Milo De Angelis è nato nel 1951 a Milano, dove insegna in un carcere. Ha pubblicato Somiglianze (1976); Millimetri (1983); Terra del viso (1985); Distante un padre (1989); Biografia sommaria (1999); Tema dell’addio (2005); Quell’andarsene nel buio dei cortili (2010).
Commento di Giorgio Linguaglossa
Chi è «Linn»?. Linn è il «padre» e il sostituto del «padre», è l’equivalente del «padre» e la sua «traccia», l’orma mnestica che è scomparsa, un indizio di «presenza», una segnaletica dell’«assenza». Tutte queste cose assieme. In questa poesia viene messo in luce uno schema familiare. Di qui il perturbante, l’estraneo che nella poesia di De Angelis è presente con le immagini del «quaderno», della scuola, l’«algebra», la «guerra punica» etc. La poesia può anche essere intesa come un Autoritratto con convitati, con sconosciuti, con presenze non riconoscibili, prive di identità definite, o con finte identità. In questo schema, il logos occupa la posizione del «padre», il quale è sempre «distante»; è colui che parla da una distanza, da una traccia, da una breccia, da un altrove. Parla per disseminazione. La disseminazione non equivale a polisemia: mentre la polisemia è sempre in qualche modo irreggimentabile, controllabile (diremmo: ubbidisce a un qualche principio di realtà), la disseminazione non è mai riconducibile all’ordine, si abbandona a un principio di piacere dispersivo che ha un rapporto necessario con il godimento e con la pulsione di morte. Nella sua mancanza di un principio ordinatore, la disseminazione configura il testo (e qui la differenza tra “linguaggio” o “scrittura” e “realtà” viene completamente a cadere) come una serie di innesti, ibridazioni, formazioni mostruose. La presenza del «padre» si manifesta attraverso una molteplicità di «voci», o meglio, di tracce di voci, che parlano e, a loro modo, interloquiscono. Il loro parlare è un vaneggiare, un parlare attraverso una rifrazione, una com-posizione che deriva da una s-com-posizione, una dis-sezione, una dis-persione. Al fondo di questa metafisica della presenza della dispersione c’è una disseminazione delle voci e dei linguaggi.
Nel suo fondo vige il «principio della discesa infinita», la «dura madre spinale», il totem del «padre», vige la Babele dei linguaggi, le loro differenze, le loro sovrapposizioni, i loro scarti, i loro conflitti che non sono mai conflitti semantici, nulla è più estraneo alla sensibilità di De Angelis che pensare il discorso poetico in termini di modulazione dei significanti o delle stratificazioni semantiche. Per De Angelis la semantica nasconde al suo interno sempre una «mantica», un meccanismo incognito che agisce all’interno del discorso poetico come un codice, come la duplice elica del DNA, un misterioso regolo che ordina il caos dei linguaggi. Sicuramente, in questa poesia come in tutta l’opera di Milo De Angelis, concetti psicoanalitici come rimozione, castrazione, sublimazione, pulsione di morte, coazione etc. giocano un ruolo di primo piano, ma non è questo il punto, quanto tempo e controtempo, retrospezione e prospezione, stop and go, invariante e varianti formano la spina dorsale della scrittura deangelisiana. Una sorta di struttura binomiale presiede la sua scrittura: testo e sottotesto. L’analisi dei suoi testi poetici può essere condotta alla stregua di un tentativo di individuazione di atti mancati, lapsus, mascheramenti, sintomi, salti, brecce che la decostruzione sfrutta per inserirsi in sistemi che, a prima vista, nei loro meccanismi di difesa, appaiono solidi e inossidabili. Come la nozione freudiana di inconscio, il concetto di «disseminazione» assume una funzione antifenomenologica, nel senso che costituisce un ordine di alterità per definizione irrappresentabile, o rappresentabile soltanto attraverso un insieme di sostituzioni, di supplementi. Salta come sulla dinamite il rapporto di interdipendenza tra la scrittura fonetica e una certa concezione della temporalità come successione lineare, discreta, di istanti. Il testo come ibrido si presta invece a una lettura molteplice, su vari livelli e in più direzioni (possibilità che non si riscontra ad esempio nella scrittura ideografica, che non è fonetica), perché non assoggettabile a un centro unico, a una direzione principale, a un significato egemone:
Quel mutarsi del sole in stoffa militare
Si tratta di qualcosa di affine alla procedura alchemica, di una magia che affiora all’improvviso dalla non-presenza dell’inconscio, di qui il mistero inafferrabile di certe inspiegabili associazioni, il mistero del numero:
Nella cartella, l’indomani, rimangono i nostri disegni, ciascuno
con un numero araldico. L’undici è la fortezza, difesa da uno sguardo
di fanciulla gotica. Il cinque è un uomo in mezzo al fiue: ha in mano
uno scrigno di gioielli, nuota a fatica, annaspa, forse cede.
