TREDICI POESIE di Roberto Bertoldo da Il calvario delle gru 2003 libro scelto da Giorgio Linguaglossa con alcune domande e Risposte dell’Autore

Ernst-Ludwig-Kirchner

Ernst-Ludwig-Kirchner

 Roberto Bertoldo è nato nel 1957 e risiede a Burolo (TO). Nella seconda metà degli anni ’70 ha partecipato a numerose manifestazioni letterarie in veste di poeta e redattore di rivista. Dopo la laurea (tesi: Ermetismo come petrarchismo) ha preferito fare vita ritirata per proseguire la sua personale ricerca di scrittore. Di questi anni sono i libri di narrativa L’abitudine, Il cammello oltre la cruna, Le favole del fiume d’ebano, Satio, I nichilisti e le raccolte poetiche Nuvole in agonia, Il pan-demonio, Il rododendro, tutti libri inediti. Nel 1996 è uscito dall’isolamento fondando la rivista internazionale di letteratura “Hebenon”, di cui è direttore, e cominciando a professare la sua filosofia del “nullismo”. Nel 1998 ha pubblicato i romanzi brevi Il Lucifero di Wittenberg e Anschluss, Asefi Terziaria, Milano, e il saggio Nullismo e letteratura. Per una filosofia fenomenica e una epistemologia della letteratura postcontemporanea, Interlinea, Novara (Nuova edizione riveduta e ampliata: Nullismo e letteratura. Al di là del nichilismo e del postmoderno debole. Saggio sulla scientificità dell’opera letteraria, Mimesis, Milano 2011), libro nel quale, attraverso una reinterpretazione del pensiero leopardiano posto come fondamento dell’esistenzialismo nullistico di Camus e attraverso analisi epistemologiche, delinea le possibili direttrici di una letteratura postnichilistica. A dicembre 2000 è uscito il suo libro di poesie, Il calvario delle gru, presso l’editore La Vita Felice di Milano e successivamente in forma bilingue presso l’editore Bordighera Press di New York. Nel 2002 viene edito il suo libro di narrativa Anche gli ebrei sono cattivi, Marsilio, Venezia e nel 2003 il saggio filosofico Principi di fenomenognomica con applicazione alla letteratura, Guerini & Associati, Milano. Nel frattempo ha scritto ancora i libri di poesie Il codice delle stagioni (inedito) e L’archivio delle bestemmie (Mimesis, Milano 2006) e, negli anni 2003-2004, i romanzi Amori postumi (inedito), L’infame (La vita felice, Milano 2010) e Ladyboy (Mimesis, Milano 2009).

Roberto Bertoldo

Roberto Bertoldo

Dal 2004 ad oggi si è dedicato prevalentemente a sviluppare la sua filosofia, arricchitasi di una nuova forma di indagine detta “fenomenognomica”, che vede per ora l’uscita di Sui fondamenti dell’amore (Guerini & Associati, Milano 2006), Anarchismo senza anarchia (Mimesis, Milano 2009), l’opuscolo Chimica dell’insurrezione (Mimesi, Milano 2011) e il saggio Istinto e logica della mente (Mimesis, Milano 2013). Svolge l’attività di insegnante e cura collane di saggistica e di poesia straniera.

Commento di Giorgio Linguaglossa

In una recente intervista a Roberto Bertoldo sul suo ultimo libro di filosofia gli chiedevo:

in altri tuoi precedenti libri hai chiamato la nostra epoca il «post-contemporaneo». Vuoi spiegarci quali sono i termini filosofici di questa categoria?

 Te lo riassumo citando, per comodità, da uno dei miei libri: «La modernità riguarda grosso modo il periodo che va dall’età umanistico-rinascimentale alla fine dell’Ottocento; il postmoderno, altra categoria storica, corrisponde quasi in toto (nella sua debolezza) al decadentismo, che è invece una mentalità, ancora in auge; il postmoderno forte, col quale indico semplicemente il postmoderno liberatosi dal decadentismo, e cioè indico una cultura che attualmente sembra, solo perché il presente spesso la rigetta, propria del futuro (per questo lo chiamo anche postcontemporaneo), è l’accettazione del progresso gnoseologico e del modello epistemologico contemporaneo che l’età odierna si ostina, a parte eccezioni, a rifuggire per codardia e interesse».

