L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ (non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).
Anna Belozorovitch è nata a Mosca nel 1983, e ha vissuto tra il Portogallo e l’Italia, dove risiede stabilmente dal 2004. Ha scritto in russo, in portoghese, infine in italiano. Attualmente frequenta il corso di Dottorato di ricerca in Scienze del Testo all’Università di Roma “Sapienza”. E’ insegnante di italiano per stranieri. Ha pubblicato in italiano: Qualcosa mi attende, LietoColle, 2013; Essere pioggia, Montecovello, 2012; Gioventù, Centro Studi Tindari Patti, 2010; L’Uomo alla Finestra: romanzo poetico, Besa, 2007; Anima Bambina, Besa, 2005.
In portoghese: Como seria bom ser chuva, Corpos, 2012. È presente nelle antologie: L’evoluzione delle forme poetiche, a cura di Antonio Spagnuolo e Ninnj Di Stefano Busà, Kairos, 2012; Il Quadernario blu: venticinque poeti d’oggi, a cura di Giampiero Neri e Vincenzo Mascolo, LietoColle, 2012; Quanti di Poesia, a cura di Roberto Maggiani, L’ArcaFelice, 2011; Italian Poetry Review IV, 2009, SEF, 2010.
Commento di Giorgio Linguaglossa
Se la via della «povertà», che sa di utopia francescana, è probabilmente una via illusoria e salvifica, ne consegue che anche la via del «lusso» non è mai innocente, anzi, di più: quasi sempre ci ritroviamo tra le mani oggetti di oreficeria, elitarie smancerie, dolciumi. Perché non c’è più una strada, un sentiero assicurato (nel bosco coperto di foglie) per il quale qualcuno abbia stipulato un contratto di assicurazione verso terzi contro i sinistri causati dalla speculazione dei beni mobili delle scritture talqualiste, replicabili e moltiplicabili; non c’è più un «bosco» in cui smarrirsi. Per Anna Belozorovitch, un autore della nuova generazione, il «destino» dell’io è nel suo stesso vagabondare; il viatico dell’io è il suo errare (e il suo ritrovarsi). L’io è l’assoluto signore di queste poesie.
La scrittura letteraria è uno «spazio di morte» ha scritto Blanchot ma uno «spazio» dove protagonista assoluta è la vita. Dal corpo morto della scrittura adesso risorge la vita.
I saggi di questi ultimi anni sul post-contemporaneo di Roberto Bertoldo affrontano una serie di questioni. La domanda che si pone l’opera poetica è: chi è colui che parla e a chi lo dice? C’è separazione tra l’autore e il lettore? Da dove deriva questa separazione? Ma la parola dell’autore non nasce da una situazione comune a tutti i parlanti? Non è la parola della poesia quella della comunità? O è quella di una dispersione? La parola della poesia non fonda né stabilisce nulla, tranne la propria interrogazione? Un tempo forse la sua finalità era quella di dare un senso più puro alle parole della tribù; oggi è una domanda che la poesia rivolge a se stessa. Questa domanda è un atto di fede, un dubbio, una ricerca? La domanda prende una forma. Ecco, alcuni segni che si proiettano su un fondale bianco da cui si diramano una molteplicità di significati possibili. Il significato finale di questi segni non può essere conosciuto dal poeta. I segni viaggiano insieme al tempo, o meglio, si diramano in più temporalità. Il poeta interpreta ciò che il tempo dice, ma il tempo dice: nulla: dunque nichilismo.
La «secolarizzazione» che ha investito il discorso poetico lo ha privato, da un lato, del radicamento ad uno sfondo metafisico-simbolico, dall’altro, lo ha reso, nelle sue versioni epigoniche, sempre più riconoscibile, di aproblematica identificazione. La dizione di Anna Belozorovitch oscilla tra la narrazione dell’io e l’esposizione del cuore; è un itinerario, una traccia, una serie di segni incisi sul cellophane.
Sorgente
Nell’ombra umida luccica dolce
macchiata da sottili rami
dei vaporosi raggi lunghi
tra i rami d’alberi in controluce
una sorgente silenziosa.
Ed è un silenzio diverso
il suo gelido accarezzare
la terra scura e argillosa,
è un suono inverso, un raccontare
quel che di altro c’è in ogni cosa.
Nel bosco denso come un respiro,
sussurra e propaga possibilità,
canta futuri e destini. Berne
è accettare ogni sentiero che verrà
ovunque si cammini.
