Michele Arcangelo Firinu è sardo di Santulussurgiu, nato nel 1945, e vive a Roma. Ha insegnato Lettere nella Scuola Media fino alla pensione. Nel 1974 ha collaborato con Bruno Corà alla realizzazione della Mostra d’arte Contemporanea a Roma. Negli anni ’80, a Milano, è stato redattore del periodico letterario il bagordo. Negli stessi anni, con il gruppo Orfeo80, è stato tra i promotori di alcuni tra i primi laboratori di scrittura creativa in Italia. Come titolare della Oximoria (piccola casa editrice, estinta con il bagordo, che editava) ha curato due piccole collane di narrativa e poesia, tra le quali la collanina Taschino e ha collaborato all’uscita del catalogo antologico di poeti Centodue (’86). Ha prefato e ha curato l’editing di alcuni libri di narrativa della editrice Polistampa Pagliai di Firenze. Nella seconda metà degli anni ’90 ha presieduto a Roma l’associazione culturale CEPAA – Teatro del Centro. Ha organizzato e curato svariate attività culturali, convegni, mostre d’arte, concerti di musica classica ed operistica, rassegne teatrali, corsi di università popolare, conferenze, rassegne e letture pubbliche di letteratura. Nel 2008 a Santulussurgiu ha diretto A libro aperto, uno degli 8 festival letterari della Sardegna. Ha pubblicato poesie su il bagordo, l’Avanti, Poiesis, il giornale nazionale COBAS dei Comitati di base della scuola e divulgato mediante letture in circoli, radio e su Internet. Un unico suo librino è dato alle stampe: Luminescenze, con sette disegni di Luigi Dragoni, il 174 della Collana dei Numeri, Editrice Signum d’arte diretta dal pittore Claudio Granaroli – michelearcangelo.firinu@fastwebnet.it
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
C’è una oggettività tutta brechtiana nel modo di porsi davanti agli eventi della cronaca da parte di Michele Arcangelo Firinu, il distacco e, insieme, la partecipazione ad eventi dolorosi e assurdi che capitano agli esseri umani delle classi subalterne. Firinu ha il merito di restare ai fatti, ritiene che una delle consegne a cui deve restare fedele il poeta sia quello di aderenza ai fatti e di doverli soltanto commentare con una poesia che sta a mezzo tra la filastrocca e lo strofeggiare finto assorto dei poeti laureati. Ma c’è anche il sarcasmo del poeta che prende ad oggetto delle sue poesie d’amore proprio i disperati operai morti nel cantiere, o i due gemelli che hanno chiesto l’eutanasia, o una prostituta di nome Maria. Le poesie d’amore di Firinu sono anche e soprattutto poesie di sarcasmo contro l’ipocrisia della pubblica opinione e della stampa che, com’è noto, dopo i fatti truculenti di cronaca passano con disinvoltura al commento di altri fatti rosa. È un modo, questo di Firinu, per mettere sotto i riflettori della poesia eventi che altri poeti più politicamente corretti si guardano bene dal trattare, preferendo tematiche più rispondenti a ciò che la pubblica opinio ritiene debbano essere gli argomenti statutari della poesia.
Una particolare nota di merito va fatta al trattamento del metro libero di Firinu, sempre accortamente studiato e variato secondo gli strumenti della reiterazione, dell’anafora e della anadiplosi con una particolare interpretazione della variatio di strumenti metrici molto diversi.
Una poesia che vuole in apparenza presentarsi come accompagnamento ai fatti si dimostra invece essere uno strumento di straniamento e di smascheramento dell’ipocrisia generale della società nella quale viviamo.
Poesie di Michele Arcangelo Firinu
Chris Steven, l’ambasciatore ucciso1
Muore ben pettinato l’ambasciatore,
eppure muore
e pare, nell’impietosa foto
che lo esibisce al mondo, un ecce homo,
un cristo povero deposto
dalla vita e dal suo posto,
che gli fu onore e gloria
e ora croce
di supplizio e di guerra,
come l’onorificenza postuma,
che appenderà la vedova
in salotto,
sotto il ritratto lustro,
e che dirà feroce
che a se medesimo l’ambasciatore
portò pena,
dopo che ai suoi nemici,
nell’imperiale guerra.
(Roma, 12 settembre 2012)
Mark e Eddy, gemelli*
Nel pancione-aerostato di Mary
con amore Romy depose il seme,
affinché nelle azzurre acque della sposa
si cullasse la sua progenie.
