(Invitiamo tutti i lettori ad inviare alla e-mail di Giorgio Linguaglossa glinguaglossa@gmail.com per la pubblicazione sul blog poesie edite o inedite sul tema proposto)
L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ(non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).
Chiara Moimas è nata a Ronchi dei Legionari nel 1953 e vive a Gorizia ha al suo attivo diverse pubblicazioni a carattere didattico su riviste specializzate. Ha pubblicato i volumi di poesia Metamorfosi: donna (Firenze Libri, Firenze 1989) e L’angelo della morte e altre poesie (Ed. Scettro del Re, Roma 2005) che ha ottenuto numerosi riconoscimenti. Seguono Curriculum vitae (Joker, 2012), e L’acerbo Pruno (Edizioni Progetto cultura, 2014). Sue poesie sono state pubblicate su riviste di settore e nell’antologia Ragioni e canoni del corpo di Luciano Troisio (Terziaria, Milano 2001). Nel 2012 ha vinto il “Premio speciale M. Stefani” al concorso di poesia erotica di Venezia. Si occupa anche di scrittura per l’infanzia e di poesia dialettale (il “bisiac”).
Aspasia
Calzari intricati
per risalire con agile passo
il sentiero tortuoso
della contemplazione
e serpi
agli omeri avvinte
pronte a serrare
nelle fauci il piacere.
Candida pietra di Eretteo
la mente porosa
avida di rivelazioni
assetata di riverberi
di inattesi baleni
tremula
nelle ombrose cavità
sino ad offrire
ghigni mutevoli
ai volti delle
statiche fanciulle.
Silente
non potè rimanere:
immobile architrave
di complessi pensieri.
Il pregio conosceva
delle misurate parole
ed il potere immenso
delle libagioni.
Lei
non intinse
lembo di peplo
nelle volute del focolare.
(inedito)
.
La via della seta
Più non s’impolvera
la via della seta
percossa da zoccoli
inquieti
non vibra nel fermento
di idiomi e di colori.
Sabbie roventi ed inospitali
monitorate in ogni duna
che il vento trasforma
coprono il sonno
degli scorpioni.
Sorvegliato
l’andare dei fiumi
dai detriti delle secche
al dissetante gorgoglìo
del disgelo.
Sciami di satelliti
stanano ogni vivente
sospiro. Conoscono le pieghe
della nostra vagina.
Pochi ettari abbandonati
alla verginità del principio.
Proiettate su schermi
le città sono tubi catodici
planetari ammiccanti.
Bersagli.
(inedito)
La soglia
Ho gettato la veste alle ortiche
e cammino coperta da brandelli di vento.
E’ buio là dove sto andando.
Selci acuminate mi feriscono i piedi
al tocco sussulto di viscide liane
vagabonde e tentacolari.
Qui ancora il giorno mi insulta
con luce intarsiata d’inganno
ed il mare mi sfida indiscreto.
Qui il vento la pelle avvizzisce
afone rende le labbra riarse
e le nocche arrossa delle impavide mani.
Voci riporta di passati tormenti.
Più non mi è amico.
Sono nuda adesso e scalza e indifesa.
Impalpabile come tremula ombra
dell’ombra corposa oltrepasso
la soglia ospitale.
( inedito )
.
Desolato abbandono
Desolato abbandono
di vergine foresta
selvaggia ed impetuosa
sfila tra le mie cosce
prende l’essenza di me
che fuggo
dal laccio della ragione
-orgia fantastica
orgasmo irreale
annienta la freddezza
di un pensiero-.
Fiumi tumultuosi
cascate sferzanti
scorrono sul mio seno
e spaccano il dolore
-lapilli infinitesimali
rimangono
non riconducibili
alla coscienza-.
Può godere il mio corpo
se l’iride si cela
alla luce che ferisce
e vomita immagini
depredate.
Vergine ritorna
ma già questo sogno
ne squarcia il candore.
(da Metamorfosi: donna, 1989)
Precario pendio
Già ululano alle spalle
in malvagi sodalizi riuniti
lupi famelici e rabbiosi
che il ghigno oppongono
pauroso
allo spettro delle tenebre.
Brandelli di vite azzannate
marciscono tra le fauci
aguzze e minacciose
impregnando di
nauseante fetore
l’alito della notte.
Non resteremo
l’un l’altro addossati
su questo precario pendio.
Rapaci torvi ed ostili
ombreggiano planando
ogni nostro pensiero
pronto il becco grifagno
a scarnificare il credo
e gli artigli a ghermire
i lumi che ardono ancora.
Di noi non avranno
il candore delle fragili ossa
il tepore del giovane sangue
non avranno di noi
la paura.
Qui
altro non lasceremo
che la gramigna pressata
dalla fatica del sonno.
Non temiamo il dirupo
l’orrido o il volo.
In stormi
ci vedrete valicare
autunnali orizzonti
riposare
sugli alberi maestri
di oceaniche traversate
ripulire con le ali
gravide di vento
l’immondezzaio
accatastato sulle battigie
dei continenti
e dai fondali
con inusitata forza
trarremo in superficie
l’urlo soffocato
della chimera.