[…]
… «Si salverà…», pensavo, ed era il numero accanto,
lo zero matto, un efebo con il berretto a visiera
e l’acchiappafarfalle si prepara per la disfida medievale
Ma il numero viene associato all’«efebo», all’«acchiappafarfalle», cioè ad esseri demonici, incompiuti e inconcludenti, a metà tra il definito e l’indefinito. Può apparire paradossale che il «numero», cioè la più alta quantità di astrazione simbolica, possa equivalere ad esseri indefiniti e indistinti come l’efebo e l’acchiappafarfalle, ma per l’inconscio tutto ciò non ha la minima importanza, tutto è simile al tutto, ogni parte disseminata corrisponde simbolicamente con un’altra parte del suo insondabile e vasto universo: «Tutto ritorna qui, confine del luogo», scriverà De Angelis in un’altra poesia della medesima raccolta. Quindi c’è un «luogo», per sua essenza inarrivabile, ma è un luogo navigabile, perlustrabile, sondabile con gli strumenti del logos poetico, luogo che non sarà mai colto nella sua «origine» ma soltanto attraverso i suoi supplementi, le sue sostituzioni, le sue sovrapposizioni, i suoi ribaltamenti, i suoi rinvii, le sue dis-connessioni simboliche segrete e alchemiche. Si assiste alla presenza di due assenze strutturali della scrittura: assenza del destinatore (mittente) e assenza del destinatario (ricevente).
È una poesia della «presenza disseminata», che si presenta come nuda presenza, non è un caso che tutta la poesia sia costruita al presente indicativo; e domina il deittico che ben si addice al verbo coniugato al presente: «appena vieni», «io sono sempre qui», «sempre qui», «vicino», «È un tempo al neon, non ha stagioni». La poesia della presenza assoluta è possibile solo declinando al presente il suo universo. È la non-presenza dell’inconscio che si rivela nella presenza assoluta. La poesia assume la forma di una deriva della non-presenza dell’inconscio. Anche la stessa ossessione dei luoghi, di cui la poesia di De Angelis è così ricca, rivela la non-presenza del luogo assoluto: il qui e ora è il luogo indescrivibile del presente assoluto, dell’adesso.
Questa teoria della non-presenza può essere riassunta nel concetto di «traccia». La traccia (che Derrida riprende da Emmanuel Lévinas) è «un passato che non è mai stato presente», cioè la dimensione di un’alterità che non si è mai presentata ne potrà mai presentarsi, che Derrida non esita ad assimilare alla nozione psicoanalitica di inconscio: «con l’alterità dell'”inconscio” abbiamo a che fare non con degli orizzonti di presenti modificati – passati o a venire – ma con un “passato” che non è mai stato presente e che non lo sarà mai, il cui “avvenire” non sarà mai la produzione o la riproduzione nella forma della presenza. Il concetto di traccia è dunque incommensurabile con quello di ritenzione, di divenir-passato di ciò che è stato presente. Non si può pensare la traccia – e dunque la différance – a partire dal presente, o dalla presenza del presente» (La diffèrance). Possiamo adesso comprendere perché la scrittura deangelisiana si presenta come presenza di un ordito di tracce disseminate, è la sua ragion d’essere, il modo per rendere raggiungibile ciò che è un ordito di scarti, di invii, di rinvii:
O forse non è questo,
ma un altro luogo senza vetri, il luogo più prossimo,
mi dicevi, in cui eravamo
già stati. Quell’intuito sosta in me. È il bar che si riempie…
Come la nozione freudiana di inconscio, il concetto di traccia assume una funzione antifenomenologica, nel senso che costituisce un ordine di alterità per definizione irrappresentabile, o rappresentabile soltanto attraverso una catena di sostituzioni. Scrive Derrida: «e per descriverle, per leggere le tracce delle tracce “inconsce” (non c’è traccia “cosciente”), il linguaggio della presenza o dell’assenza, il discorso metafisico della fenomenologia è inadeguato».
