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Commento di Marco Onofrio
Le apparizioni in video di Ungaretti cominciano negli anni ’60. A quel tempo “televisione” in Italia significa monopolio esclusivo della Rai, e questa, in quanto Tv di Stato, non ancora condizionata dalla concorrenza delle reti private, è in grado di privilegiare criteri qualitativi nella gestione del palinsesto. Con il democristiano Ettore Bernabei al timone (1961), la Rai plasma il mezzo televisivo in senso pedagogico e politico, come opinion leader egemonico, utilizzabile a fini di consenso. L’assenza di strategie commerciali salvaguarda la durata del prodotto culturale. Caso emblematico il programma L’Approdo, curato da Leone Piccioni e trasmesso a cadenza settimanale dal 2 febbraio 1963 al 28 dicembre 1972. Si tratta della trasposizione televisiva di una rubrica radiofonica della Rai, già rivista cartacea trimestrale pubblicata dalla ERI. Ungaretti è membro di un comitato di redazione sontuoso, che annovera nomi del calibro di Bacchelli, Betocchi, Bo, Cecchi, De Robertis, Longhi, Valeri…
È soprattutto attraverso L’Approdo che passa l’apparizione in video di Ungaretti. Fin dalla seconda puntata (9 febbraio 1963: a poche ore dal sessantacinquesimo genetliaco), la trasmissione dedica tributi di attenzione ad uno dei suoi maggiori garanti di dignità culturale. E certo Ungaretti – grande poeta e già universalmente noto – sembra adatto quant’altri mai ad incarnare lo spirito di un programma che si propone di coniugare qualità e divulgazione: sostanzialmente perfetto, insomma, per l’“iperdimensione” pubblica che il mezzo televisivo si appresta con il tempo a veicolare. Ungaretti? Conosciuto dalla gente, non solo dai letterati. La sua fama pubblica già consolidata gli garantisce l’autorevolezza e la credibilità necessarie per proporsi alla platea televisiva come “il” poeta; la televisione finisce a sua volta per estendere e approfondire questa fama oltre il riverbero banalmente rimasticato del «M’illumino d’immenso», sino a farne una sorta di mito vivente. Egli può così ritagliarsi uno spazio nell’immaginario collettivo ed essere identificato anche da chi non lo conosce, o non conosce la sua poesia, o nutre scarso interesse per il fatto culturale. È anche grazie alla Tv che Ungaretti assurge, anno dopo anno, alla statura di personaggio. Nel 1968, per esempio, traduce e commenta l’Odissea in Rai, e la gente comune, incontrandolo, lo scambia per “quel grande attore della televisione”. Qualcuno, più fantasiosamente, potrebbe anche immaginare che Omero stesso sia stato catapultato a parlare dagli schermi televisivi, tanto ieratica e autorevole appare la figura del poeta. Si era fatto crescere una barba bianca alla Hemingway, da vecchio lupo di mare, pur mantenendo accesi i suoi celebri occhi da bambino, enigmatici come quelli d’un gatto: un appeal nobile e umano, austero e familiare, in grado perciò di guadagnare piuttosto naturalmente il centro della scena, assicurandosi non solo il rispetto ma anche l’affetto dei telespettatori.

Giuseppe Ungaretti
Ma la sua presenza nei programmi Rai non si limita a L’Approdo, giacché comprende anche diversi “specials” nel contesto di altre trasmissioni: sin dal “ritratto” di diciotto minuti che gli dedica Clemente Crispolti, trasmesso la sera del 7 luglio 1959. Sono appunto “ritratti”, “incontri”, “conversazioni” e “documentari” incentrati sull’uomo e sul poeta. Generalmente Ungaretti appare in video per recitare poesie, ma anche per esprimersi su certe questioni, rispondendo alle domande di un intervistatore; o per presiedere o ricevere un premio letterario; o per partecipare a un convegno o a un festival; o per incontrare gli studenti nelle scuole. Le riprese sono per lo più in interno. Ma l’occhio indiscreto della telecamera deve anche poter soddisfare le curiosità del pubblico, che vuole conoscere il poeta-personaggio nella totalità della sua sfera esistenziale. Ed ecco “Ungà” colto nel privato quotidiano, ripreso a passeggio per Roma, lungo il Tevere o tra le rovine di Caracalla, o nell’avita Lucca, o a parlare al tavolino di un bar, o a casa con accanto la nipotina… Il caso più tipico è offerto dal poeta nel suo studio mentre recita versi. Nelle immagini televisive lo si vede seduto in poltrona, inquadrato a mezzo busto, in primo piano. Non accompagna la lettura con gesti delle mani, che sono occupate a reggere il libro. La performance vocalica è doppiata da smorfie espressive e dal movimento degli occhi. Di tanto in tanto li alza dal libro verso un punto immaginario, in alto alla sua sinistra. Lo sguardo è intensamente visionario, inciso nelle rughe di sofferenza che lampeggiano sul volto per l’ansimante scansione sillabica dei versi. È come se scorgesse, fuori di sé, una sorta di oggettivazione simbolica delle parole che pronuncia; o le parole stesse gli nascessero spontanee, per la prima volta, dettate da ciò che “vede”.

