(Invitiamo tutti i lettori ad inviare alla email di Giorgio Linguaglossa glinguaglossa@gmail.com per la pubblicazione sul blog poesie edite o inedite sul tema proposto)
L’isola dell’utopia è quell’isola che non esiste se non nell’immaginazione dei poeti e degli utopisti. L’Utopìa (il titolo originale in latino è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia), è una narrazione di Tommaso Moro, pubblicato in latino aulico nel 1516, in cui è descritto il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus) in una immaginaria isola abitata da una comunità ideale.”Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene eτóπος (tópos), che significa luogo, seguito dal suffisso -εία (quindi ottimo luogo), sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ(non), e che cioè la parola utopia equivalga a non-luogo, a luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola utopia. Effettivamente, l’opera narra di un’isola ideale (l’ottimo luogo), pur mettendone in risalto il fatto che esso non possa essere realizzato concretamente (nessun luogo).
Lidia Gargiulo vive a Roma, ha insegnato nei licei classici e collaborato con la cattedra di Psicologia Generale del Magistero a Roma; è stata addetta all’Istituto Italiano di Cultura a Parigi e alla formazione di insegnanti presso il C.I.D.I. Ha collaborato con la Scuola di Formazione Spazio Psicoanalitico (Roma) e con le Biblioteche Comunali di Roma per la promozione alla lettura. Ha organizzato conversazioni pubbliche su tematiche culturali.
In poesia ha pubblicato: Duetto per Clodia -Ed. Il Ventaglio, 1992; Penelope classica e jazz – Ed. Il Ventaglio, 1994; Di chi è il bambino. Ed. Fermenti, 2003; I segni di Proserpina La città e le stelle, 2006; Le rose di Sirmione La città e le stelle 2012; Solubile – due poemetti – La città e le stelle 2012. Versi e racconti sono pubblicati su periodici e riviste (Malavoglia, Tuttestorie, I fiori del male, Quante storie, Insegnare, Pagine, Fermenti, Ecole, Echi di psicoanalisi…) e-mail: lidia.gargiulo@libero.it
Commento di Giorgio Linguaglossa
La prosasticità del lessico e la mediata e meditata razionalità delle digressioni del poema Sinfonia del loto, fanno parte della presa di posizione di Lidia Gargiulo per una poesia del ragionamento e della memoria con innesti di parlato e di variatio, con salti da strofe a strofe, e con pause numerose all’interno dei singoli versi, salvo poi a riconfigurare, nel concreto dei dettagli narrativi, una ripresa dei rimandi e delle cuciture tra i preamboli e le digressioni, tra le pause interne al verso e le riprese, tra i lacerti di memoria (sempre controllati dal flusso narrativo) con gli elementi della attualità e della cronaca del giorno. L’ironia sottile e pieghevole del dettato fa da contrappunto e da sfondo alla impossibilità, per la poesia moderna, di presentare il tragico ma solo di raccontarlo alla lontana e da lontano, con tanto di sfiducia per l’immediatezza poetica e tantomeno lirica e per le pennellate impressionistiche che non fanno parte certo del bagaglio culturale di Lidia Gargiulo la quale rifugge costitutivamente da ogni presentazione della gamma dei colori della bellezza lirica intesa nel senso della poesia al femminile di oggi con sfoggio dei colori dell’anima, anzi, i colori sono vibratamente espulsi dal dettato tanto da porre il poema su un registro linguistico e stilistico provocatoriamente narrativo.
Lidia Gargiulo
da Sinfonia del Loto
Loto era frutto selvatico dell’antichità
frutto spontaneo di sapore asciutto
come la giuggiola o la carruba;
ma quando si pretese dai frutti della terra
più morbida dolcezza
quelli che si appagavano di loto
rimasero selvatici come i loro frutti;
si diceva perfino che la malnutrizione
gli avesse prosciugato la memoria.
Così racconta Omero.
………………
Corrono secoli e cambiano costumi
ma tra gli umani non si estingue il loto:
gene in agguato, di tanto in tanto
esplode silenzioso e cieco, senza dolore.
………………
Ma per assurdo
-niente è normale quanto l’assurdo –
mentre va in fumo la memoria, aumenta
la fame di notizie
e il loto ingoia notizie su notizie:
cose sentite e viste diventano d’un tratto
cose mai viste e questo senso di stupore
questa capacità di spalancare gli occhi
sul proprio mondo come fosse un altro
li fa stupendamente giovani
nuovi a se stessi.