Ed è infatti proprio questo l’esito principale consentito dalla nozione di «traccia»: quello di far intendere l’ordine del senso (della coscienza, della presenza, e di tutto il sistema concettuale da esse regolato, cioè l’insieme stesso della metafisica) come un ordine supplementare, radicalizzando con ciò quella che, secondo una tale metafisica, era una condizione limitata alla semplice scrittura. Vale a dire che l’irrappresentabilità della traccia tende a far leggere ogni presentazione o rappresentazione come ciò che sta al posto della traccia «originaria», la sostituisce, ne è insomma la scrittura, così come la coscienza, in un testo famoso in cui Freud la paragona ad un notes magico e che Derrida discute in La scrittura e la differenza, è la traccia «visibile» dell’inconscio. Questa «logica del supplemento» è ovviamente impensabile all’interno della logica, scriverà in Della grammatologia: il supplemento supplisce una mancanza, una non-presenza, nel senso che rappresenta il momento di una strutturazione non preceduta da nulla, ma a partire dalla quale qualcosa «appare». «Il supplemento viene al posto di un cedimento, di un non-significato o di un non-rappresentato, di una non-presenza. Non c’è nessun presente prima di esso, è quindi preceduto solo da se stesso, cioè da un altro supplemento. Il supplemento è sempre il supplemento di un supplemento».
Propriamente parlando, non si può dare alcun fenomeno dell’esistenza , se non all’interno di una dimensione che potremmo definire originariamente linguistica, determinata cioè dall’Altro come luogo della parola e fondata così sulla totalità dell’ordine simbolico in quanto ordine causativo del soggetto. Il telos che muove il De Angelis di Millimetri (1983) di far tabula rasa della storia e della storialità si incontra con il problema di dover abolire anche la dimensione linguistica e di dover arrivare ad un pre-linguistico che non può essere afferrato se non ricorrendo ad una metonimia irriflessa, ad un motore metonimico che devii di continuo la significazione all’interno di se stessa. È ovvio che da questa posizione De Angelis non poteva arretrare ulteriormente, e infatti la sua produzione nei decenni successivi si impegnerà verso l’unica strada per lui percorribile: quella risalita che, sola, gli avrebbe consentito una stabilizzazione della significazione poetica…
Linn, l’avvicinamento
I
Si è travolto d’algebra il sereno, è caduto sulla prima
guerra punica, con i miei ventimila neuroni alla
campana, giaculatorie da ripetere in numero dispari. Non posso
dirti dove sei giunto, ma posso dirti dove tutto è iniziato. Ecco che l’esilio
si fa idea. Animali bisbigliano al viaggiatore in sordina
le antiche regole del sopravvivere, gli mostrano la foto,
il bambino su una lontana spiaggia del ’59 con le braccia e le gambe
bloccate nella corsa. Era quella grafia che
non sbanda, quel mutarsi del sole in una stoffa militare. C’era in me
qualcosa che sa di me. Ogni sera viene
a dirmi addio con una cartolina e il libro
di scienze sottobraccio. Segniamo in blu le espressioni sconosciute
“dura madre spinale”, “principio della discesa infinita”.
Le scriviamo sul registro, ci diamo la buona notte.
II
Nella cartella, l’indomani, rimangono i nostri disegni, ciascuno
con un numero araldico. L’undici è la fortezza, difesa da uno sguardo
di fanciulla gotica. Il cinque è un uomo in mezzo al fiume: ha in mano
uno scrigno di gioielli, nuota a fatica, annaspa, forse cede.