(da Qualcosa mi attende, LietoColle, 2013)
*
Escogitare un piano.
Scappare dalla barca.
Città-recinto, finestre specchio,
ecco perché.
Odore di benzina e passato.
Ma al mattino, tutto il mare
succhiato via, rovesciato.
Fondale nudo, umidiccio,
e sulla sabbia i pori.
Andare dove.
Tornare dentro, cercare il fondo
e adagiarsi lentamente.
Tendine sugli oblò:
colpisce l’orizzonte.
Può attendere, il deserto.
(da Quanti di poesia L’Arca Felice, 2011)
*
Le note gocciolano come aghi da cucito
sfuggiti, sparsi ovunque, persi;
un gesto solo, e l’animo è lanciato.
Ma resta, vibra il giorno nel pensiero,
di pioggia pronunciata in fretta,
parole addossate al dopo, soldi,
notizie dal mondo, polipi ingordi,
creta. Principio dell’onnipresenza.
Poi, tu, e io con te, carezzi e trema
la realtà come uno specchio d’acqua.
E mi precipito verso l’interno, cado
là dove un cuore o altro mi disegna,
là non c’è fondo e io, là, non possiedo.
Un verso slitta dalle labbra piene,
le dita inciampano le une sulle altre.
E nulla resta. Principio dell’eternità.
Forse i nostri spiriti sono come le mosche
finite dentro casa per errore
che sbattono, impazienti, contro i vetri,
percorrono avanti e indietro i corridoi,
fino a convincersi che non esiste il fuori
e il cielo è soltanto uno sfondo.
Così, galleggiano al centro delle stanze, fosche,
attente a compiere un giro sempre più rotondo.
*
Io sono l’ombra d’una nuvola
che scivola sul mare verde,
una ferita umida incisa nella terra;
l’isola arida, che il sale non feconda,
che crede solo all’orizzonte che si perde
in fondo alla nebbia pensierosa
e, nella notte, al nero in cui sprofonda.
Sono in fuga dalla pennellata opaca.
Sono l’attesa, in ogni cosa, di venir corrotta,
di diventare altro o di non aver più nome.
Sono una definizione stanca.
Tu non mi riconosci, ma esisto eccome:
sono la forma ignota che, nella navigazione,
ti fa cambiare rotta.
(da Qualcosa mi attende, LietoColle, 2013)
Filo di passi
Come credere al destino?
Esiste soltanto un destino inverso,
fitto tessuto di conseguenze.
Esiste soltanto un percorso
che chiamiamo cammino perché,
guardando indietro, mostra sequenze di punti
illuminati dalla nostra prospettiva.
Diventa cammino un filo di passi
quando si è fermi a contemplare,
mentre si riprende fiato.
E’ la ragione d’osservare, e d’osservarsi
all’indietro, a dipingere il destino:
colora i sassi casualmente pestati
in mezzo a migliaia d’altri simili sassi.
Allora il destino è un modo per raccontarsi un passato
visto in sequenza dal punto che ci ha fermati.
Allora è la ragione di fermarsi
la chimera del presente,
l’attimo puro.
Allora il vissuto, il cammino fatto,
è una forma di futuro:
si manifesta nell’osservazione che ci attende.
(da Qualcosa mi attende, LietoColle, 2013)
Splantzia
Quando l’occhio si posa, io parto
e, insieme allo sguardo, non sono.
Un contatto, sfiorare di mano
di addio o perdono, null’altro.
Tutt’intorno il mondo è stretto
come un nido di sogni intrecciati.
Sono fibra, insieme ai nomi
di chi era, presente o distratto.
Dentro il tronco, il platano stanco
è gomitolo d’ore e grida,
e mi guida lo sguardo in alto,
dove i sogni si sono ammassati:
nel fogliame mi perdo e resisto.
Qui, è testo il suolo assetato.
Qui, è presto in eterno e lo sguardo
è il tatto del cieco-turista.
Poi, con l’occhio ripieno, ritorno
e non c’è più ritorno. Intorno,
suona il canto del tempo nascosto,
splende il resto del giorno passato.
Due teste unite da un corpo,
prego a destra ma credo a sinistra.
Mi sovrasta la gioia insensata
d’esser ora null’altro che un posto.
(Inedito)
“Ed è un silenzio diverso
il suo gelido accarezzare
la terra scura e argillosa,
è un suono inverso, un raccontare
quel che di altro c’è in ogni cosa.”