Insomma, ho usato questo brutto termine a causa dell’abuso storicamente documentato del termine postmoderno e la confusione volgare d’esso con postmodernismo e postmodernità. Quindi, il postmoderno storico è successivo alla svolta paradigmatica tra Ottocento e Novecento e il vero postmoderno filosofico è il postmoderno forte ossia antidecadente, nullistico.

Tu scrivi: «La filosofia come fondazione di un pensiero critico è inevitabilmente fallimentare. Come metafisica, la filosofia è ancora utile perché interpreta i risultati delle scienze, anche se questi risultati e le ipotesi derivabili non conducono a verità essenziali e infallibili». Non nascondo che per me, educato alla filosofia della Scuola di Francoforte, questo assunto mi suona come un campanello di allarme. Vuoi spiegarci in che termini la filosofia non può più essere «fondazione di un pensiero critico»?

 La filosofia più pratica è quella intuitivo-ipotetica, quella fondata sulla scienza per intenderci. Una filosofia a misura d’uomo non può anteporsi alla prassi, dunque agli strumenti che analizzano il mondo. La dialettica a cui si rifà la fenomenognomica ribalta quella hegeliana, come fece Marx. Hegel spegne la capacità critica, in più la sua logica è tradizionale, attualmente non in linea con i nostri fondamenti scientifici. La scuola di Francoforte presenta molte tesi, anche il suo ritorno ad Hegel non è poi così acritico, anzi mi pare che in pensatori come Adorno ci fosse la coscienza del pericolo ideologico.

Come definiresti la tua filosofia nell’ambito del cosiddetto «pensiero debole»?

Il «pensiero debole» è ancora connesso al moderno, si sostanzia di quel nichilismo a cui giungeva il pensiero assolutistico dell’età moderna. Riguardo a quanto mi chiedi, è indicativo il fatto che in un saggio spagnolo la mia filosofia del nullismo sia stata messa in opposizione al pensiero debole di Vattimo. È corretto. Il nullismo non sostiene il nichilismo epistemologico, ma lo combatte con la sua epistemologia scettica integrale, e proprio in virtù di questo scetticismo supera quel nichilismo assiologico avallato dal pensiero debole. È lo scetticismo integrale, quello che giustappunto nell’avvalorare il proprio statuto ontologico inficia la verità a vantaggio della storicità dell’accertamento, a riscattare il postmoderno. Non dobbiamo accettare il nichilismo, ma andargli oltre, perché accettarlo significa acquisire una nuova fede. Le nostre costruzioni non sono “deboli” ma adeguate e quindi, piuttosto, “instabili”, come sostiene Lyotard. Non si tratta di dover imparare a «convivere con il niente», come sostiene Vattimo, ma di combattere, senza speranze, contro il niente. Quindi la mia filosofia è leopardiana, esprime cioè un pensiero forte senza illusioni, persegue un senso, il senso, ossia “vivere”, senza uno scopo trascendente.

Qual è a tuo avviso il posto dell’arte nell’ambito del «post-contemporaneo»?

Il postmoderno forte, o postcontemporaneo, si forma sulla rivolta di Camus e, prima di lui, sulla virilità di Leopardi. Una resistenza alla Rieux, de La peste. L’arte è una forma di resistenza, non però come evasione o fuga, non alla Pascoli o alla D’Annunzio, ma come lotta, come ricerca della libertà, e come comprensione del reale. Una comprensione che si compie mediante l’immanenzione fenomenognomica, o intuizione emotiva del darsi fenomenizzato compiuta partendo dalla conoscenza fenomenica. Il posto dell’arte nel postmoderno forte o nullismo richiede la coscienza della complessità del reale e l’adesione ad una visione fenomenognomica, di mente estesa, di rifiuto del nichilismo assiologico mediante il recupero dei valori vitali. Richiede insomma un’adesione politica, sociale, psicologica, culturale, in una parola ‘mentale’. Il discorso diviene, così, complesso, e infatti ho dovuto elaborare questa filosofia nei vari campi del sapere prima di ritornare alla questione estetica, alla quale ho ripreso a lavorare adesso. Ma non mi trovo in una posizione diversa riguardo l’arte, semplicemente ora mi trovo in una posizione rafforzata. Ora ho la conferma che la letteratura è utile, anzi necessaria. Necessaria alla nostra crescita intellettuale ed emotiva e al miglioramento delle nostre potenzialità espressive e quindi comunicative.

