rifiuta per un più alto Oblio
di quel Bambino Ignoto che ha nome Conoscenza!
I cavalli di Frisia di quei Campi – in ogni tempo! –
e la mordacchia del terrore – nella sua bocca!
Immacolata Eresia è Innocenza dei Reticoli.
Immolata – all’Innocenza!
(Vermicino, 10/02 – 05/03 2004)
Ai metafisici inglesi
Meglio di voi io so cantare il verme
perché passo il testimone d’alloro
da una Morte all’altra col solo sguardo
di chi un giorno o forse una notte
fece brillare l’armilla, il colore
dell’ombra nel tempo antelucano.
Trascorsi chi sa quanti inverni accanto a quel fuoco
che divorava non bruciando sogni d’amori mai sognati,
speculae di concetti in filigrana, smanie di ossa, riflessi
di perduta carne nei bordelli: tutti, in via dei Crocicchi, i lupanari!
Tredici le stazioni – scosciate! – perché la vagina
del mondo mostrata fosse alle orbite di teschi recidivi.
Il commiato fu chiaro, intenzionale, come una visione
di Blake! – un epitaffio estremo di chi non la vita lasci,
ma l’amplesso goduto come una giovane leggenda,
una batteria di percosse sotto la carnale artiglieria di sordidi capricci.
Bardi gentili, io vi ringrazio dal Regno delle Ceneri,
ma la rinuncia non è la chiave della rassegnazione!
Ancora brucia, brucerà sempre, anche dopo l’inutile
giudizio universale, il sesso di dove morti siamo usciti,
di dove vivi rientriamo… per celebrare, truccati, una commedia!
(Maruggio-Campo Marino, 24/25 luglio 2008)
.
Utopia essere saturnino
Tu sei vicina alla destinazione che ti ho assegnato,
ma non t’abbandona la melanconia di Saturno –
forse è la chiacchiera del lutto o il suo contrario
che alla vuota contemplazione si ribella… invano!
L’allegoria è come la carezza di una satira strisciante
che la risonanza dei lamenti trasmuta in candelabri accesi
per una fine che mai è un compiuto atto – sul capezzale,
se vuoi, non confondere la genesi e il tuo fare originale.
Il dramma che inizia da un rogo annunciato sostiene l’altare
barocco di Bamberga – e, così sia, la visione di una santa: rose
sul letto ha sparso una più alta vergine!… e il suo confessore
non le vede: per l’intelligenza non si prevede libera docenza!
Vermicino, 9 luglio 2008
cinematografo
Al banchetto della sacra mortalità tu volgevi altrove il suo sguardo basedowico.
Avevi nelle mani il cerebro di Dio sezionato allegramente da occhiceruli teologi.
Ricordavi che la giostra del pensiero illumina gli orrori della teofania ultraterrena,
ma con gli occhi di una chiavica tu miri la bellezza delle pellicole impiccate ad una corda.
Ad ogni passo una stazione che rideva… 12 stazioni di applausi, battimani straniati e
3 cadute come esche ad una sarabanda di dèmoni: non c’è sabbia, né palme nei deserti!
Il parallelo s’impone, come nei massicci le creste, ai trionfi del rogo dei santi eretici:
stazioni di carbone sono le ossa… la fine è che gli occhi cercano orbite cave!
Ogni parola ha mozzato la sua lingua! La bocca è orfana di grida! Stridono gelose le banderuole!
Verità azzanna la ruggine del Verbo e – del perdono! — Io vedevo il canto degli uccelli e delle acque,
le sonnolente carezze materne, i campi – rossi di papaveri… credevo: libertina orfanezza è l’infanzia!
Ho trascorso le mie età sotto la cenere eretica. Ora sogno – gli anelli – di Saturno!
(Roma, 22 febbraio 2014)
*
Il pretesto fu l’attesa di una condanna prescritta dai loggioni.
La corda era timida come la lingua di Giovanni nei suoi occhi.
Il patio sofferente per l’assenza di un Antonio qualsiasi,
ma la sua parola era tortile come il pensiero di Giuditta.
La città era pavesata da recise lingue in fiamme eretiche, come rossastre – grida!
Letale crollava dai balconi sangue di giumenta – il tramonto, sgozzato!
Il sorriso del canto sugli occhi delle meridiane. Sii serena, Claudia, io non sognavo
le destinazioni, non potevo lacrimare dalle orbite straniate degli anelli di Saturno.
Come l’alloro reclamava dal favonio la sua giurisdizione!
L’appello all’arsura era la perdita di una gloria proscritta dai pulpiti.
I viali latini del diritto erano una fogna per lo spavento del tripudio a un franco
cielo. Le istanze – non la memoria dei mentori – ma la morte dei Trionfi!