Nella voliera liquida
staccata dalla terra,
come in una campana vitrea, silente,
due esserini monozigoti maturarono
e galleggiavano,
stretti stretti tra loro,
nel calore dell’amnios.
Nati, crebbero interpretarono
il film della loro esistenza
senza colonna sonora alcuna,
l’uno rivolto all’altro
a grammaticarsi sguardi,
i sogni ben ficcati nelle palpebre
e letti a specchio da iride a iride.
Scorre la polvere dei giorni
e riempie le clessidre sorde.
I due calzolai siedono al desco, ridono,
piantano chiodi su tacchi e suole
senza rumore.
Colma la polvere le ampolle:
quarantacinque anni nelle clessidre sorde.
Ma ora muore anche la luce
nelle pupille dei due fratelli.
Nelle loro silenti campane di vetro
non tollerano che il glaucoma
gli cali la mannaia del buio. Rattrappirsi
annichiliti, ognuno dei due in un singolo bozzolo,
come monadi senza finestre,
non sarebbe più vita.
Indossano per l’ultima foto, dopo il caffè,
un sorriso tenue, dolce, sbiadito,
dentro le tute e le scarpe nuove.
Il fratello Dirk, il papà e la mamma
li stritolano mentre li abbracciano,
serrano i denti, che non sfuggano lacrime.
Mark e Eddy Verbessen, gemelli, salutano:
“Ci vediamo in cielo”
e si coricano vicini,
come due bambini buoni
in una poesia pascoliana,
tenendosi stretti la mano.
Per due anni hanno implorato le cliniche
che non li lasciassero soli a cercar la finestra,
lo sparo, lo sfracello da un ponte.
Rispetta il loro volere
il dottor Distlemans Wim, pietoso.
Al Bruxelles University Hospital Jette Campus,
il quattordici dicembre duemiladodici,
fa scorrere nelle loro vene l’eterno riposo.
Erano in tale sintonia, i due gemelli,
che con la morte si son voluti siamesi.
(Roma, 24.02 – 5.03.2013)

Stefano Di Stasio
Volano Angeli
Ai caduti sul lavoro, moltitudine;
All’Osservatorio di Bologna sulle morti sul lavoro in Italia, morti bianche, infortuni mortali sul lavoro, che di tale moltitudine tiene conto e memoria.
Come volano gli angeli
che volano,
che volano dai tetti,
che volano e non hanno ali,
che sfidano i marciapiedi incatramati.
Come volano gli angeli
quando li sprecano, non li proteggono;
come volano gli angeli dai palchetti
e non hanno ali,
non hanno freni si sfracellano
nei cortili dei cantieri desolati.
Come volano gli angeli
nei cieli delle fiamme torinesi:
l’ala di fuoco, la mano di dio
li ghermisce,
li solleva,
li sbatacchia,
li sublima
nell’ordalia della linea cinque
degli altiforni della ThyssenKrupp.1
Come non volano gli angeli,
come non volano:
s’addormono dentro la Saras,
s’infetano dentro quell’amnios,
dentro quell’utero metallo-chimico,
nella bestemmia di desolforazione
al Mildhydrocracking 1;
come non volano quando s’accasciano,
sono tre e restano gli orfani: tre
in un amen.2
Oh, come volano, saettano gli angeli,
in un tempo molle che gli s’affloscia
sopra la testa dentro lo schianto
del capannone; com’è volato
nella buriana quell’angelo sfranto
a Tortolì.3
Come volano gli angeli che volano
dentro le tute,
che gli s’inzuppano del loro sangue;
sono alle macchine, sono alle isole,
quando s’impigliano alle catene
e gli ingranaggi coi loro sorrisi
di acciai dentati
bene li masticano,
bene li mangiano,
bene li sputano,
bene li vomitano.
Volano pezzi, falangi
di angeli; volano mani,
decollano gambe,
saettano braccia:
quanto sarebbe vasto
il campo non-santo
delle tombe degli arti?
Sprizza il sangue degli angeli bastardi,
annaffia campi e hangar, nutre
pance di macchine ebbre.
Come volano gli angeli migratori:
mettono ali ai loro pensieri
sciolgono vele ai desideri;
per un pane sfidano il mare;
angeli belli, angeli neri,
nessuno li vuole coi loro fuscelli;
volano dentro l’azzurra voliera,
non trovano pane, bevono sale,
saziano pesci, saziano squali
in quella liquida profondità.