(“Anna la naspa, fin da piccola la chiamavano così”, sentenziava
uno stronzo della Bocconi sulla sorella
scappata in Bolivia e ritornata qui, due mesi fa, tra i corridoi
del Besta) (Eppure gioiosa in certi sbalzi, in brevi
passi orientali). “Si salverà… “, pensavo, ed era il numero accanto,
lo zero matto, un efebo con il berretto a visiera
e l’acchiappafarfalle si prepara per la disfida medievale
o per quella più domestica, sconfitto anche in giardino
da vanesse e cavolaie. Era Anna,
che non conquista e non è presa, e ha in faccia
lo stesso coraggio di beffa addolorata.
III
Spiamo insieme, dalla finestra, uomini che si accoppiano
con i loro incubi, la camerata che gira su se stessa, uomini e donne
distesi sul pavimento liquido. Poi, vicinissimo a noi,
un fruscio interno, le ultime vibrazioni di un insetto, la sua
sostanza evaporata. E di colpo tutta la vita ha bisogno di questo
buio per condurmi a sé o dovunque io mi accanisca –
un’occhiata al passaporto, all’indirizzo del postumo incontro – Café
des pauvres, Montpellier.
“Sono vent’anni che guardo e che non dormo… appena vieni
cantami la canzone in italiano… vieni
appena tu puoi… io sono sempre qui.”
.
IV
Sempre qui, mi dico, sempre qui, vicino
alla specchiera per trovare un solo tono di voce. So
la premura di questo golf azzurro, non la sua fine,
questo giro dopo giro intorno alle piastrelle. So di un tempo
che adunava gli abitanti, il turgore nelle corolle:
era il figlio pianeta che due donne vestivano,
la teologia di un borgo. Qualcosa
di mai vissuto nel mio sangue macera. È un tempo a neon,
non ha stagioni. Basta un’edicola aperta e ogni passo
diventa veloce, davvero veloce: se lo fermo,
la strada si avvicina, sparge essenza astratta, una cinepresa
che moltiplica porte e scale mobili, mi incalza, mi lascia. Allora
l’unica missione è una telefonata, una sorpresa di voce
attenta prima di me e dei miei secoli: accorcerà il tratto che manca
al cuscino, il punto da cui ricomincio. Oppure è il salone
di via Padova, gli ultimi giocatori di biliardo, come una
sfera nel percorso ci tiene il respiro: scambiare
un commento esatto, non oltrepassare la sostanza di legno, il panno
di tutti noi, questo bene che mi accerchia.
V
O forse non è questo,
ma un altro luogo senza vetri, il luogo più prossimo,
mi dicevi, in cui eravamo
già stati. Quell’intuito sosta in me. È il bar che si riempie
con le prime ore, forza mattutina degli ortomercati, Fabienne
che contempla le saracinesche socchiuse
per prestarle un suo rovescio azzurro. Sì, è con bene, con bene:
la bilancia insensata sul palcoscenico,
qualcuno verrà a toglierla, tra poco… forse noi.
VI
Sono qui anche per questo, pensavo, se chiudo
nel corpo le cose in migrazione, se i miei cerchietti
per l’al di là sono in vetrina, sono a strappi. La nudità che
si misura con i burattini, le tibie trepidanti,
ha supplicato di crescere:
c’è ancora tempo, lo sai, sull’erba batte una cadenza
di colpi consolati. Pensavo a questa lettera:
te l’avrei data in un film allegro, in un digiuno spezzato fuori
avrei parlato delle luci che ondeggiano tra i vestiti, come montagne
da prendere a forza, da accucciare nella ciotola, nei lenti
meccanismi di un raffreddore, costruzioni a mano a mano. E ancora
avrei parlato di te, com’eri da ragazzo e come sei tornato, ti avrei
descritto uno per uno i passi troppo veloci,
sempre più veloci, finché l’angelo custode si aggrappa
alle caviglie e siamo salvi.
da Distante un padre (1989)