In una nota esplicativa in calce al libro Bertoldo precisa: “«la mia poesia è intersemica e tonosimbolica» (…) e che «Nullismo» per me non significa «nichilismo», ma il suo superamento”. Coerentemente con questo assunto la poesia di Bertoldo si pone nello spazio di conflitto tra il sostantivo e il suo attributo qualificativo, l’aggettivo. Di qui sorgono le frizioni e le scintille metaforiche di cui è ricca la sua poesia.

 bello la Gru

da Il calvario delle gru con testo inglese a fronte a cura di Emanuel Di Pasquale Bordighera press U.S. (2003)

I
Lei mi parla di un silenzio
che io ho dovuto ingoiare
tra i frantumi delle parole
come un buco le sue cornici.
Lei parlando si condanna
a ferire il nulla che attesta
perché non può cancellare il tono
che sussurra con le foglie
quando cadono. Noi vinciamo
attraverso l’atmosfera che inneggia alle ombre.

II
Tra le sue ossa senza fibbia
logorate dal mare
Lei imbratta la voce
d’un canto che morde il respiro
e il mare si riserva di parlarle
della sfera di sale che stempera sulla lingua
in giostre di resine.
Il mare
questo rostro d’alabastro
scuote l’orcio dei simboli
nei quali la terra strina le proprie larve.
La terra
un’antica passione che Lei
in ginocchio
con povere parole
officia di candele
come una gazza.

 Erich Eckel Il giorno di vetro 1913

Erich Eckel Il giorno di vetro 1913

III
Io so perché Lei,
saldo sulla sedia a dondolo,
ha sconfitto il gomitolo di lana.
Perché Lei ha un’uscita per ogni entrata
e le arcate dei ponti La soddisfano solo di giorno.
Nella luce del Suo telaio
Lei ha ristoro per un intero gregge.

IV
Ogni giorno, ogni notte
Lei ricicla i rifiuti che passa il convento
e attende alle Sue cose
fa un pupazzo sulla spiaggia
appalta le maree con le parole.
Sotto il trespolo giganteggia.
Poi, imbottito dei tordi altrui,
si schiarisce la voce
e sul palco, con ispirazione,
mette le tende
e fa l’indiano.

*

I
La tua solitudine è un risvolto incauto
e sfiora gli orridi che sanno di cornice
nel nostro carteggio di vetrata.
Anche se una stella
di luglio rovina alle stuoie
breve arrugo la terra e infamo.
Non è altro la distanza:
un buco che odoro, una – gramma
di vuoti a rendere.
Tu che sei il mio singhiozzo
e la mia deriva,
la lontra che incede nel fertile.

Roberto Bertoldo in montagna

Roberto Bertoldo in montagna

IV
Nelle tue braccia ritrovo la rondine
che buca la mia testa
e fiorisce dal ventre di pagina
due righe che s’allontanano.
recito nelle tue unghie la forza
del sorbo e la bontà della sua salsa,
io che bevo cerevisia io
cacciagione ribelle.
E il tuo seno è un fastidio
per la mia barba di uomo.
Ma infine, eh, infine cedo alla regressione
e strappo a denti di latte
il tuo cuore.

V
Ora la mia barba scandinava attrae di scarlatto le tordelle
come quel fuoco d’inverno gli uomini infreddoliti
per la tua unghia d’amore.
Ho dimora anche per te tra le mie foglie e i corimbi
o sorella dei monti, per te che appoggi il tuo flauto
come una sirena, per le onde che sorreggono il tuo canto
di spine, per te regina in croce ho lo spazio di un nodo
che s’aggroviglia sul collo degli uccelli.
Non ti lascio sola con gli strappi della tua pelle
con i marosi
e le folaghe arbitrarie nella mia fortezza.
Per te impegno il mio legno e t’inchiodo.

*

III
Ci hai parlato come una dimora sfondata
zeppa di grilli che hanno la testa
accurata del tuo pettine,
l’ordine che giustifica la follia
di queste nostre mani che sanno di mollica
sul tuo viso ammuffito.
Ma anche oggi qualcosa ha disperato il principio
che adora la nostra polvere di uomini:
hanno aperto un altro solco
e non hanno semi
e neppure i tuoi seni matrigni.
Come puoi gridare
oggi che la tua lingua non posa
sulla nostra bacca dolente?