Oh, come volano gli angeli delle riserve
che non lavorano,
che non li vogliono,
che non li pagano,
che non consumano,
che non dimorano,
che non si lavano,
che mal si vestono,
che molto tanfano;
nei marciapiedi dormono,
nei marciapiedi siedono,
nei marciapiedi questuano,
nelle panchine ubriacano,
e negli inverni ghiacciano,
di quando in quando bruciano
e nelle fiamme crepitano
e nelle fiamme strepitano
e nelle fiamme crepano
e negli inferni involano.
Com’è silente nel gelo il volo
degli angioletti di carbone e cenere:4
bruciavano stracci imbevuti nell’alcol
nella baracca, per riscaldarsi.
Volano nell’ombra del cupolone
nel cielo arrossato dalla nostra vergogna,
in questa gogna grassa, la Roma empia,
che ha eletto l’oro come cuore di dio.
Com’è volato l’angelo Ion5
messo al servizio di un bel rottweiler,
Mema il romeno, placido e docile,
metteva il cane alla catena;
ma un giorno quel cane si è rivoltato
e ha messo l’uomo alla catena;
come volava la testa di Ion:
correva il cane figlio d’un cane,
giocava nel prato e beveva quel sangue.
Non vide il Natale mentre volava
la testa spiccata dell’angelo Ion.
Oh, come volano gli angeli
che nei tralicci salgono,
che ci lavorano,
che vi si folgorano,
che vi si bruciano,
che vi si cuociono,
che poi li calano,
che poi li interrano,
che poi gli mancano,
che li ripiangono nei Ferragosti,
dentro gli odori dei loro arrosti.6
Come volteggiano,
quanti ne volano
e non manca giorno,
in ogni refolo,
in ogni angolo,
in ogni spasimo,
anno per anno, in ogni mondo:
come in battaglia in una tonnara,
come in mattanza a Little Bighorn7!
Volarono angeli di argenti, ori,
zinco, silicio, quarzo, azzurrite;
volarono angeli a Monteponi
a Trubba Niedda, Perda Majori,
al Salto di Quirra di Gerrei,
a Monte Pisano8 e un battaglione
nelle budelle di carbone;
erano tanti a Marcinelle9:
ci fu un boato, li tirarono su,
avevano ali di grisù.
Oh come volano,
volano gli angeli,
e come folano,
come s’affollano
dentro i silenzi,
dentro l’oblio,
privi di un angelo,
privi di un dio.
(Roma, 28.12.10 – 16.03.20)
* Erano nati sordi, ma all’idea che sarebbero diventati presto anche ciechi hanno deciso che non valeva più la pena vivere, e hanno chiesto di morire, insieme, così come insieme erano venuti al mondo: la legge belga sull’eutanasia ha consentito un mese fa a Marc ed Eddy Verbessem, due gemelli quarantacinquenni di Anversa, di essere uccisi con un’iniezione letale, giustificata con la loro grave “sofferenza psicologica” dovuta all’imminente cecità. Non erano malati terminali, lavoravano come calzolai, e secondo alcuni testimoni si sono avviati alla morte bevendo un’ultima tazza di caffè e conversando serenamente con parenti e amici. Assuntina Morresi, © Il Foglio, 17 gennaio 2013, Inserto II
Per quanto rispetto e sostegno avessero mostrato al cospetto della loro scelta, fino all’ultimo, il fratello Dirk e i genitori Mary e Romy, hanno cercato di fargli cambiare idea ma alla fine hanno dovuto accogliere il loro sguardo sereno e quel saluto, l’ultimo: “Ci vediamo in cielo”. Poi l’iniezione letale e via per sempre.
Così, vestiti con tuta e scarpe nuove, dopo aver aspettato al Bruxelles University Hospital di Jette Campus il loro momento, bevuto insieme un’ultima tazza di caffè ed essersi detti addio, in una grigia mattina dello scorso dicembre, sono morti i gemelli Mark e Eddy Verbessem. Hanno scelto di morire assieme, dopo 45 anni passati in totale simbiosi perché gemelli, perché nati sordi e proiettati verso una cecità totale, hanno scelto l’eutanasia perché in Belgio è un diritto anche quella.