Complimenti all’autrice per queste poesie.
faccio tutti i miei complimenti a questa autrice per la struttura dello zigomo che non lascia indifferente un uomo col sangue nelle vene
Come sempre, illuminanti e competenti le note di Giorgio Linguaglossa, sia
ai versi di Lucia Gaddo (voce poetica a me piacevolmente nota), sia ai versi
di Anna Belozorowitch (che mi par d’avere conosciuto in un incontro poetico al MAXXI, l’anno scorso): le due poete confermano che il tempo
della poesia non coincide con il tempo della vita, da un lato, e che la poesia
è la vera vita, dall’altro, nel suo scorgere nei segni e nella memoria una possibilità ulteriore del vivere stesso…
Gino Rago
“Poete” ? – ma che scrive!
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(in russo poetessa è un termine spregiativo; Nikolàj Zabolockij , il poeta post-futurista, diceva sempre di odiare la poetessa, perché la poetessa è una decadenza della poesia; infatti né Marina Cvetàeva, né Anna Achmàtova si sono chiamate poetesse, ma “poet”: quindi diventar poetessa è un segno di decadenza, di abbassamento, di avvilimento).
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“poet” sta per poeti
Gentilissimo
.
Il modo più comune per ottenere il femminile dei nomi è sostituire la desinenza del maschile (-o, -e) con la desinenza -a
impiegato ▶ impiegata
cuoco ▶ cuoca
signore ▶ signora
cameriere ▶ cameriera
• Soprattutto per alcuni nomi maschili in -a e in -e, ma anche in -o, si ricorre alla desinenza -essa
poeta ▶ poetessa
duca ▶ duchessa
studente ▶ studentessa
principe ▶ principessa
avvocato ▶ avvocatessa
soldato ▶ soldatessa
Questa desinenza, però, è usata soltanto nei nomi citati e in pochi altri (come ad esempio baronessa, contessa, dottoressa, leonessa, professoressa). Diversamente, è sentita come ironica o addirittura dispregiativa
È una filosofessa da quattro soldi
.GBG
Sono, per scelta di vita e formazione culturale, per la taciturnitas benedettina: silenzio, umiliazione, obbedienza; ma altresì parlare là dov’è
necessario e perfino utile, nell’equilibrio tra tacere e dire.
Molto apprezzate queste poesie. Un saluto
Gentile Gino Rago,
ho notato la Sua compostezza e la Sua umiltà (non certo umiliazione!) – Ciò che scrive il Di Polo è esatto nella sua specificità, ma è pur vero che quando Lei scrive, che il ” il tempo della poesia non coincide con il tempo della vita, da un lato, e che la poesia è la vera vita, dall’altro” è risaputo fin da prima di Omero, ma molti poeti non lo comprendono ancora: tempo, poesia, vita e aggiungiamo la memoria (che lei fa entrare in gioco) per il Poeta sono trastulli, da cui lo stesso si fa giocare! – è un gioco al massacro di cui il lettore non ha la minima idea, se poi il lettore è un accademico la situazione peggiora, e dunque non comprende il perché le due : Cvetaeva in primis e la Achmatova (le conosce?) rifiutano la “poetessa”, e accettano in pieno il “poeta”. Bisogna conoscere la loro storia a fondo, e a fondo anche l’epoca che vissero, e non basta… a fondo anche la loro cultura e conoscere la loro lingua e il linguaggio poetico di entrambe (questo vale anche per i Poeti loro contemporanei di cui furono amici e compagni di strada talvolta)… in Italia c’è moltissima non-conoscenza (non è una critica rivolta a Lei) nonostante i traduttori italiani – gli slavisti – siano stati eccellenti (sono stato allievo del Ripellino e ho avuto fortuna). Le poesie delle due poetesse che sono pubblicate nel blog sono poesie semplici, naturali, comprensibilissime, sono come compitini nei quali avverto una superficie lieve e scivolosa e non certo una profondità e una meditazione, o quel qualcosa che m’arresta sia questa una metafora o un senso o una forma… sono poetesse, non poeti ancora! secondo quanto affermarono quei due grandi Poeti russi su citati.
Caro Antonio Sagredo,
trovo eccellenti, per competenza e cultura, le sue meditazioni.
Le esprimo gratitudine e, per dirla con il Montale de “L’anguilla”, come non dirle “fratello”?