IV
La marsina, scoscesa, rinnovata l’opàle
arlecchino come i suoi racconti nel buco
della pioggia. Sempre quella coda di vipera
delle parole incrociate, sempre la stessa dizione
della notte, come potesse quell’ora
uccidere il senso, il nostro senso
senza direzione. Ad arcuare il tempo
ci abbiamo messo tutto il calore
sull’incudine, sotto il martello.
Ora il tempo ci gira intorno
e noi balliamo, balliamo,
anche cadaveri. Perché siamo la danza,
il vortice che tutto trascina con sé,
siamo l’incertezza che brucia gli asfodeli.
roberto bertoldo calvary

 

 Il remo del gondoliere

La mia storia si corica come una virgola,
una gondola sul foglio, come si posa
l’inverno deciduo tra gli abeti,
la mia storia è vile come la gondola
quando a Venezia è una pausa,
quanto una virgola, una pausa della morte.
E questa neve oggi che nasconde
altre storie vili, questa neve
per la mia slitta da diporto,
cade sul foglio come una virgola,
come una benda di una dea.
ma se amo, illustre remo
o palustre luna che ne spiattella l’ombra,
se amo sono il gondoliere
che imprime nel canale la propria obliterazione.

.
Nullismo

Non del cielo questo tugurio di stelle
che arroventa i gabbiani è l’ostia aprica
come i fiordi delle costellazioni,
a lingua e occhi d’agnello, che calendano
sussurri azzurri, gli ultimi sussulti
– tu senti – delle cicale. Questa pausa livida
è della terra che scuote a formiche e lontre
la vita, è lo strazio argenteo delle cinerarie,
la sorpresa di un canto che smuove le acque
a mani di pagaia.

.
Aporia di nebbie e nevaschi

Tu non dici perché ami la pietra di me
il pianto più cupo della baraggia
tra il faggio e l’algebra di una memoria di siepe.
Non c’è carezza di galera o vino di immagini
a respirarmi nella testa, un rostro neanche,
né il tuo sorriso come calanco di muschio.
Solo questa luce che fugge precisa
tra i bachi e i baci di ciliegia,
labbra rosse strappate di bacche penduli,
solo questa luce che distilla ricordi
in un velo fradicio d’acquerugiola.
Così è benedetto il frutto
del seno tuo stigio
santa santa ragione del peccato e della miseria
scorpione d’erba, nevasco di frumento.

roberto bertoldo

roberto bertoldo

 

 La lebbra

Nelle vostre facce getto la pausa di un sorriso
e cornici di rughe vi spaccano l’ombra sotto gli occhi.
Avete la pelle di rosolio, sofferenze di rododendri,
scontare la morte come uno stagno.
Io vi porto frattaglie d’amore secche come parole,
rene grigie che il vento alza a fusilli.
E non ho sete che posso mungervi.
Io sono il seduttore di salice,
colui che spolpa le parole
e abbandona le bucce sui cornicioni della vita.
Non ridere delle mie pupille di fustagno,
vedono ancora i dolori, le desinenze i sospiri,
i riverberi. Contro il vostro petto
batto un foglio testardo, ho in mano le labbra,
una voce che squadra la terra, qualche bemolle,
un calle, la lebbra. Oggi vi sono radice

19 commenti

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19 risposte a “TREDICI POESIE di Roberto Bertoldo da Il calvario delle gru 2003 libro scelto da Giorgio Linguaglossa con alcune domande e Risposte dell’Autore

  1. Ho particolarmente gradito la lettura di queste poesie di Roberto Bertoldo, lui la Gru, io la Procellaria…

    La mia storia si corica come una virgola,
    una gondola sul foglio, come si posa
    l’inverno deciduo tra gli abeti,
    la mia storia è vile come la gondola
    quando a Venezia è una pausa,
    quanto una virgola, una pausa della morte.

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  2. “Noi vinciamo
    attraverso l’atmosfera che inneggia alle ombre.”