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In questa insensatezza il loto
devasta e inverte perfino la coniugazione
del ridere e del piangere.
Può capitare infatti di vedere
sposi e parenti piangere alle nozze
e applaudire a un funerale
come al circo si applaude l’acrobata
per un salto mortale.
………………
Ma come può accade che una cosa
produca il suo contrario, così
nel popolo del Loto esiste una tribù
di ferma e rapida memoria
che ricava dall’altrui torpore
ricchezza vitalità e potere.
Popolo che esiste e poi sparisce
torna e sparisce e ancora torna
popolo di ferina intelligenza e dura disciplina.
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Ilpopolo invisibile
è così parco di evidenza
che a volte lo diresti estinto
ma poi d’un tratto si rifà presente.
Ha fede e devozione, è lauto di beneficenza
protegge chi l’onora, finanzia feste
dei santi del quartiere, è amico della Chiesa
crede nel paradiso e coniuga il divino
con affari e borsa, fatti e parole
ai funerali piange di vere lacrime
ha dedicato struggimento e pianto
all’amore, alla mamma, all’amicizia.
…………………
Al sonno dei lotofagi
risponde dunque il popolo invisibile
e lo Stivale ferve di Cantieri,
Grandi Opere, spettacoli ed Eventi.
………………
Insomma sono padri anch’essi
dell’Italia Unita, più unita ancora
da quando loro che sono nati al Sud
da un po’ di tempo hanno casa e bottega
nelle città del Nord
accolti a braccia aperte dai Fratelli d’Italia
e tutti insieme cantano Fratelli dell’Impresa.
………………
In tempi dunque di Lotofagia
squilla di gloria l’amicizia
tra popolo invisibile e quello del Governo
gli uni coi fatti gli altri al Parlamento
a cambiare in legge quello che non è legge:
costruire demolire distruggere inquinare
vendere, avvelenare beni comuni:
verrebbe da pensare
che i capi di Governo più che a capo
sono ai piedi, ostaggio del popolo invisibile.
……………………
A quelli del Governo gli Invisibili
procurano piaceri della carne
con suonatori e giochi,
con femmine e banchetti
come fosse la corte di Nerone
……………………
Educare il popolo
Scuotere, agitare, battere, gli diamo
un po’ di ostacoli e un poco di giocattoli
illusione di vita in movimento e l’inerte
palude di burocrazia; il gioco è antico
ma chi mangia loto non vede differenza
tra verità e menzogna.
E perché il silenzio non germini pensieri
non c’è supermercato
non c’è stazione di metropolitana
non c’è ristorante, non c’è spiaggia
non c’è macchina in corsa che non risuoni
di canzoni, di offerte, di consigli.
……………………
Nel frattempo pensiamo ai nostri affari
e che ci aiutino il maltempo, qualche frana,
un disastro che riavvii la macchina.
Nella notte che l’Aquila crollava
addosso alla sua gente, qualcuno gongolava
al cellulare con un suo compare, rideva
per quanto avrebbe reso il terremoto: Questa
-diceva – è la mano di Dio che pensa a noi:
Dio benedice chi si dà da fare, noi ci muoviamo
stiamo con quello che si muove
stiamo col sisma.
…………………
…………………
Ma quando si fa urgente il desiderio
di un luogo della mente da chiamare Futuro
come un’erba lavata dalla pioggia
l’occhio si allarga, si allunga, va più a fondo
a all’improvviso …
riconosciamo le perle dell’umanità:
maestri di scuola, maestri di bottega
e il genio di gioventù tesa al domani…
Possiamo allora ricordare insieme
i momenti del risveglio, il giorno, per esempio
che a Berlino si demoliva il Muro e Rostropovic
accompagnava col violino i colpi di piccone.
Correva l’anno 1989.
…………………
Chiamiamolo, il futuro, a nascere
in forma di presente: a volte, quando è buono,
sulla terra il presente ha lo stesso sapore dell’eternità.
Noi ricordiamo il bene che ci ha fatto bene
lo riconosceremo.
Teniamo gli occhi aperti sui lavori in corso :
che il ritorno del bene non ci trovi
in compagnia del Loto.
Rimase a lungo lo scialle russo con le rose rosse
…………………
Sulla spalliera, la muta nostalgia del rosso
si faceva tatuaggio della casa, indelebile.
