https://www.youtube.com/watch?v=_cnGUT9n5iQ
Ekaterina Josifova è una delle voci più autorevoli della poesia bulgara contemporanea. Nata nel 1941 nella cittadina di Kjustendil, nella Bulgaria sud-occidentale, si laurea in russo presso l’università di Sofia, lavora come insegnante, giornalista, redattrice e, tra il 1972 e il 1981, come drammaturgo nel teatro della sua città natale. Oltre ad essere una delle figure più significative e innovatrici della poesia bulgara contemporanea, è anche senza dubbio la voce più influente sulle giovani generazioni. Il ventennio tra il 1969 e il 1989 è quello in cui si colloca la sua prima produzione poetica, la quale è fortemente legata all’attività dei poeti Konstantin Pavlov, Nikolaj Kanchev, Bin’o Ivanov, Stefan Gechev, Ivan Teofilov, Ivan Dinkov, Hristo Fotev, Ivan Canev. Ekaterina Josifova è l’unica voce femminile all’interno di questo gruppo intento a sviluppare modalità stilistiche e temi alternativi rispetto a quelli della lirica ufficiale. Gli autori che nel corso degli anni ’90 vengono fatti confluire nel nov avtentizam, espressione coniata dal critico Plamen Dojnov, che letteralmente significa nuova autenticità, si ispirano a temi e a strategie stilistiche le cui basi sono ben rintracciabili nel gruppo dei poeti sopracitati. Del nov avtentizam Ekaterina Josifova è il maggiore esponente. Fra le due tendenze principali di questa corrente – intimizzazione/ interiorizzazione del mondo vs esternazione/ pubblicizzazione del privato – la Josifova si colloca nella prima. La sfera personale e la normale quotidianeità permeano lo spazio. Nei suoi versi, spesso brevi e spiazzanti, talvolta enigmatici, risiedono ironia e disincanto. (Michail Nedelchev a questo proposito parla di “stoica normalità”).
Le sue poesie, pubblicate in 12 raccolte, sono tradotte in diverse lingue, tra cui il russo, il tedesco, l’inglese, il macedone, il francese, l’ungherese, il turco e l’italiano (La pioggia fuori è la prima raccolta di poesie scelte tradotta in italiano e vincitrice del premio Ciampi “Valigie Rosse”, 2013). Tra le più recenti pubblicazioni dell’autrice: Su e giù (2004), Mani (2006), Questo serpente (2010). precisazioni sulle poesie di Ekaterina Josifova – glinguaglossa@gmail.com – Gmail
“Mi metto in posizione comoda”, “In cerchio” e “Un grido” sono tratte dalla raccolta “La pioggia fuori”. Tutte le altre sono state pubblicate in traduzione per la prima volta sul num. 17 della rivista di poesia “L’Ulisse” nel 2014
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Appunto impolitico di Giorgio Linguaglossa
La scrittura letteraria è uno «spazio di morte» ha scritto Blanchot ma uno «spazio» dove protagonista assoluta è la vita. Dal corpo morto della scrittura adesso risorge la vita.
I saggi di questi ultimi anni sul post-contemporaneo di Roberto Bertoldo affrontano una serie di questioni. La domanda che si pone l’opera poetica è: chi è colui che parla e a chi lo dice?
Il post-contemporaneo è una categoria problematica,
priva di collocazione spazio temporale essa abita il «presente» ablativo e il suo luogo di applicazione ermeneutico è l’opera poetica e artistica. Il fatto che salta agli occhi è che la parola della poesia non fonda né stabilisce nulla tranne la propria interrogazione. Un tempo forse la sua finalità era quella di dare un senso più puro alle parole della tribù, oggi questa è una domanda che la poesia rivolge a se stessa. Questa domanda può essere un atto di fede, ma preferirei parlare di dubbio, di ricerca; diciamo che l’interrogazione poetica abita di preferenza il traslato, il discorso indiretto, il discorso implicito, il meta discorso, c’è una sfiducia diffusa sulle capacità discorsive della forma-poesia. Alcuni segni si proiettano su un fondale bianco da cui si diramano una molteplicità di significati possibili. Il significato di questi segni non può essere conosciuto dal poeta, i segni viaggiano nel tempo, o meglio, si diramano in più temporalità, ma l’interpretazione di ciò che il tempo dice diventa sempre più problematico. Il tempo dice: nulla. Dunque, nichilismo.