eugenio montale e il picchio
Quando legge ad alta voce le sue poesie, in televisione, o in pubblico durante le presentazioni, Ungaretti può destare sospetti di istrionismo; in realtà non è un fine dicitore o un “attore” distanziato dalla materia, ma un uomo che soffre dal vivo, autenticamente –: che dona e spende tutto se stesso, e si ricapitola dalle origini, ancora una volta, ogni volta daccapo. Non risparmia nulla al “fratello umano” che lo ascolta: offre tutto ciò che può dare, anche ciò che ancora non sa di poter dare. La parola è vissuta nel sangue, in ogni sua fibra. Il pathos espressivo è autentico e per questo impressionante. Ungaretti arde all’improvviso come un tirso, e la sua fiammata non si lascia facilmente dimenticare. Sul viso gli si rende visibile una sofferenza, una pena effettiva, e a tratti un illuminarsi e vibrare che colpisce per sempre chi lo vede. È in definitiva un grande comunicatore, capace di bucare il silenzio o il teleschermo con i suoi sguardi profondissimi e la sua voce cavernosa e dolce, i suoi estri repentini e i suoi furori. Ricorda Francesco Paolo Memmo: «Aveva quegli occhi incredibili, scavati, che ti scavavano, quando lo vedevo in televisione; con una bellissima barba bianca, negli ultimi anni: lo ricordo, ad esempio, seduto accanto a un albero, su un prato, in un videoclip ante litteram, mentre Iva Zanicchi cantava una canzone evidentemente a lui dedicata» (ma Ungaretti stravedeva per Mina).
Della vocalità di Ungaretti si è occupato Emerico Giachery in un breve e magistrale saggio, Ungaretti a voce alta (2008). Occorre premettere che ogni voce, nella sua grana originaria, ha per natura incorporato un destino di credibilità. La voce non è mai neutra, ma ha significato di per sé: è portatrice di un “valore” che prescinde dal linguaggio. Questo spiega perché un bravo attore, dotato di bella voce, è in grado di far apparire valida una poesia mediocre; o, viceversa, perché una poesia valida, o anche splendida, può essere completamente rovinata da una lettura scadente. La vocalità (grazie a cui il testo poetico viene eseguito, a mo’ di partitura musicale) abbraccia i poteri del significante – intonazione, accento, ritmo, interpretazione delle figure foniche e metro-ritmiche del testo – che, secondo la distinzione di Émile Benveniste, consentono al registro semiotico-denotativo di espandersi negli “armonici” del livello semantico-connotativo: la pienezza del senso poetico (ovvero la “significanza” epifanica del testo) scaturisce dalla coesione strutturale che incorpora i poteri del significante, sondati dalla voce, ai messaggi convenzionali del significato.
Il linguista Giuseppe Paioni ha descritto in modo assai preciso la fonetica ungarettiana: il celebre “sillabato”, la nettezza degli iati, la purezza delle vocali e la variabilità della loro durata, «la vibrante rinforzata se associata a dentale o velare (…), ma senza asprezza, quasi che il suo ruolo simbolico fosse quello di virilizzare la dolcezza, senza abbandonarla (…), la sibilante preconsonantica o geminata allungata, come accarezzata (…), le nasali marcate a delimitare il prefisso»… Il sillabato ungarettiano cerca «la letteralità, le articolazioni naturali della lingua. L’effetto di questi eccessi, di questi timbri marcati è quello di astrarli, come se la voce ne accentuasse l’idea, l’evidenza, cioè di allucinarli». È un recitativo che frantuma il continuum vocale in un “salmodiare” rotto e sofferto, modulato su variazioni di volume e di altezza. «Né meramente illustrativa o espressiva né enfatica o al limite isterica, la performance ungarettiana si definisce essenzialmente come una drammaturgia sottile della parola, una “mise-en-scène” puntuale e allo stesso tempo lussuosa del testo e delle modalità con cui il testo e la sua ritmicità “lavorano” la lingua e i suoi significanti».