Antonio,io e te abbiamo palati aspri. Qui fra poco si cade nello zuccherificio. Sono dell’idea che nel momento in cui non si riconosce più il genere o il sesso dell’autore si può parlare di Poeta. I due Poeti sopracitati baipassarono qualsiasi genere. Qui non è ancora accaduto, ma è possibile che accada.
Ma, nel panorama attuale, sono positive.
L’Italia, si sa, è da qualche tempo il paese delle mode. E qualche volta agli italiani piace gigioneggiare; meno, studiare.
“Poeta”, in italiano, è parola maschile; il femminile, da prima del 1333, è “poetessa” (vocabolo che quindi ha ben sette secoli di vita).
L’equivoco “la poeta” è nato con la pubblicazione, alla fine degli anni Ottanta, dell’opera “Il sessismo nella lingua italiana”, promossa dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e dalla Commissione per le Pari Opportunità; l’opera fu curata da Alma Sabatini (che si avvalse della collaborazione di altre esperte). Premetto che sono d’accordo con quasi tutte le proposte della Sabatini, e quindi per me è giusto scrivere, per esempio, “la deputata, l’avvocata, la preside, l’ingegnera, la giudice, la notaia, la ministra, la pretora,” ecc., adeguando la lingua, laddove deficitaria, alle esigenze odierne. Dissento però profondamente su “la poeta” e difendo a spada tratta “poetessa”, che ha una bella e lunga storia..
Dico innanzitutto, per sgomberare il campo, che espressioni come “il poeta Maria Rossi” sono del tutto ridicole, linguisticamente equivoche e non meritano un briciolo di attenzione. E passiamo oltre. Dunque, sostiene la Sabatini, il “latino ‘poeta, -ae’ è di genere maschile, ma della prima coniugazione cui appartengono i nomi femminili”. Rispondo: e che vuol dire? Maschile è, e maschile rimane; anche perché, per il femminile, c’è “poetria, -ae” che i latini presero dal greco ποιήτρια,-ας . Ma la studiosa prosegue: “Anche il plurale maschile “poetae” è foneticamente legato al genere femminile. Obietto ancora: e che vuol dire? Anche “cerasus”( il ciliegio) o “populus” (il pioppo), giusto per buttar là un paio di esempi, sono foneticamente legati al genere maschile, ma sono nomi femminili a tutti gli effetti. E dunque? Dopo queste male argomentate premesse, si passa ai suggerimenti: “Si suggerisce quindi di usare ‘poeta’ anche per la donna , che non la diminuisce come il suffisso ‘-essa’ e … che, inoltre, ricalca foneticamente la maggioranza dei nomi femminili”. Eliminata automaticamente, per quanto già da me detto, la ‘motivazione fonetica’, resta il vero motivo per il quale si vuole eliminare il termine ‘poetessa’ per sostituirlo con l’insulso e ingiustificato ‘la poeta’. Eccolo: una sospettata ‘deminutio’, un senso ironico o sarcastico, una connotazione negativa di cui la parola ‘poetessa’ sarebbe portatrice. Ma -ci si chiede increduli- chi ha stabilito ciò e in base a quale riscontro oggettivo? Con quale misuratore (che non sia il gusto o la percezione personale)? E poi di tale negatività ci si accorge solo oggi, dopo settecento anni? Ci voleva la Sabatini con le sue quattro collaboratrici per scoprire ‘deminutio’, ironie o negatività che per tanti secoli nessuno, nemmeno i grammatici e i linguisti, avevano mai notate? La verità è che nella lingua italiana il sostantivo ‘poetessa’ – oggi soprattutto, e proprio come ‘professoressa’, ‘dottoressa’ – non ha altra connotazione, ma solo il significato suo proprio. Naturale, reale. Concludo: in questa vicenda, quelle che potrebbero sembrare posizioni d’avanguardia per me sono in realtà semplici battaglie di retroguardia. Perciò “poetessa” -sempre- per indicare qualsiasi donna scriva poesia.
Pasquale Balestriere
Gentile Balestriere, ciò che scrive “Poeta”, in italiano, è parola maschile; il femminile, da prima del 1333, è “poetessa” (vocabolo che quindi ha ben sette secoli di vita)”, lo sappiamo bene ed era inutile riferirlo… il resto è roba da intellettuali, non da Poeti. L’essere Poeta è essenza e tendenza, è possedere senza saperlo il – duende – che lei non può possedere affatto per questo le mie considerazioni riferite alle “poetesse” russe hanno una valenza universale riconosciuta che non mi sono inventate io, ma sono patrimonio della Poesia russa di quegli anni come ho scritto. Che Lei faccia il professorino lo posso anche comprendere, quel che non comprende è il Poeta, che è “una creatura messa a nudo e tutti voi avete la corazza!” (Marina Cvetaeva). I poeti s’impiccano per amore della Poesia!