Sconvolgente la serenità con cui se ne sono andati, la perseveranza con cui per due anni Mark e Eddy hanno cercato la struttura che accettasse la loro istanza di eutanasia. Già perché i due gemelli non erano affetti da cancro e non erano malati terminali, per loro però, l’idea di non essere più autosufficienti, di finire in un istituto era già un buon motivo per farla finita con questa terra. Il Professore Distlemans Wim, il medico che ha preso la decisione di praticare l’eutanasia ai gemelli Verbessem, ha difeso la sua decisione.”Questo è il primo caso al mondo di eutanasia doppia eseguita su fratelli. C’era per loro una forte sofferenza psicologica , non è semplicemente perché erano sordi e ciechi che hanno potuto ricorrere all’eutanasia, è che non potevano sopportare di vivere l’uno isolato dall’altro. Il dolore può essere insopportabile non solo a livello fisico ma anche mentale”.
( http://blog.libero.it/DGVoice/commenti.php?msgid=11850413)
Ave Maria
(Per Brenda)
Ave Maria,
di silicone piena nelle grazie,
il signore è con te per venti euro.
Ti sei rigenerata tra le donne,
ma non avrai mai frutti in seno,
benedetta per le curve esagerate,
pelle di seta, dominio di eroina e ormoni.
Ave, madonna nera, merce, carne,
sotto le docce di luce dei lampioni,
avvolta nei cartocci degli sguardi,
tra i barriti dei fari, a frotte, i peccatori,
a te clamanti, vengono ai sollazzi:
camionisti, gaudenti, governatori;
assunta sugli altari: i paparazzi.
Santa Maria, povera crista-cristo, fronte – recto,
tu non avrai mai stelle, ma dolori,
in case-stalle elargirai languori.
Madonna brasileira,
madonna delle blatte,
nessuno pregherà per te,
preda dei disonesti,
nell’ora della morte
servita sul vassoio dai servizi,
negra dagli occhi neri e pesti, tradita,
impasticcata per gli ultimi supplizi,
crocifissa nel sonno sulla branda,
affumicata come una salsiccia.
Puttana povera,
madonna infima
assunta in cielo in fil di fumo,
povera Brenda, Ave,
polvere nera di Maria.
(Roma, 2010, 26.04 – 03.05)
1 Nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007 sette operai della TyssenKrupp di Torino vengono investiti da una fuoriuscita di olio bollente in pressione che prende fuoco. Sette operai muoiono nel giro di un mese: Antonio Schiavone, 36 anni; Roberto Scola, 32 anni; Angelo Laurino, 43 anni; Bruno Santino, 26 anni; Rocco Marzo, 54 anni; Rosario Rodinò, 26 anni; Giuseppe Demani, 26 anni. Un altro lavoratore, Antonio Boccuzzi, resta ferito in maniera non grave. Diventa parlamentare del PD ed è un testimone chiave al processo.
La testimonianza del superstite:
“Alla ripresa è stato chiamato a testimoniare Antonio Boccuzzi, unico superstite del rogo alla Thyssenkrupp di Torino e oggi parlamentare del Pd. Secondo la testimonianza di Boccuzzi l’incendio era partito come un piccolo focolaio che poi diventò un vero e proprio rogo nell’arco di pochissimo tempo: «Ricordo che all’inizio – racconta Boccuzzi – si trattava di un incendio molto piccolo che si sviluppava proprio sotto la macchina spianatrice, sul pavimento che, come accadeva normalmente, era intriso di olio che perdevano i rotoli di acciaio nel passaggio. Provai a usare il mio estintore che risultò essere praticamente vuoto. A questo punto – continua – l’incendio raggiunse la carpenteria e io andai con Angelo Laurino e Bruno Santino a recuperare una manichetta per spegnere il fuoco. Tirai su la testa e in quel momento ci fu un’esplosione sorda, un boato non molto forte che mi fece venire in mente il rumore che fa una caldaia a gas quando si accende. Le fiamme a qual punto diventarono enormi: sembravano una grossa mano di fuoco, un’onda anomala che ricadde sui ragazzi e li inghiottì». ( http://www.legamidacciaio.it/Speciale%20Processo.htm )
2 26 maggio 2009. “Sono morti in tre nella grande raffineria Saras della Sardegna. Il primo è caduto nel serbatoio intossicato dall’azoto; gli altri due perché volevano salvare il compagno. Dovevano pulire un serbatoio dell’impianto di desolforazione. I vapori letali non gli hanno lasciato scampo. Bruno Muntoni, 52 anni, sposato e padre di tre figli; Daniele Melis, 26 anni, e Pierluigi Solinas, di 27, erano di Villa San Pietro, paese a 30 chilometri da Cagliari e pochi chilometri dagli impianti della Saras.” (da: Repubblica.it)
3 Daniele Floris, 20 anni, operaio di Villagrande, muore il 22.12.10 all’ospedale San Francesco di Nuoro. Il giorno prima era precipitato con tre colleghi di lavoro dal tetto di un capannone nella zona industriale di Arbatax.