    Questi versi di Bertoldo sono come macigni sulla punta della lingua, come una consapevolezza che si è appena rivelata e che pesa. Grazie per i versi e per l’intervista; molto interessante il superamento del nichilismo epistemologico tramite lo scetticismo integrale- anche se non credo sia tanto facile fare lo stesso con il nichilismo assiologico; ciò non toglie che sia una posizione da approfondire.

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  3. Versi che si negano alla lettura superficiale, difficili perché costruiti con metafore che si susseguono senza alternativa. Capito questo, e constatato che la struttura è lasciata bene in vista, peraltro senza ulteriori complicanze formali, ho potuto continuare scendendo via via nel figurativo della sua quotidianità. Questa faccenda delle metafore nude, non stemperate in altro linguaggio, mi fa pensare a come sarebbe tanta poesia se togliessimo quel che poesia non è, e a quel che ne resterebbe. Quindi all’ermetismo, a un post ermetismo sperimentale, lucidamente interpretato, come seguendo un’idea progettuale; ma non più avanguardistico, se mai Bertoldo arriva ad offrire una sponda per chi conservasse ancora una qualche idea di unità dell’espressività artistica (non certo dell’uniformità). Penso soprattutto alla prosa-poesia e ai cedimenti della metafora. Secondo me di Bertoldo se ne parlerà a lungo, sempre che non crolli l’intero edificio, sebbene non sarebbe male se una parte almeno…

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  4. credo si debba prestare attenzione sulla metafora che nella poesia di Bertoldo assume una fisionomia particolare:

    le sue ossa senza fibbia

    nel buco della pioggia.

    Sempre quella coda di vipera

    pupille di fustagno

    nevasco di frumento

    ritrovo la rondine che buca la mia testa

    Sono solo alcuni esempi di come la metafora illogica (quell’immagine che unisce due elementi linguistici inconciliabili secondo l’impiego logico del linguaggio) e il complemento di specificazione (che non specifica alcunché ma che anzi contribuisce a complicare ciò che appare ostico ad una lettura logica del testo), rivestano un ruolo centrale nella poesia bertoldiana che si apparenta alla linea espressionistica della poesia europea piuttosto che a quella che solitamente va sotto la dicitura incongrua di poesia lirica. Bertoldo trae dalla lezione del primo Montale tutto quello che può essere utile alla sua Musa e rigetta la seconda fase del Montale scettico del dopo “Satura” (1971), ma lo può fare solo perché la sua teoria estetica lo pone al centro della resistenza al nichilismo e al pensiero debole interpretati come una resa alle istanze del Moderno. Attraverso la lettura di queste poesie puoi vedere come in controluce dove va a finire il suo “nullismo” (che è l’esatto contrario di tutte le posizioni scettico-ciniche), nella direzione di una poesia che alza il tono e la phoné del suo campo semantico e lessicale verso il territorio della metafora illogica o assurda.

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  5. La prima cosa che mi viene da pensare leggendo questa poesia così “solida”, è proprio il suo carattere scultoreo. Se si potesse fare una contaminazione fra le arti (succede di parlare di linguaggio “pittorico”), questa è scultura. Scultura con la creta, più che nel marmo, come quando si modella una figura aggiungendo creta dove serve, togliendola dove è in eccesso, per giungere alla forma.
    Forse l’uso della “metafora illogica”, come la chiama Giorgio, che unisce in modo apparentemente arbitrario elementi tra loro assai dissimili per significato, conferisce una sorta di tridimensionalità, quasi di solidità materiale, al pensiero che la parola costruisce. Quel dilatare il significato ad altre sfere semantiche, costruendo – appunto – nessi tra piani logici diversi. Non riesco a dirlo meglio, me ne scuso, ma la sensazione è in me molto precisa.

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  6. Giuseppina Di Leo

    Non ho letto abbastanza queste poesie, ma lo farò presto e penso anche che ci ritornerò su più volte, per la loro ‘consistenza’, come bene evidenzia Francesca Diano. Ma in particolare, la prima delle tredici poesie, si attesta dentro e la sento decisamente mia. Grazie, Roberto Bertoldo.
    (ho disegnato un fiore mentre leggevo, credo sia un’orchidea, per quel Tu, così sensuale).