Tutti gli altri voltano le spalle. E come dice Puskin : ” con gli sciocchi non entrare in discussione”.
In Italia si dice poetessa. Si rassegni Sagredo 🙂
Gentile Antonio Sagredo, come spesso le capita , lei non comprende (o non vuol comprendere, ch’è peggio) il nòcciolo della questione. Qui non si discute dell’essenza o del significato della parola “poeta” (sulla quale non ha niente, ma proprio niente, da insegnarmi) ma dell’USO che correttamente se ne deve fare in lingua italiana. Ho cercato di dimostrare che una parola con settecento anni di storia non merita di essere giubilata così superficialmente e velleitariamente, e magari per percezioni soggettive e tutte da dimostrare. Lei, da dilettante della lingua italiana, può pensarla come vuole. Io, da professore (non professorino! e attento all’etimologia!), ho il dovere di dire le cose come stanno. Davanti a tutti, anche a lei (però quando ho scritto il commento non pensavo affatto a lei ma ad una “querelle” su “la poeta, la poetessa” svoltasi qualche anno fa su un altro blog). Dunque, egregio signore, non si agiti tanto e tenga per sé le sue amate massime. Chi cita spesso, come fa lei, ha ben poco da dire di suo.
Pasquale Balestriere
infatti il Poeta è un dilettante, e fa quel che può.. Riferivo soltanto come in quella Russia di allora le poetesse amassero essere chiamate poeti. Nulla di più. E che in Italia c’è poetessa e poeta… mai ho avuto da dir qualcosa in contario. Non sono un purista della lingua: lascio ad altri questo increscioso compito! L’errore del poeta è portale di scoperta; l’errore di un etimologo è una tragedia… soltanto per lui! La lingua o linguaggi li manipolo come mi aggrada. E che io mi agiti è normale: è una agitazione creativa in tanto mare morto! E le mie amate massime sono molto amate da tantissimi che non sono più mie! E che ho da dir poco adesso è perché ho detto prima: non mi resta nulla dire infatti: avete tutto da dire voi!
Quando io non ci sarò più, non potrò più ascoltare il suo mea culpa nei miei riguardi. La mia Poesia sarà amata perchè alla lingua italiana ho dato un piccolo contributo… di avrela posta su un piano alto e profondo: il mio tempo al tempo che verrà.
Comunque la ringrazio, e addio.
———————
e come al solito Fratini non ha compreso!
Il Poeta è già un “rassegnato” a dir cose nuove!
Gentil Sagredo, offendere le persone per una disputa letteraria mi sembra davvero qualcosa di meschino e di basso, bassissimo livello. Penso che in un ambiente che dovrebbe essere intellettuale avere un minimo di buone maniere e di cortesia non sia un aspetto secondario. Ho apprezzato la presentazione di ieri, ma francamente questo suo atteggiamente arrogante e presuntuoso mi ha un po’ stufato, perciò le rispondo anche io con una citazione da un sonetto di Alfieri che viene titolato L’ANNOIA LO SDOTTORARE DE’ FORESTIERI CHE CAPITANO IN ITALIA…
Galli, Russi, Britanni e quanti mena
Seco aquilon gelato ai nostri liti,
Sia che al venir più dolce aere v’inviti,
E terra assai, più che la vostra, amena
O sian l’arti divine, onde già piena
L’Italia or par che a voi la via ne additi;
Che val mostrarvi in chiacchierar sì arditi,
E in eseguirle aver sì corta lena?
…….
Ma il saputello cinguettìo, che intona
L’orecchio a noi, volgete ad altra gente;
O ch’io rivolgo in voi pungenti carmi.
Permette, Sagredo? Mi concedo anch’io il lusso d’una citazione (catulliana), giusto per farla contento: ” …in perpetuum … ave atque vale”.
Pasquale Balestriere
addio a tutti e due: voi restate qui, io vado nell’al (i)i là.
Gentili interlocutori,
lasciamo a tutti la libertà di esprimersi come piace. Io per conto mio preferisco la parola poetessa e quella di poeta (al femminile), ma ciò non toglie che non tolgo certo il saluto a chi invece preferisce la parola poeta (al femminile) in luogo di poetessa.