“ Restano gravissime anche le condizioni di Andrea Pinna, 24 anni, di Tortolì, ricoverato in prognosi riservata nel reparto di Rianimazione dell’ospedale di Lanusei. Ha subito forti traumi e la perforazione bilaterale di un polmone. Lesioni toraciche gravi ha riportato anche Ambrogio Rubiu, di 24 di Lotzorai. Anche per lui i medici non hanno sciolto la prognosi. Non corre pericolo di vita, invece, Giovanni Chillotti, 21 anni, di Ulassai.
I giovani ogliastrini lavoravano per una ditta d’appalto lombarda – assunti da due giorni attraverso un’agenzia interinale cagliaritana – e sono rimasti vittime di un incidente nel cantiere nautico Abbate di Tortolì. Sono precipitati da un’altezza di circa 12 metri a causa del cedimento del tetto di onduline di un capannone sopra al quale stavano posizionando dei pannelli fotovoltaici. Le indagini avviate dai carabinieri di Tortolì e della compagnia di Lanusei dovranno chiarire la dinamica esatta dell’infortunio, mentre gli ispettori dello Spresal della Asl di Lanusei dovranno accertare eventuali violazioni delle norme di sicurezza nel cantiere.
Erano in sei ieri sul tetto del capannone quando, intorno alle 11,30, si è improvvisamente aperto uno squarcio, forse a causa del peso eccessivo mal sopportato dalla copertura di onduline, e in quattro sono precipitati al suolo. Due sono riusciti ad aggrapparsi a una sporgenza e si sono salvati. Per gli altri, Daniele Floris, 20 anni di Villagrande, Andrea Pinna, di 24 di Tortolì, Giovanni Chillotti, di 21 di Ulassai, e Ambrogio Rubiu, di 24 di Lotzorai, un volo di circa 12 metri, poi lo schianto a terra.”
(da: http://marcocarta.e.dintorni.forumcommunity.net/?t=42600821 )
4 I quattro fratellini, Raul, Ferdinando, Patrizia e Sebastian, figli di Elena e Mirca Erdei, sono morti nella notte tra il sei e il sette febbraio 2011, rannicchiati tra loro, nel rogo della baracca, in un accampamento di Rom, allestito in una discarica nella via Appia di Roma dopo ripetuti sgomberi dei campi nomadi ordinati dal sindaco “pro tempore” della capitale Gianni Alemanno.
“Com’è volato l’angelo Ion
messo al servizio di un bel rottweiler,
Mema il romeno, placido e docile,
metteva il cane alla catena;
ma un giorno quel cane si è rivoltato
e ha messo l’uomo alla catena;
come volava la testa di Ion:
correva il cane figlio d’un cane,
giocava nel prato e beveva quel sangue.
Non vide il Natale mentre volava
la testa spiccata dell’angelo Ion.”
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Profonda pietà per il piccolo angelo Ion, morto di una morte orribile.
Di chi la colpa? Non del cane Rottweiler, certamente figlio di un cane e di una femmina di Rottweiler come noi umani siamo figli di un umano e di un’umana.
Chi possiede un Rottweiler (non incattivito dalle botte ma cresciuto normalmente) sa che non deve mai commettere imprudenze, cosa che il padre di Ion non ha fatto. Se scrivo è perché ho esperienza diretta di questa razza tanto cara a mio cognato e a mia sorella: i loro Fred, Adso, Puck e attualmente Blitz non hanno mai ucciso, nemmeno morso nessuno. Ma non sono barboncini da grembo.
Giorgina Busca Gernetti
Saluto con favore questi lavori di Michele ; la sua adesione alla terra , agli uomini .
grazie
leopoldo –
Belle queste poesie, legate ad eventi reali, ma trasfigurate nei versi, sia quelle sugli angeli o sui gemelli: gli eventi si svolgono come una melodia che avvolge.
Si respira la terra di Sardegna, la pietas.