(da Curriculum vitae, 2011)
Come ne “L’Angelo della morte e altre poesie” (2005), che a mio avviso sono la punta più alta della poesia di Chiara Moimas, anche queste poesie narrano con un linguaggio “detto” la problematica del corpo femminile e dell’eros ad esso associato dallo sguardo maschile. La poesia “Aspasia” è un esempio probante di questa tematica. La Moimas trova i suoi accenti più veri e intensi quando ritorna alla sua tematica più profonda, alla ossessione della donna che non può essere di natura angelica e all’angelo che non potrà mai attingere la sensualità della bellezza femminile.
Sono nuda adesso e scalza e indifesa.
Impalpabile come tremula ombra
dell’ombra corposa oltrepasso
la soglia ospitale.
La Moimas porta nella sua poesia una sensibilità e una sensualità morbose che si prestano a una dizione icastica e preferisce un andamento aforismatico, quasi marmoreo come a velare nel pudore della versificazione il formicolio di una sensualità tutta moderna e femminile.
Complessivamente lettura gradevole, a parte i luoghi a mio parere impoetici dove si parla di orgia, vagina ecc.
Aggiorno il mio personalissimo antivocabolario dell’impoetico: vibrare, scarto, croco, orgia, vagina.
Trovo spiritoso il personalissimo “antivocabolario dell’impoetico”.
Io non compilo un simile dizionario, ma ricordo a memoria. Salvo come accettabile il verbo “vibrare” perché usato da poeti “veri”, ma confermo le altre parole registrate da Gabriele Frattini e aggiungo moltissimi altri termini molto lontani dal linguaggio poetico (non il “poetichese”). Per esempio “monitorate” .
Quanto alla vagina e alle sue pieghe (?), lascerei l’argomento a chi si occupa professionalmente di ginecologia.
E la poesia dov’è? Io proprio non l’ho trovata. Mi spiace.
Giorgina Busca Gernetti
Errata Corrige: Fratini
GBG
Poesie notevoli e su una linea creativa che apprezzo al massimo grado. Il testo più originale a mio parere è “Desolato abbandono”.
insistere su una concezione vaginocentrica del mondo con tanto di sguardi maschili satelliti mi sembra un concetto alquanto abusato, soprattutto con chi fa di vagina e bellezza non soltanto fonte del proprio reddito, ma vero e proprio perno di un potere oppressivo: diciamo che le poesie della Moimas che ho letto su queste pagine in altro occasioni erano migliori di queste
In queste poesie di Chiara Moimas leggo una ricerca poetica che personalmente apprezzo; tuttavia, essa è frenata da una paura di fondo che quasi le impedisce di esprimersi come vorrebbe, prova ne siano i tanti “non” che costeggiano i suoi intenti. Sarà questa, forse, la ragione per cui Giorgio ha parlato (nel suo commento) di “detto”, riferito al racconto della “problematica del corpo femminile e dell’eros ad esso associato dallo sguardo maschile”.
Se intendiamo il “detto” levinassianamente, come io l’intendo, probabilmente a mancare è quella “suprema passività” del ‘dire’.
Su questo aspetto, di particolare intensità è Precario pendio, dove un timore antico, di tipo apotropaico, regge l’intera rappresentazione. Ma, anche qui, a mio avviso, quel “Non resteremo” impedisce che venga scarnificato il proprio credo.
«Ho gettato la veste alle ortiche
e cammino coperta da brandelli di vento.
E’ buio là dove sto andando.
Selci acuminate mi feriscono i piedi
al tocco sussulto di viscide liane
vagabonde e tentacolari.
Qui ancora il giorno mi insulta
con luce intarsiata d’inganno
ed il mare mi sfida indiscreto.
Qui il vento la pelle avvizzisce
afone rende le labbra riarse
e le nocche arrossa delle impavide mani.
Voci riporta di passati tormenti.
Più non mi è amico.
Sono nuda adesso e scalza e indifesa.
Impalpabile come tremula ombra
dell’ombra corposa oltrepasso
la soglia ospitale»
Questo, invece, nel bene o nel male, significa qualcosa. E Chiara è chiara, veicola un messaggio. Sono contento – a discapito di certe conclusioni del postmodernismo filosofico- che ci sarà un futuro della c.d. «poesia». Magari chorastica, liminale, ditante dal civile e dall’a-civile. Però, Chiara.
Scrivo da molti anni, ma so di non poter addentrarmi nel terreno della critica (per mancanza di competenza), ringrazio gli amici che si sono soffermati sui miei testi e giudico prezioso ogni giudizio ed ogni consiglio. Scrivere è fatica ed a volte infruttuosa, ma “qualcosa obbliga” tutti noi a farlo!
Grazie e buon lavoro
Questa tua affermazione, Chiara, è l’esempio fondamentale del mio concetto di democrazia estetica (cfr. Giorgio). Buffoni e ballerine non c’entrano niente. «Scrivere è fatica ed a volte infruttuosa, ma “qualcosa obbliga” [quasi, n.d.c.] tutti noi a farlo!». Se riuscissimo ad eliminare il [quasi], avremmo una democrazia estetica idonea a spazzare via l’attuale deleteria finta democrazia delle istituzioni.