Sarei curioso di sapere dalla Belozorovitch quale soluzione lei preferisce.
Pedini, odio fare il professorino, ma … Non ragioniam… 😉
Gentile Giorgio,
non mi crea difficoltà conciliare il fatto di scrivere versi con l’essere di genere femminile. Qualsiasi cosa proponga la grammatica (e la comunità) per casi come il mio, è soddisfacente anche per me.
Non condivido invece l’immagine dell’evoluzione progressiva da poetessa a poeta: non so se verrebbe in mente a qualcuno di coniare “poetessi” per distinguere ciò che sono autori maschi prima di raggiungere, come dei girini, uno stadio di maturazione accettabile e farsene attribuire il relativo titolo.
Detto ciò, “poetessa” è la mia scelta spontanea; ma altrettanto trovo accettabile qualsiasi termine alternativo, una lunga parafrasi o anche nulla.
Mi interessa molto di più la gioia di condividere e ascoltare connesse alla poesia.
Approfitto per ringraziare chi ha dedicato tempo e attenzione per leggere e/o commentare i testi qui proposti.
Anna
E’ un referendum?
Io voto per “La Poeta”, nel qual caso.
Anche se mi chiedo, è poeta chiunque scriva una qualsiasi poesia? E la pubblica?
Allora io sono dottore ogni qualvolta mi curo da solo l’influenza.
Avvocato quando difendo qualcuno da qualche giustizia/ingiustizia.
Sono anche ragioniere quando controllo il mio conto in Bank e svelo i codicilli.
Amministratore di condominio quando faccio notare che non si fuma in ascensore!!!
Caro Panetta proprio te che ami la libertà! per i mestieri che hai citato c’è un albo professionale, per gli scrittori non c’è alcun albo, lasciateci scrivere quello che ci pare 😉
No, dai Fratini, anzi Gabriele. Chi mai vuole limitare la libertà di scrivere, e di pubblicare? Art. 33 della Costituzione. Sulla libertà d’insegnamento avrei qualcosa da ridire, non certo sull’arte. Lasciamoci la libertà di scrivere, di dipingere, di fotografare, di montare immagini, di fare collage, di tutto e di più.
Ma, d’accordo con Sagredo, la poesia, il poeta…
Sì, scriviamo, scriviamo pure. E chi nega il diritto?
Io, personalmente, leggo tutto quello che mi capita sotto gli occhiali.
I doveri del lettore (Pennac, Gaiman) e i sogni ad occhi aperti.
Il poeta è un dilettante (Sagredo).
Ma non dimentichiamo la Bellezza, cioè Anna B., il resto è noia o delirio!
Sì, però, la bellezza (Sagredo) o lo zigomo (Almerighi) non credo dicano di poesia, della poesia, a meno che bellezza e zigomo (un po’ di apprezzamento prettamente maschile) dicono nulla.
Non cadiamo in questo equivoco, per favore, non è positivo, credo, per Anna Belozorovitch come per le molte bellissime donne, poeta, presentate in questo blog.
Uhmmmm. Attenzione!!!!!!
Vorrei ricordare a me stesso, prima ancora che agli altri, che ogni tipo di comunicazione in prosa richiede – per assolvere il suo compito- rispetto delle regole e, in particolare, tra le doti di quella che una volta si chiamava elocuzione, pretende chiarezza e proprietà. Perché il linguaggio è stato creato per capirsi. Senza equivoci, possibilmente. E invece oggi mi pare che capitino spesso incomprensioni, fraintendimenti e travisamenti vari, nonostante comunemente si usi un linguaggio semplificato e standardizzato su un registro medio-basso, con corrispondenti scelte lessico-sintattiche. Poi – è chiaro- nell’uso della lingua (che, vale la pena non dimenticarlo, è un codice) ognuno, realmente, prima ancora che come vuole, si comporta come può e sa.
Ciò detto, vorrei esprimere un breve pensiero sui versi di Anna Belozorovitch. Mi aveva un po’ preoccupato l’abbondanza di aggettivi nella prima poesia. Poi però ho incontrato una poetessa di elevate potenzialità, in parte già espresse, il cui occhio creativo rapido e prensile, servendosi di quel fine percettore che è il cuore, pesca nella realtà interiore e in quella esterna elementi o lacerti di vita sotto forma di emozioni che dispone e assembla in immagini di grande sintesi. La quale mi sembra una delle caratteristiche più evidenti di questa poesia.
Pasquale Balestriere
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