
Philippe Calandre, Utopie 2, 2013, stampa su foglio di alluminio e a getto di inchiostro, inquadrata con scatola americana
Massimo Giannotta è nato nel 1949, scrittore, critico, traduttore, vive a Roma e si occupa di editoria, di teatro e di televisione. Collabora con diverse Case editrici e riviste, è redattore della rivista on line ‘Le reti di Dedalus’. Ha seguito alcuni settori del Sindacato Nazionale Scrittori. È fondatore dell’associazione culturale La città e le stelle. Dopo le prime prove: Nostra Patria, 1981; Il Ventre della Notte e Libro di Metamorfosi del 1993; ha lavorato per circa dieci anni alla realizzazione di un itinerario di ‘scrittura sperimentale epica’ costituito di quattro libri: Portolano, 1998; La conta di Lancelot, 1998; La fortezza marina, 2001 e il Ciclo della crudeltà, 2006. Nel 2009 ha pubblicato: Incerte latitudini. Nel 2014 ha pubblicato Protocolli di autodifesa. Ha al suo attivo lavori di traduzione da varie lingue e Galassia romana, 2001, ricerca sulla poesia a Roma.
Commento: scrittura come navigazione
Ci sono libri che somigliano a cantieri, a officine: come per la città di Tecla descritta da Calvino, ci si chiede, osservandoli, quale sia il senso del costruire, quale il progetto. Gli operai non rispondono, sono troppo indaffarati. Solo quando scende la notte, indicando il cantiere, dicono: ecco il progetto. Così, i Protocolli di Autodifesa di Massimo Giannotta sono a un tempo il cantiere e il progetto.
Da anni, Giannotta persegue solitariamente e con tenacia una forma di narrazione che mescola versi e prose, documenti d’archivio, testi specialistici, epistole: “il riciclaggio, la reinvenzione di materiali ‘trovati’ come oggetti, come reperti, si direbbe talora come relitti” ha scritto Mario Lunetta a proposito di Ciclo della crudeltà (2006). E “relitti” è un termine non casuale, se si considera che al centro del lavoro letterario di Giannotta c’è la tradizione del grande romanzo di mare, la linea Melville-Conrad, la fascinazione per i diari di bordo (ancora in Ciclo della crudeltà, descrive il presente – le notizie funeste, il traffico per le strade della città – come una traversata marittima: «pressione 1024 millibar, in aumento / vento da NNW, mare mosso / Mare di auto lungo le tangenziali».
Senza il mare – ma un mare mai solo astratto, mai solo metaforico – è impensabile la produzione di Giannotta: da quel Portolano di mari iperborei (1998), con le sue mappe e rotte, con le sue affascinanti “note di meteorologia”, dove la descrizione dei fenomeni atmosferici finisce per somigliare a un inventario del visibile, con le pagine di calcoli, gli inserti di scienza nautica, alla Fortezza marina (2001), con un Ismaele evocato già nell’incipit, con le «procedure d’imbarco», le istruzioni per il caricamento dello stivaggio e le sue notizie di naufragi, si ha la netta impressione che per Giannotta la scrittura sia navigazione. E se per Conrad nascere è cadere in mare, Giannotta non dimentica mai che come Sindibàd o Robison Crusoe in agguato o alle spalle c’è sempre un naufragio. «Quando feci naufragio sull’isola, dopo aver ripreso le forze, esploravo il luogo dove il mare mi aveva gettato» si legge nella sezione “Storie del porto” in La fortezza marina, e mi pare che centrale sia quel verbo all’imperfetto – «esploravo» –, perché ogni libro di Giannotta è la traccia, il referto di un’esplorazione. Avanza, osserva, prende e riprende le misure, sosta, traccia mappe, ne traccia ulteriori, raccoglie indizi, voci prossime o remote, scruta l’orizzonte, individua un approdo. La struttura stessa del suo lavoro – pensata per “cicli”, per tessere di un insieme ampio – è come l’itinerario di un unico, lungo viaggio. Carico di “incerti” come ogni viaggio – e su questo punto si aprono i Protocolli di Autodifesa, con un prologo-sommario che squaderna al lettore scritture che evocheranno confini, imbarchi, rotte e approdi.