Lidia Are Caverni
C’è una oggettività tutta brechtiana nel modo di porsi davanti agli eventi della cronaca da parte di Michele Arcangelo Firinu, il distacco e, insieme, la partecipazione ad eventi dolorosi e assurdi che capitano agli esseri umani delle classi subalterne. Firinu ha il merito di restare ai fatti, ritiene che una delle consegne a cui deve restare fedele il poeta sia quello di aderenza ai fatti e di doverli soltanto commentare con una poesia che sta a mezzo tra la filastrocca e lo strofeggiare finto assorto dei poeti laureati. Ma c’è anche il sarcasmo del poeta che prende ad oggetto delle sue poesie d’amore proprio i disperati operai morti nel cantiere, o i due gemelli che hanno chiesto l’eutanasia, o una prostituta di nome Maria. Le poesie d’amore di Firinu sono anche e soprattutto poesie di sarcasmo contro l’ipocrisia della pubblica opinione e della stampa che, com’è noto, dopo i fatti truculenti di cronaca passano con disinvoltura al commento di altri fatti rosa. È un modo, questo di Firinu, per mettere sotto i riflettori della poesia eventi che altri poeti più politicamente corretti si guardano bene dal trattare, preferendo tematiche più rispondenti a ciò che la pubblica opinio ritiene debbano essere gli argomenti statutari della poesia.
Una particolare nota di merito va fatta al trattamento del metro libero di Firinu, sempre accortamente studiato e variato secondo gli strumenti della reiterazione, dell’anafora e della anadiplosi con una particolare interpretazione della variatio di strumenti metrici molto diversi.
Una poesia che vuole in apparenza presentarsi come accompagnamento ai fatti si dimostra invece essere uno strumento di straniamento e di smascheramento dell’ipocrisia generale della società nella quale viviamo.
Se fossero cinema, avrebbero le stesse virate de il Cielo sopra Berlino.
Ho letto e riletto le poesie di Firinu, la prima lettura sorda, come spesso faccio, la seconda con musica e la terza con i raggi x.
In Mark e Addy, gemelli, non mi torna tanto questo verso “Nelle loro silenti campane di vetro non tollerano che il glaucoma gli cali (?) la mannaia del buio”.
Ora, non è che cerco il pelo nell’uovo, forse un refuso, ma se leggo, e quando leggo, voglio tutto fili per filo e per segno, almeno nella terza lettura. E la poesia sui gemelli siamesi monozigoti presenta una struttura verbale, dal passato al presente e viceversa , di notevole fattura (Nati, crebbero interpretarono. Ma ora muore anche la luce), fino al finale, all’atto conclusivo, sempre giocato tra il presente del fatto “Rispetta il loro volere il dott.” e la chiosa del poeta, forse inutile “che con la morte si son voluti siamesi”. Analessi o secondo la terminologia moderna flashback.
Non apprezzo la poesia che presenta una ridondanza di anadiplòsi e anafora, come nel caso dell’angelo. Stanca un po’ nella lettura. Meglio la concentrazione. Al di là del contesto trattato che, mi pare, sia un tratto distintivo dello scrittore: cronaca.
Ma, la chicca è l’Ave Maria.
Mi scuso con le dottoresse se ho fatto un po’ il prof e saluto Michele Arcangelo Firinu.
Michelangelo che lesse con talento alcuni dei miei versi che gustai da gola altrui con piacere!
E allora questi versi >>>
>>>> Il quotidiano di Michelangelo non s’adagia su di se stesso, ma avanza e si dispiega tra drammi e tragedie dettate da circostanziate informazioni che… che originano misericordie e pietà… racconti più che cronache appunto! Altrimenti c’è a dire solo freddezza negli eventi, e invece l’imprecazione ultima a Brenda-Maria che pare una blasfemia è invece una preghiera che mi trova solidale, e che scarta in me (non se pure al Poeta) ogni distrazione, mi fa attento!
a. s.
Testi ben scritti, con questo stile un po’ americano ma con innesti di endecasillabi particolarmente riusciti; tuttavia il moralismo (specie nella seconda) e un pizzico di retorica ne appesantiscono la lettura a mio parere. L’eutanasia poi è un tema impoetico che, nella sfera dell’etica, appartiene al mistero, al di là del bello e del brutto, e su cui l’arte secondo me dovrebbe tacere. Un saluto.
Siete fuori di testa. Ma che porcherie scrivete? Vergognatevi. Inutile che sorridiate. Ci sarà da piangere…oh se ci sarà da piangere… quanta miseria…. nell’uomo.