E ancora, come sempre, la stessa città rullava la propria inconsistenza
sui tragitti romani, e sui selciati – lascivie di gatti tufacei e minzioni d’urine umane –
l’Ospizio scatarrava sentenze dai senili orecchi, e dai pelosi occhi di madonne,
e dai ratti del Riformatorio uno sputo barocco inondava e levitava le viuzze
col mestruo delle lanterne e delle chiaviche – in volo!
(Maruggio/Campomarino, 15 agosto 2014)
Sagredo è un poeta pieno come la Gradisca di Fellini, è un poeta di grande talento (malgrado le abbondanti idiosincrasie), ma fin dal suo esordio in rete un anno e mezzo fa ho riconosciuto la forza, l’orgasmo quasi fisico dei suoi versi roboanti, pieni, mai anonimi. Auguro al più presto una pubblicazione su carta.
La poesia di Antonio Sagredo è un atto irriducibile che si inserisce nel mondo. Un atto che per incarnarsi deve pescare nelle profondità dell’Estraneo.La sua è una poesia che si assenta da questo e quello, dagli oggetti storici, sembra quasi vivere in un limbo a-storico. Come ho scritto altre volte, l’impiego degli aggettivi (mai dimostrativi o qualificativi di una sostanza) è volto a stravolgere e a sconvolgere la sostanzialità e la stanzialità dl discorso linguistico. Sarà bene dire subito che la poesia di Sagredo non è poesia pura, non riposa sull’atto poetico in sé, non abbandona mai i significati particolari delle parole nemmeno quando alza il diapason della significatività fino agli orli dell’incomprensibile e dell’indicibile.
Scrive Octavio Paz ne “L’arco e la lira”: «Un’opera poetica pura non potrebbe esser fatta di parole e sarebbe, letteralmente, indicibile. Nello stesso tempo un’opera poetica che non lottasse contro la natura delle parole, obbligandole ad andare oltre se stesse e oltre i loro significati relativi, un’opera poetica che non cercasse di far loro dire l’indicibile, risulterebbe una semplice manipolazione verbale. Ciò che caratterizza un’opera poetica è la sua necessaria dipendenza dalla parola tanto quanto la sua battaglia per trascenderla».
La parola poetica di Sagredo è fondatrice di un mondo, un mondo surrazionale e incipitario, vuole fondare l’arché, il principio, si pone all’origine della Lingua come se dovesse modellarla secondo nuovi bisogni, seguendo la logica perlocutioria dell’atto fondativo, ma per far questo essa paga un altissimo pedaggio di indicibilità e di incomunicabilità. Sarebbe incongruo chiedere all’atto fondativo sagrediano di porsi nella secondarietà della comunicazione, in essa non c’è comunicazione ma fondazione, non c’è mediazione tra un destinatore e un destinatario ma un atto, come detto, incipitario del senso.
C’è un insieme ballerino e convergente:
sono i numeri dei versi e i versi dei numeri,
curvatura dei versi, curvatura dei numeri.
Sublime finzione l’infinito! La sua maschera… finita!
Solitudine della logica: punto del non-ritorno.
Solitudine del paradosso: punto del ritorno.
Da punto del non-ritorno al punto del ritorno,
dal ritorno del punto al non-ritorno del punto.
Solitudine del punto.
Solitudine del ritorno.
Solitudine della linea.
Solitudine dell’insieme.
L’inizio non ha fine all’inizio della fine!
È un atto poetico che vuole situarsi all’inizio della costruzione della Lingua, in una solitudine assoluta ed eroica. È un atto maniacale e spasmodico, incipitale e magmatico.
Molto bella la prima poesia alfa numerica!
io ho sempre trovato in antonio ciò che volevo trovare. Poi le strade sono multiple e apprezzo la loro variabilità. Ai più Antonio può non piacere, ma l’espressività della parola di Sagredo, i suoi contrasti repentini, i suoi cambi di ritmo, l’intensità versale, la sua idea di poesia come creazione la rende una delle migliori nel panorama italiano et oltre. Ma il mio interesse è vasto. Spiace solo che la Canciani non riesca proprio a capire la grandezza di Sagredo.
Bravo Sagredo, senz’altro la preferisco come poeta che come commentatore. D’altronde tra Ripellino e i poeti russi ha avuto anche dei grandi maestri (ciò nondimeno aggiungo “mordacchia” al mio personalissimo antivocabolario dell’impoetico). Un saluto.
Caro Antonio (ti chiamerò così, dai…) che piacere trovare anche qui i tuoi versi!
Ci conosciamo, ci frequentiamo, e ciò nonostante è sempre una sorpresa assoluta l’”Antonio poeta”.
Ricordo il discorso sul “far fare alle parole ciò che vogliono… peccato non raccogliere questa Poesia che giace nell’erba (come dice Pasternak) e allora chinarsi, prendere…”.
Petali quantistici come vuole la nuova frontiera della fisica, nei tuoi primi ed ottimi versi: la discretizzazione della visione del mondo, la quantizzazione dell’essenza che diventa una sola (e solitaria), con buona pace del nostro Anassimandro.