La suggestiva cartina degli «itinerari e luoghi della scrittura» disegnata da Giannotta (esperimento già presente in Portolano) ha al centro, in alto, il «mare incognitum»: le linee del viaggio, dei viaggi possibili, in quei dintorni si interrompono. Ai margini in alto e in basso due scritte segnalano «Qui c’è la guerra». E lampi lividi di guerre aprono il racconto: «E i morti? Cosa suggeriscono i morti che non hanno parole?». Sono pagine nervose, scandite da un segnale orario insistente, che offrono una prospettiva dall’alto sulla catastrofe: è come vedere l’Angelo della Storia, l’Angelus novus di Benjamin volare sopra le macerie. «Quando saranno stanche le tue ali – scrive Giannotta –, come sono stanchi i tuoi occhi, non troverai un nido dove posare, non troverai nulla che accolga la tua immensa stanchezza».
I bruschi cambi di tema, e di tono, sono – qui più che nei libri precedenti – il tratto essenziale di una narrazione che procede per accumulo, a strati: il risultato non è un collage, ma qualcosa di molto diverso. Un flusso, una tensione progressiva, un approssimarsi/tendere a (una meta, un approdo appunto: ma quale esattamente?). I versi soccorrono la prosa, le fanno da cassa di risonanza. Su tutto grava un cielo minaccioso, piove, piove incessantemente, e «le parole sono color della pioggia», le città sono flagellate da piogge acide: l’umanità è una folla confusa, caotica, appestata. Anche gli uomini sono navi, o relitti. «Raccogliamo quello che è rimasto e cerchiamo di trasformarci in un’altra nave. Sempre che ci riesca: il tempo è ormai contato». È carico di pietà lo sguardo di Giannotta: «Kyrie, pietà» scrive a un tratto, e riscatta dall’oblio, pezzo per pezzo, il materiale recuperato dopo il naufragio di una ipotetica, novella nave Argo.
Protocolli di Autodifesa dilata il tempo e lo spazio, ricongiunge il mito al presente, lo reinventa, recupera storie lontane e notizie di ieri, mescola calcoli, brogliacci, diari, lettere, dialoghi esistenzialisti, dispacci su una grande Peste in arrivo, che il Potere si ostina a negare. Giannotta è un visionario che sfida ogni testo e il suo senso già mentre compone, accumula, riusa, traccia, cancella, poi segna di nuovo. Se il mare si acquieta per un attimo, ricorda; o scrive d’amore. Ma il mare è quasi sempre in burrasca, non sembra amico nel suo maestoso splendore, è il luogo che un giorno, diceva Borges, ci dirà chi siamo. «El mar, el siempre mar», che c’era ed era prima che il tempo si coniasse in giorni, come scrive ancora Borges. «Prima o poi il mare arriva dappertutto» aggiunge Giannotta in una delle pagine più belle e ispirate: «Prima ci pare di sentirlo sciabordare nelle sentine, di percepirne l’odore nei gavoni, come se lentamente salisse entro di noi, o meglio come se inevitabilmente ci trovassimo fatalmente a sprofondare nell’oblio del suo grembo».
Così, chi credeva impraticabile il grande romanzo di mare nel presente dovrà ricredersi: Giannotta l’ha prima smembrato e poi ricomposto a suo modo. E il mare non è più solo il mare, in questa sua scrittura multiforme e burrascosa.
(Paolo Di Paolo)
(Massimo Giannotta da Protocolli di Autodifesa empiria, 2014 pp. 158 € 15)
Canzone delle terre di confine
Noi
che camminammo a lungo
tenacemente procedendo
nelle imperturbate solitudini
strette nel gelo
dell’aria cristallina,
da questa altura
da cui lo sguardo spazia
pellegrini
di una ricerca senza fine
cautamente mischiando
dei nostri passi il suono
a misurare solitudini alterne
nelle sere incantate
nascosti dentro la notte
uno all’altra donando
effimeri sospiri.