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  7. antonio sagredo

    “Questi versi di Bertoldo sono come macigni sulla punta della lingua”: per me sono pietruzze, e anche incolori. “il superamento del nichilismo epistemologico tramite lo scetticismo integrale”: devo confessare la mia ignoranza. “poesia così “solida”, è proprio il suo carattere scultoreo”: non so che dire, davvero! Penso che queste parole estrapolate sintetizzano la mia perplessità e sono davvero sorpreso di come la critica sappia soltanto celebrare se stessa e non i versi in oggetto, che a mio parere non sono così profondi e alti da meritarla, ma poi ripensandoci anche la critica mi pare stonata e che non centra alcun bersaglio, poi che questo non esiste.
    Mi piace soltanto la copertina del libro, che è una copertina che canta, ma non il calvario, poi che le gru del calvario sono inette a volare!

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    • Caro Antonio, vorrei subito precisare che nel mio caso non si tratta di “critica che celebra se stessa”, perché io una critica non sono. Non letteraria per lo meno. La mia formazione di storica dell’arte mi porta invece molto spesso a guardare e percepire aspetti strutturali, formali, emotivi e anche pittorici in un testo – poetico o no che sia – In genere cerco, con i mezzi che ho ed evitando frasi complicate e termini astrusi, di chiarire le mie emozioni e di cercarne però anche le motivazioni e l’origine. Credo che, senza poi spiegarle o cercare i meccanismi del loro sorgere, le emozioni lascino il tempo che trovano. La sensazione “scultorea” era molto precisa e ho cercato di capire perché. Ma, come ogni buona analisi di un’opera dovrebbe fare, se hai notato, non c’è alcun giudizio di valore in quello che ho scritto. Solo un tentativo di analisi della mia sensazione.

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  8. antonio sagredo

    Francesca, chiaro e ovvio nessun conflitto con Te. Mi sarebbe piaciuto da chiunque.. mi giungesse una analisi delle ultime due righe del mio intervento, poi che qui è la chiave del libro del Bertoldo. Come di tanti altri poeti.
    Ho il gravissimo difetto di paragonare i versi altrui coi miei, ed è un difetto che hanno i giovani poeti (così affermava a ragione la Achmatova)… ebbene alla mia età mi ritrovo giovane per questo difetto… un difetto che mi porta all’inferno del sublime. Sono un generoso, ed è altro mio difetto, non il contrario. Che colpa ho io se il faber-duende che ho dentro di me è capace di far versi (i miei) di cui io stesso – un po’ a freddo – considero – stupito! – vicini al sublime, così come più volte mi disse un acclamato accademico maestro di vaglia – oggi 84enne – … (Non vale la pena nemmeno di scriverne e se ho scritto perché il mio duende me lo ha ordinato). Quell’accademico mi scrisse: Sagredo tu sei qui solo in questa riva, tutti gli altri in quell’altra di fronte e non sono capaci di attraversarla, perché temono di affogare nel – TEMPO!
    Una mia poesia si intitola Me ne fotto! – Te la invierò al più presto, e devi sapere che non c’è più luogo e tempo per godersela e che la mia prossima raccolta si intitolerà : POESIA DALL’ANNO ZERO, che spero sarà così farsesca da sembrare una tragedia!

    a. s.

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    • cari Antonio Sagredo e Francesca Diano,

      rispondo che valutare la poesia altrui dal punto di vista della propria non è un atto critico; prendo atto della dichiarazione di Sagredo che il suo non è, propriamente, un giudizio critico ma un personalissimo atto di intellezione. Libero di applicare i suoi personalissimi atti di intellezione a qualsiasi oggetto egli voglia ma certo questo non significa fare critica di poesia.
      Per parte mia ho cercato di mettere in evidenza solo qualche questione che sorge dalla lettura dei versi di Roberto Bertoldo, a mio modesto avviso uno dei più rappresentativi poeti contemporanei.

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    • Anto’, e chi si irrita! Ma nooo. Il mio era un tono invece molto sereno se hai letto bene. Gli stizzimenti non fanno per me, (li trovo anche poco eleganti) che ho carattere molto pacifico e ormai, alla mia ragguardevole età anagrafica, di cui vado molto fiera, osservo il mondo con una certa serenità, anche se sempre con immensa curiosità. Volevo solo spiegare.