…………………
Era l’otto di marzo
La festa della donna. Noi donne all’Istituto
c’incontravamo una volta a settimana per dirci
qualche cosa, fatti o pensieri, parlare insomma
parlare e dirci, riflettere su che volesse dire
di questi tempi essere donna, sentirsi donna.
Erano tanti i modi, ma quel modo quel giorno
mi piaceva, parlavo volentieri in quella lingua
che non era la mia ma la parlavo bene,
dicevano le amiche; in quella lingua le parole
suonavano più fresche, come se non le avesse
ancora stropicciate la consuetudine.
Inseguivo un progetto di liberazione
Da parenti e cerimonie e visite, ricordi di famiglia.
Lì dove stavo spirava un’aria nuova, ma pure quella
-mi accorgevo- era impregnata di cose trascorse
anche in quell’aria nuova la gente parlava del passato
sebbene in altro modo, ma dovevo ammettere
che in tutti, in ogni vita c’è un archivio di fatti
da sfogliare, ripensare. Da capire, magari.
E dunque stavo, constatavo
Che siamo fatti soprattutto di tempo
e il tempo si fa nostro solo quando è passato.
Pensavo questo ascoltando le amiche e mi dicevo:
Ma com’è complicata, eppure anche così
tutto sommato è bella
quest’avventura che chiamiamo vita.
E poi pensavo a lei, ci eravamo riviste un mese prima
ancora sbalordita dal disastro: il ragazzo della figlia
morto sul colpo, la figlia in ospedale
viva ma piena di ferite
prognosi incerta e in prospettiva interventi chirurgici
lunga degenza, riabilitazione…
……………………
La lentezza dei treni mentre passavo
da un luogo all’altro consumò gran parte
di quella settimana, una stanchezza torpida
mi risucchiava nell’indifferenza:
la noia senza gioia, l’opaco sopravvivere.
……………………
-Abbi pazienza- le dissi salutandola-
Cerca di stare bene, per favore; ti scriverò, ti chiamerò-
-Già te ne vai- mi disse -non rimani
E non era domanda, era constatazione
Desolazione con un po’ di rabbia.
-Vedrete, vedrete – mi aveva detto.
Pensavo a questo mentre ascoltavo
I drammi delle amiche.
……………………
Poi qualcuno bussò, qualcuna disse Avanti
qualcuno entrò, si guardò attorno, fece il mio nome:
ero pregata di andare in segreteria
con urgenza, per favore.
Benedetta burocrazia, pensai: ancora orari
Ancora documenti, dichiarazioni…
-Vado e torno presto, aspettatemi
per i discorsi intelligenti – e uscii svelta e leggera
mi sarei sgranchita camminando per i corridoi.
……………………
Invece non tornai. A chiamare era stato mio fratello
chiamai, rispose il figlio grande, mi disse che la zia
si era buttata… – E adesso come sta?! – E dovevo
ripetere e gridare tra schiocchi e frusci del telefono.
Il ragazzo mi disse tondo tondo
come stava la cosa.
Dunque stavo così in aereo: incredula;
per credere non basta aver saputo
per credere bisogna che il pensiero
venga a un patto col fatto e non è vero
che il pensiero è rapido; l’immaginazione è brava
a immaginare quello che non succede
ma quello che succede non è facile
situarlo tra le cose nostre.
E dunque in questo senso rimanevo incredula
la cosa mi era entrata nelle orecchie ma stava in piedi
sulla soglia della mente, si guardava attorno
cercava un posto dove sistemarsi
in postura decente: era entrata nella lista dei fatti
ma non trovava accordo con quell’altra cosa
quella che mi autorizza a dire ‘io’,
la me di quel momento.
Eppure lo sapevo, stavo lì proprio per quello.
……………………
In chiesa l’indomani le toccai una mano
non mi rispose, le toccai una guancia: Come sei fredda
le dissi e questa volta il suo silenzio
certificò l’assenza, solo quella.
Eccomi ancora a fare i conti , sapere che è accaduto
E non trovargli un posto nella mente.
……………………
Perché l’aveva fatto? Ci puniva?
Ci lasciava perché l’avevamo lasciata?
Questo voleva dire l’ultima mia lettera
lasciata senza aprirla sul tavolino dell’ingresso?
C’era da tempo, dunque, l’idea di richiamarci
con la sua partenza? Così a lungo era durato
quel fascino dell’agonia, l’adolescente tentazione
che per noi tutti Era la sua bizzarria?