“Ho trascorso le mie età sotto la cenere eretica. Ora sogno – gli anelli – di Saturno!”: che alla fine la teoria del tutto passi per la visione poetica?
Vera è l’apparenza, come la maschera è senza finzione. Pensiero, questo, nato dalla lettura delle tue poesie, caro Antonio Sagredo: mi complimento con te.
Poesia-Matematica e Utopia essere saturnino le preferisco, e c’è poi l’inizio di quel verso: “Il pretesto fu l’attesa…, che sembra quasi mio.
Il mio amico Antonio sa già che non capisco la sua poesia, e con ciò riconosco di avere dei limiti in fatto di comprensione. Dipende da cosa vuole esprimere la poesia e da cosa vuole suscitare nel lettore: se deve stupire, ammaliare, “ubriacare” di suoni e di immagini, allora la poesia di Antonio raggiunge pienamente il suo scopo. Se invece deve essere legata anche a un significato, come nella poesia tradizionale, allora la poesia di Antonio Sagredo desta soprattutto stupore e inquietudine. Ma, ripeto, non sono la persona più qualificata a esprimere un giudizio su questa poesia, forse un giorno capirò, nel frattempo oggi leggo e mi domando: Antonio sei desto o stai sognando?
chi sogna produce endorfine quindi è più desto di chi non appare desto.
Cos’è poesia?
Non è forse
orgogliosa
vogliosa combinazione
di numeri intrecciati
come pezzi infiniti di ricambio?
Non è forse
spumosa messe di parole
divise in classi
gerarchie
sottostrati?
Che ordine costrutto
come sorci
sull’ATTENTI!
(1968 – 1° Poema idiota)
Poesie al limite della prosa e a volte con giochi di parole: ma la fantasia è notevole. La più interessante per la sua forza espressiva mi pare sia “Ai metafisici inglesi”.
importante è scoprire cosa si nasconde sotto i “i giochi di parole”, cioè le fonti… che non sono mai giochi!. Sono quelle , le sorgenti – che iniziano le fini e terminano con gli inizi – che bisogna sapere, e non sarò certo io a riferire. grazie
esempi di fini e inizi sono l’ “Orlando furioso” di Ronconi e gli stravolgimenti razionalissimi di Carmelo Bene: ebbene io oscillo tra questi due, poi una oscillazione anomala mi ha schizzato fuori!
Vorrei riprendere la riflessione lasciata in sospeso nel mio commento ricordando che ogni atto «incipitario» è un «atto fondativo». La poesia di Sagredo va letta in quest’ottica: come ogni fondazione di città, traccia il decumano e il cardo e le innumerevoli vie trasversali che li attraversano, anche nella poesia sagrediana si pone il medesimo problema di disseminare i sensi e le direzioni di senso ai fini dell’orientamento nella città del Verbo. Sagredo sa bene che in ogni atto fondativo di parola si cela il teatro della rappresentazione, un rito, un altare (divelto), un logos (rimosso), un messaggio (tradito) ove il parlante è contraddetto e contraddistinto dalla parola parlata. La parola sagrediana assume la forma di una erotecnica, è sospinta da un desiderio di parola che vuole rimettere la parola al centro della scena della rimozione e del tradimento (di qui l’abbondanza nella sua poesia di armi bianche, di scene di tradimento, di sanguinamenti, di oltraggi etc.). La poesia sagrediana è una rappresentazione teatrale di un teatro finto, posticcio, bislacco, è una parola di cartapesta che la abita, una parola consunta e infingarda che guarda con orrore e dispetto al discorso poetico che crede ingenuamente di risolvere il conflitto tra il conscio e il rimosso, tra il tradimento e la fedeltà con il semplice ricorso ad una parola referenziale che tradisce un concetto federativo tra discorso poetico e reale (visto come una serie di oggetti che stanno di fronte al parlante). Primo intento di Sagredo è quindi rompere il patto federativo che lega la parola al referente e la parola al significante, il tacere al parlare, il parlare al tacere visti come soluzioni non accettabili ed insufficienti; secondo intento è rimescolare l’ordine e il disordine delle parole, considerate quali frattaglie algebriche della impossibilità di attingere un senso o una direzione di senso nella città del Verbo. Lo scompaginamento, lo scassinamento e il caos verbale che ne conseguono sono il diretto risultato di un atteggiamento quasi donchisciottesco del poeta che si rivela impagliatore di frasari, fustigatore di parole, allibratore di scommesse perdute…
oggi io e Antonio discutevamo, sghignazzando alle spalle di tutti, ma anche in faccia, proprio sul fatto che il significante e il significato sono termini superati. Gli dico quindi: potremmo chiamarlo significanto o significatante? Però certo, è che bisogna cambiar nome! altra questione è il dubbio. Nella poetica indubbia di Sagredo, proprio perché finge di non avere dubbi, ne è pieno. A differenza delle varie avanguardiette del novecento, che fingevano di averne, di dubbi.