Ci vedrà l’alba livida
a separarci di nuovo
a inseguire senza riposo le nostre esauste chimere
e sotto la falda del cappello
l’aria tersa del bordo
nel cammino
gelosamente a conservare.
*
Noi che sopravviviamo qui
in questo posto ormai inabitabile
in perpetuo sinistro carnevale
depredato dai saccheggi e dalle scorrerie
dentro questa sorda, insopportabile
macchina di tortura
tra fiori di plastica
e fumi fetenti
frastornati dalle voci degli imbonitori
dai venditori di merce avariata
dove i televisori a tutto volume
chiamano
a comprare, comprare e comprare.
Noi abitiamo qui
ogni giorno
inevitabilmente
dentro il nostro stesso esilio.
CANZONA SCANZONATA
della fine dell’amore
Fiore dipinto
dicevi a tutti che m’amavi tanto
ma non m’avevi mai troppo convinto
Fiore dipinto
Fiore de pianto
l’amore tuo era soltanto finto
a sotterra’ l’annamo ar camposanto
Fiore de pianto
Fiore gentile
doppo che so’ salito pe’ ‘ste scale
nel letto tuo so’ stato fin’ aprile
Fiore gentile
*
Siamo noi
cittadini di città grigie
flagellate dalle piogge acide
sperduti
tra folle che brulicano cieche
in questi luoghi
dove s’incrociano innumeri segrete appartenenze
cupole
in perpetua, sanguinosa lotta tra loro
libera interpretazione della concorrenza
dove s’incontrano in interminabili code
le grigie confraternite dei questuanti
in fila per qualche cosca
per qualche ‘ndrina
per qualche comitato di malaffare
sgomitando
tra i clientes
tra i sanfedisti
i razzisti
i leghisti
i tronisti
il trust dei cavolfiori
il festival del canzone
i principi di dinastie squalificate e indegne
con le loro corone di latta.
in attesa della propria briciola,
del proprio boccone
scegliendo con pazienza
una collocazione tra i parassiti
tra quelli
che di qualcun altro sono più bravi
e sanno fare meglio il mestiere di boia.
Lune calanti
La luna è mutilata questa notte
come noi
intenti nel ricordo
delle prodighe lune
ricolme come pesche
quando s’aveva voglia di cantare.
Le stanze del Minotauro
Ritorno per noi non sarà
per noi che penetrammo
nel grembo oscuro della terra
non madre
ma matrigna
a cercare le nere stanze del mostro
con l’azzurro rimpianto del mare
misurando
l’inadeguatezza della lama del pugnale
a cercare la bestia
che, dicono,
si senta bramire orrendamente nel fondo
ma il cui urlo immaginiamo soltanto di udire.
Forse
a noi destinato
il silenzio
mentre l’esile fiamma della lucerna
riesce appena a spartire il buio d’un passo
è dolente il ricordo si Ariadne
rapita dal rosso amore
dall’amore che tutto accende e tutto crudelmente brucia
di cui noi ereditammo
solo la fredda cenere
e l’oscura pena
non il filo
che doveva guidare il ritorno.
Terza Luna
Al bar della terza luna
frequentato
da gente poco raccomandabile
accanto al bevitore solitario
al barista assonnato
a cui la donna con la faccia tragica
dice della luna piena
dice
e dice
come in confessione
e forse nessuno l’ascolta
tento di ubriacarmi
ma ho voglia di fuggire
mentre fuori
nell’ombra
una città di tombe aspetta con infinita pazienza
nel plenilunio
sembra che anche i morti gridino
*
Materiale recuperato dopo il naufragio:
Un rotolo di gherlino
Sei braccia di scotta
un coltello spuntato
Un telo impermeabile
Una cappa
Un lacerto di vela
Una banda strappata
Un bugliolo
un remo
Una scatola di emergenza con
. 10 ami assortiti
. un rotolo di lenza,
. un eliografo
. fiammiferi antivento
. un ago da velaio
. filo cerato da vele
. tre razzi di segnalazione
Legname vario
. pezzi di fasciame
. un frammento della falsachiglia
. due bagli quasi completi
. una scheggia della coperta
Un mezzomarinaio
Una sàssola
Una giara di olive
Una scatola di galetta.