Chissà: prima un pensiero, un esercizio per la fantasia,
gioco, scommessa e poi pensiero fisso
ecco ci siamo: le sue agonie. Faceva prove del morire
alla vigilia di ogni esame, a ogni partenza del fidanzato,
per un mal di pancia, un raffreddore:
stesa sul letto, pallida ad occhi chiusi
era corpo senz’anima e al tempo stesso
viva creatura in lacrime
che piangeva la morte di se stessa.
-E smettila! –la mamma la sgridava- Studia piuttosto
li vuoi finire o no sti benedetti esami?!
Quando si rimetteva in piedi cantava, era risorta
e il giorno dopo tornava a casa con un trenta e lode.
……………………
Ero assorbita in pensieri diversi dai suoi
……………………
Nodi senza importanza mi tennero legata
e quello ch’era un modo di allentare la tensione
si fece trappola dell’attenzione
mi distrasse come quando bollendo marmellata
concentrati sul mestolo
dimentichiamo che un bambino inquieto
sta girando per casa e se lo perdi di vista
non sai che danni può fare soprattutto a sé.
……………………
Ma tornando all’ultimo presente, adesso
che tutto era finito (ma chi le inventa certe frasi?!)
dopo la cerimonia, a casa dello sposo
mi trattengo con gli altri in disparte dagli altri
ma li sento parlare di là dalla parete
lo sposo coi fratelli e le sorelle …
Nella casa dei nonni li rapisce
la spensieratezza di quell’altro tempo
dimentichi di me là in fondo sul divanetto in ombra
col mio grumo di pena che non trova parola
poiché la cosa che chiamiamo cuore è piena
di qualcosa che non trova nome.
E nella stanza accanto voci degli altri
Allegre nella grazia dell’oblio. Io qui da sola
Con chi potrei scherzare? Su che provare a ridere
Come quando ridevamo insieme ripetendo le frasi
della mamma, i soprannomi, i tic e le cadenze buffe
del paese? Il paese ci stava alle spalle ma quando
un soprassalto di memoria lo rimetteva avanti
come fosse un sorso di quel vino ci attraversava
un’euforia spavalda senza nostalgia e ridevamo.
Di molte cose ci piaceva ridere, di molte cose
scoprivamo il rovescio ed era scandalo senza dolore
senza presentimento del dolore come se fosse,
il rovescio delle cose, non la nascosta verità
ma un’invenzione per divertimento
come quando le dissi – E’ una farsa la vita,
si avvolge nella porpora, si ammanta di solennità
ma inciampa sui coturni
ad ogni passo. Ridicola la vita-;
Un trillo, un grappolo di note e il bianco
della gola s’inarca a risucchiare ossigeno
per altro ridere.
…………………
così sul divanetto in ombra
viene a ridermi accanto e mentre
ridiamo insieme e fra noi due
non so più chi esiste e non esiste,
quella cosa di dentro la sento che si scalda
sale la via degli occhi, m’invade, deborda
inonda, affondo e in quel momento
rapido e chiaro mi attraversa la mente
Affondò in un diluvio di lacrime: lo avevo scritto
In quarta elementare, quando facevo provviste
di parole da sfoggiare nei compiti di scuola;
mai più detto né scritto, e adesso che vuol dire?
Per farmi ridere? E infatti sto ridendo
ma sono ancora in lacrime e non ho fazzoletto
rido e mi bevo questo invisibile
diluvio minimo che ride di se stesso al buio:
non me lo ricordavo che nel pianto
ci fosse tanto sale e tanto caldo.
Mi prende in giro l’ombra
L’ombra che a luci spente
Mi avvolge nell’inesistente;
l’ombra giullare incantatrice
ha preso in mano la mia pena, l’ha immersa
in una soluzione di allegria leggera
un poco sciocca e queste due ragazze
guardale4 come ridono e come sono vive
senza tempo ai due capi del tempo.
E’ il numero migliore dell’ombra incantatrice:
perfetti i tempi, perfette le sequenze: oscurare
ragioni, sospendere domande, confondere lo sfondo
mettere in evidenza un dettaglio e poi
lasciarlo a splendere da solo
in contrasto con l’opaco del mondo
a conservare
di tutto quello che abbiamo perduto
il ricordo dell’allegria
quando eravamo semplicemente allegri
e non inseguivamo felicità.
Si sgretola, di fronte, il bianco muro di ragione
si ricompone nel vecchio caos
dove l’assurdo è ancora verità.
Da interrogare.