La «secolarizzazione» che ha investito il discorso poetico lo ha privato, da un lato, del radicamento ad uno sfondo metafisico-simbolico, dall’altro, lo ha reso, nelle sue versioni epigoniche, sempre più riconoscibile, di aproblematica identificazione; tutti i luoghi sono simili, si assomigliano, gli aeroporti,, i cavalcavia, le stazioni ferroviarie, i cinema, gli interni ammobiliati delle nostre abitazioni, le carlinghe degli aerei, i portabagagli delle nostre automobili, le nostre valigette ventiquattrore… tutti i luoghi della nostra vita quotidiana si assomigliano, viviamo in non-luoghi, siamo noi stessi il precipitato dei non-luoghi, di non-eventi, viviamo in temporalità terribilmente somiglianti. Ecco, direi che è esattamente questo il post-contemporaneo.
Nella poesia di Ekaterina Josifova abbiamo in primo piano tutti i dettagli del nostro mondo occidentale: gli interni (divano, cuscino, coperta morbida etc.) per lo più elencati come didascalia di un testo a venire, o che si sta per rappresentare; poi ci sono come ospiti la Musa la quale si fa avanti a dice: «posso aggiustare il fornello. / Posso smontare la serratura», oppure Eraclito di Efeso che gioca agli aliossi con i bambini nel tempio di Artemide; oppure siamo nell’attimo che precede la caduta di un balcone mentre noi stiamo lì; oppure, c’è «un grido umano», o forse è quello «un uccello notturno»; c’è anche Jack London che scrive qualcosa di irriconoscibile. Tutte situazioni che oscillano tra la normalità e l’assurdo, il quotidiano e l’onirico. Tutte situazioni compossibili. Eventi immaginati, eventi mancati, eventi realizzati che ci dicono molto e di scorcio sulla nostra situazione di contemporanei.
La Josifova dice il silenzio che sottintende il linguaggio, riempie il simbolismo vuoto che marca il tempo morto del testo, il linguaggio, è la rottura stessa della totalità. Ciò che la lettera dice è nell’involgersi su di sé del linguaggio, che è nel vuoto che il linguaggio ottiene la possibilità di essere significante.
L’«evento» nella scrittura della poetessa bulgara è uno spazio bianco dove qualcosa potrebbe biforcarsi in più direzioni, o non avvenire affatto, dove tutto è sospeso nell’aleatorio. Direi che la scrittura è uno spazio di morte che ci informa su quel pianeta lontano e sconosciuto dove abbiamo ben saldi i piedi. Fare poesia con il metro libero è simile a camminare su una corda a 100 metri dal pavimento. La Josifova ci riesce con una naturalezza sorprendente, cammina sul filo senza ricorrere ad appoggi (a zeppe, ai facili tropi), sta qui la classe di una poesia, che sa camminare con le proprie gambe senza avere la supponenza di voler pronunciare parole o sentenze definitive, senza voler apparire gnomica o aforismatica, dice cose assolutamente normali, con una voce assolutamente normale, non alza mai il tono, non carica mai il lessico, non alza mai la voce. È la poesia di un eccellente poeta, inoltre, non è poesia né maschile né femminile (come va di moda presso il sottobosco italiano), non pretende di disvelare verità sbalorditive o transmentali. Sì, è vero, non usa la metafora perché la Josifova preferisce la fedeltà alla parola referente, è una scelta di posizione, una opzione estetica. E poi lo straordinario coraggio di pronunciare una vocale e andare subito dopo a capo. A me sembra di una audacia straordinaria, quanti poeti possono permettersi una simile disinvoltura?
traduzioni a cura di Alessandra Bertuccelli
Mi metto in una posizione comoda
Sul divano, il cuscino, la coperta morbida,
i libri.