      Tu parli del tuo “difetto” di paragonare i tuoi versi a quelli altrui. Non credo sia solo atteggiamento proprio dei giovani poeti. Credo sia l’atteggiamento che ogni poeta (o artista, se è per questo) dovrebbe avere. Magari perché guardando si impara, anche quando si pensa di non aver nulla da imparare o quando effettivamente quei versi non hanno – in apparenza – nulla da insegnarci. Lo faccio anche io. Lo faccio soprattutto nella mia attività di traduttrice di altri poeti e perfino quando traduco in inglese i miei stessi versi, che è un’attività utilissima per capire cosa funziona e cosa no. Comunque, quando traduco i miei grandi poeti, mi rendo conto di usare uno straordinario strumento che mi permette di immergermi nelle strutture più profonde del testo poetico e mi succede all’opposto di te. Mi sento piccola piccola, mi dico che mai riuscirò a tanto. Poi invece qualcosa di buono (a volte anche molto buono, forse) riesco a fare, anche nei miei racconti o nei miei romanzi. Ma in genere sono sempre piena di dubbi su quanto scrivo o sul fatto se mai riuscirò a scrivere ancora e cosa. E più passa il tempo e più lo scrivere si fa faticoso, perché vorrei dire “quelle” cose in “quel” modo, con uno scavo e una consapevolezza sempre maggiori, che richiedono una crescente concentrazione. Da giovane ero molto più spontanea nello scrivere.
      Tu fai bene a ringraziare il tuo duende, che assai generosamente ti ispira (mi piace molto quello che scrivi). Ma sai come sono questi dèmoni ispiratori che dentro vanno dettando. Un po’ burloni. Meglio tenerseli buoni.
      E grazie se vorrai inviarmi il tuo “Me ne fotto”. Leggerò con grande attenzione.
      Un caro saluto.

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  9. Pasquale Balestriere

    I versi di Bertoldo, già ad una prima lettura, si rivelano un frutto poetico degno di attenzione e di prudenza esegetica. C’è flusso creativo ininterrotto, c’è compattezza strutturale e capacità di sintesi, niente cadute o flessioni di tono e di stile; sotto il profilo figurale nulla è scontato, i versi hanno un discreto colloquio con il cuore ( più accentuato con la mente), le immagini scorrono con bella vividezza e coltivano un senso profondo, gli danno sostanza. Tuttavia qualcosa, che non riuscivo a spiegarmi e che solo in un secondo tempo ho capito, mi ha impedito di commentare. A mio parere, queste poesie, sono troppo intensamente metaforizzate e analogizzate, con inflessioni fonosimboliche e frequenti deragliamenti sensoriali (dovuti a un uso straniato soprattutto dell’aggettivo), più qualche altro artificio retorico peraltro ben disposto. Sono, certo, poesie di spessore anche filosofico, ma, per me, il loro limite sta nel fatto che questo linguaggio figurato e sicuramente molto studiato, che s’accampa nei testi senza soluzione di continuità e con istanze quasi barocche, occupando ogni spazio, genera nel lettore -almeno in me- un senso di non piacevole pienezza e sazietà. Che peggiora se, come ho fatto, si reitera la lettura..
    Pasquale Balestriere

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  10. So che non è corretto, e me ne scuso con Bertoldo e con i lettori, ma credo che nell’economia del testo alle volte una bella sforbiciata alle ridondanze non guasti. Non voglio fare il maestrino (e lo sto facendo), sicuramente ho colpe gravi anche io, la mia è una riflessione: se in un testo di un grande “poeta” non vi sono elementi superflui qualcosa vorrà pur dire. Ecco perché mi permetto di operare questa semplice sintesi della poesia qui presentata, Aporia di nebbie e nevischi, anche alla luce di quanto afferma Balestriere:

    Tu non dici perché ami la pietra di me.
    Solo questa luce che fugge precisa
    tra i bachi e i baci di ciliegia.
    Solo questa luce che distilla ricordi
    in un velo fradicio d’acquerugiola.
    Così è benedetto il frutto
    santa ragione del peccato e della miseria.

    Mi scuso ancora. Non mi permetterei mai di operare una simile riduzione in un testo di Baudelaire o di Montale, per esempio. Certo il mio gusto… ma, economia!!!