Anche l’illuminazione è buona.
Non viene nessuno,
ma non perdo la speranza
che entri e che dica
in tono di rimprovero:
e anche questo governo è caduto
e tu leggi Lao Tsu.
Al che rispondo:
esattamente.
Doni
Hai una scure e un’isola.
L’isola ha un albero.
Proprio quanto basta per scavare una piroga.
Sali nella barca.
Ti stacchi dalla riva puntandovi il ramo più dritto dell’ex albero.
La corrente giusta afferra la barca.
La ferma sulla costa del continente.
Ti metti a vivere lì. No, non sulla riva, in città.
La barca è marcita da tempo.
Non sai il nome – non lo chiedi -di quell’isola.
Né di quell’albero.
Coercizione
Ti chiede lei, nel caso ideale, in una cella singola
con uno strumento, ad esempio un violino
e ti dice: esci di qui quando saprai suonare.
O in una cella con un cinese:
uscirai quando inizierai a parlare il cinese.
Non hai mai voluto che scrivessi una poesia.
Ma è utile:
posso aggiustare il fornello.
Posso smontare la serratura.
Gioco degli aliossi
Il gioco degli aliossi esige destrezza, velocità e allegria.
Eraclito di Efeso
amava giocare agli aliossi con i bambini di Efeso, e per di più
nel tempio di Artemide. Per quanto la conosco
penso non avesse niente in contrario. I giochi
degli adulti sono non solo giochi, le opinioni
preconcette e non meritevoli di attenzione.
Quello che invece merita sgorga dal
Dissenso.
Questo scrisse quello stesso Eraclito,
accusato di volontaria cripticità e chiamato l’Oscuro.
Ci siamo buttati
Gli strumenti sono impazziti, sono apparse delle scritte
Pericolo di collisione! – con l’esclamativo
Sugli schermi non si vede nulla
Trenta secondi alla collisione, annuncia la voce regolare
Tutti gli allarmi sono accesi
Ma sugli schermi niente
Nella confusione
Il genio ha gridato: datemi
Una finestra normale!
Ci siamo buttati
Io più vicino, sono saltata per prima sul bancone e
Ho visto sul normalissimo tetto di fronte
Un normalissimo gatto e su di lui,
In picchiata,
Normalissime rondini
Tre secondi alla collisione
In quell’attimo
Il balcone ha cominciato a cedere.
.
In cerchio
Jack London, l’allegro Jack, l’uomo di successo,
forse segretamente annoiato
—–dagli uomini forti e dai lupi
(e un po’ prima della fine)
scrisse approssimativamente una cosa del genere:
In una clinica psichiatrica,
di pomeriggio, in un momento vuoto
(all’incirca,
—-quando inizia a riempirsi il circolo)
ogni giorno una grassa, una brutta,
———-ragazza minorata,
seduta beatamente con le mani in grembo,
———-in cerchio con un’altra
decina di grasse, brutte
———-ragazze minorate,
dice:
“Quanto sono fortunata
———-a non essere minorata.”
Poco dopo un’altra grassa,
———-brutta, ragazza
minorata dice:
“Quanto sono fortunata
———-a non essere minorata.”
Dopo un altro po’ si sente la terza:
“Quanto sono…”
E così
via.
Un grido
Non è così vicino, non può capire uno
Che è un grido umano?
Può essere un uccello notturno o un uccello in generale
Che imita
Il grido umano,
Un uccello canterino
O qualcosa di totalmente diverso, ad esempio
Un grido umano
immaginato
o
un grido umano, ma
addormentato, un grido nel sonno e
quindi niente di male,
è
solo qualcosa di notturno,
l’ho sentito.