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  11. Ringrazio Giorgio Linguaglossa per questa selezione di un mio libro la cui prima pubblicazione è del 2000. Ringrazio anche le persone che sono gentilmente intervenute con commenti sempre interessanti e sui quali l’autore non deve mai controbattere, le poesie sono lì e cercano di parlare per lui.
    A proposito di questo devo però rispondere al gentile Giuseppe Panetta in quanto l’operazione che compie tappa la bocca alla poesia in questione e le impedisce di difendersi. Niente di male, è solo una poesia, ma è mio dovere permetterle di parlare. Infatti se si elimina la “baraggia”, si elimina ogni possibilità di comprensione del testo e si toglie il senso a tutti gli elementi naturali che appartengono ad essa e che funzionano, nel testo, per analogia e da collante.

    Ricopio il testo originale perché in quello riportato da Giorgio ci sono dei piccoli refusi:

    Tu non dici perché ami la pietra di me
    il pianto più cupo della baraggia
    tra il faggio e l’algebra di una memoria di siepe.
    Non c’è carezza di galera o vino di immagini
    a respirarmi nella testa, un rostro neanche,
    né il tuo sorriso come calanco di muschio.
    Solo questa luce che fugge precisa
    tra i bachi e i baci di ciliegia,
    labbra rosse strappate di bacche penduli,
    solo questa luce che distilla ricordi
    in un velo fradicio d’acquerugiola.
    Così è benedetto il frutto
    del seno tuo stigio
    santa santa ragione del peccato e della miseria
    scorpione d’erba, nevasco di frumento.

    La baraggia, che è un preciso terreno incolto di pianura, ha forgiato il cuore petroso del personaggio amato, che si trova gettato nella natura cupa e increspata dai ricordi. Ma i ricordi positivi (dalla luce alle labbra rosse) prendono il posto di quelli negativi, come il sorriso dell’amata scavato nel muschio. E allora il protagonista benedice l’amore infernale della sua donna e la benedizione si fa ossimorica. Succede così no, a distanza di un amore finito, anche il più crudele, che col tempo possano i ricordi positivi avere la supremazia su quelli negativi. Potrei esplicitare fin nei particolari ogni figura retorica ma non basterebbe, c’è sempre qualcosa di più, qualcosa di emotivo che se avessi potuto dirlo senza scrivere una poesia non l’avrei scritta. Il “velo fradicio d’acquerugiola” è dominante, infatti. L’aspetto macrotestuale e quelli microtestuali si richiamano continuamente aprendo a significati sempre più riposti. Questa scrittura non è intellettuale ma è intersemica e tonosimbolica, come la chiamai a posteriori, ed è il solo modo che io ho di uscire dall’abisso – in cui ci getta la composizione poetica – imbrattato da tutto ciò in cui mi sono immerso: emozioni, concetti, sonorità, immagini. Purtroppo non c’è nulla di studiato, gentile Pasquale Balestrieri, io sono così e penso che la propria poesia debba rappresentare la propria singolarità e se c’è spessore in noi c’è spessore in essa.
    Un caro saluto a tutti e non si preoccupi Giuseppe Panetta, Baudelaire da vivo subì ben di peggio, pensi che i contemporanei non lo consideravano proprio.

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    • Poesia “forte” come una poderosa statua a confronto con i delicati acquarelli. Pregevole il commento che illumina qualche passo, se eventualmente non fosse stato colto nella sua interezza.
      Una lettura davvero piacevole nel senso più alto del termine.

      Giorgina Busca Gernetti

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  12. Mi scuso, m’era sfuggita la baraggia nel microtesto, forse perché la pietra, solido aggregato di minerali, per la sua durezza e metaforica predominanza ha messo in secondo piano il terreno argilloso e alluvionale tipico dell’alta pianura padana. Il dodecasillabo molto musicale.

    Tu non dici perché ami la pietra di me
    il pianto più cupo della baraggia

    Di sicuro se Baudelaire è sopravvissuto da vivo alla considerazione dei suoi contemporanei allora c’è speranza per molti di noi quando non saremo più, purtroppo, contemporanei.

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  13. Da tempo indisposto non me la sento di commentare, ma di ripetere qui la mia profond ammirazne per la poesia di Roberto Bertoldo.

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  14. Pingback: Roberto Bertoldo ~ da Il calvario delle gru | L'ambre & L'abeille

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