Peraltro, la lettura a voce alta di un testo è – già di per sé – un atto ermeneutico. Lettura e critica convergono: l’interpretazione vocale della poesia va intesa come «momento di sintesi e punto d’arrivo del processo interpretativo». E aggiunge, precisando, Giachery: «Si tratta, entro un certo limite, anche di una sorta di lettura-confessione, e certo», per ciò che riguarda Ungaretti, «di una lettura che aiuta non poco ad intendere il suo modo di sentire, di vivere l’esperienza della parola, di scandire, spaziare, scatenare la materia verbale». Orbene, che rapporto intercorre tra la vocalità dell’Ungaretti performer e il presunto ermetismo della sua poesia? E anzitutto: che cosa c’è di realmente ermetico in Ungaretti, prescindendo ovviamente dalla classificazione scolastica che lo assomma – nella comune cifra dell’ermetismo – a due poeti molto differenti (anche tra loro) come Quasimodo e Montale? La poesia di Ungaretti è “ermetica” in quanto rende ampio lo spettro del senso e si apre alla libertà delle interpretazioni. Il lettore è coinvolto attivamente nella produzione del senso (cioè nell’attuazione di una fra le tante letture possibili) della poesia. Si legga, ad esempio, l’attacco di “O notte” (da Sentimento del tempo, 1933):
Dall’ampia ansia dell’alba
svelata alberatura.
Dove si noti il predominio fonosimbolico della [a], vocale di apertura cosmica a uno «smisurato orizzonte in ansia crescente di luce e di evento» (Giachery); ma anche l’ambivalenza di «alberatura», che può denotare sia (com’è più probabile) un intrico di fronde “svelato” dalla luce del nuovo giorno, sia gli alberi di una nave privata di vele, con gradienti simbolici successivi di identificazione del mondo (compatto divenire delle cose esistenti) in imbarcazione che attraversa gli «oceanici silenzi» del tempo, e a cui l’alba toglie le vele tenebrose della notte… Quanto più cresce, come in questo caso, la libertà interpretativa del lettore, tanto più il testo è “oscuro”, cioè ambiguo, polisemantico, non chiaramente determinato. La poesia di Ungaretti è “ermetica” anche nella misura in cui tiene nascosta la significanza, cioè il livello semantico globale che saprebbe – viceversa – renderla chiarissima. Per meglio dire: tiene la significanza accessibile soprattutto alla voce viva, attraverso l’operazione supplementare, successiva alla scrittura, della performance.
La performance ungarettiana, in particolare. Come un testo magico che suppone la tradizione di un rito vocalico, e solo in esso e per esso accetta di rivelare o riflettere il proprio segreto. La voce è il passepartout che permette di aprire le gabbie del segno, di entrare nel testo, di chiarirlo nella sua verità originaria. Il suono performativo della voce è un imbuto che ci porta nell’utero della poesia, dentro la cuna del senso. Oltre quest’utero si spalanca l’abisso del silenzio infinito che contiene tutte le parole, e ogni parola è l’imboccatura di questo abisso. La voce scardina l’ordigno della poesia, ne spiega le pieghe, ne svela i sottotesti, laddove urgono i significati più profondi e veri. Capiamo allora che l’oscurità era solo apparente: si trattava in realtà di un bagliore nascosto dentro la tenebra opaca dei segni. Il “senso” della poesia ermetica è come una candela accesa: si vede appena in piena luce, alla superficie della “forma”, ma risplende come un piccolo sole nel buio cavernoso dei sottotesti. Leggendo e ricreando drammaticamente la poesia, il poeta ci restituisce l’infinito che “non cape” nella forma, ovvero gran parte di ciò che avrebbe voluto o potuto dire. Ci comunica, usando linguaggi diversi dalla scrittura, i segnali e i sensi di ciò che la scrittura non dice, o dice oscuramente. Così facendo guida e controlla l’indirizzo della decodifica, introducendo un principio di determinazione già parecchio notevole rispetto alla libertà “aperta” del lettore solitario.
Attenua dunque il principio ermetico della collaborazione attiva del lettore: il poeta stesso, ora, legge per lui. Il lettore-ascoltatore, divenuto oggetto di fascino, dovrà “limitarsi” a rielaborare segni già incanalati verso una certa direzione del senso (così leggere ad alta voce è, appunto, interpretare). Ungaretti, leggendo la propria poesia in un modo tanto scenografico e ammaliante, è come se volesse “suggerire”, se non imporre, la decodifica originaria del testo, avendo a cura che si comprenda entro il raggio di una certa direzione. La performance rappresenta una forma di comunicazione totale, sicché «nel modo della lettura di Ungaretti, molte di quelle cose che sono sempre sembrate caratteristiche tanto della sua personalità quanto della sua poesia vengono fuori. Si affaccia a un certo momento una ricomposizione di tutto in chiave di possibile auto-teatro, e tuttavia il teatro è anche rivolto agli altri» (Zanzotto). Egli torna al punto di partenza, rivive le premesse dell’atto creativo, si tuffa di nuovo nel magma da cui è emersa la poesia.
Il testo scritto viene “fissato” dalla voce come textus ne varietur, come versione ideale e forma massima della potenza: la poesia risuona in armonia con le intenzioni originarie, sfiora il luminoso archetipo da cui la scrittura – pallida copia – proviene, de-finendosi in forma. E che la scrittura, forma immobile e incisa nello spazio, debba essere “fissata” dalla voce, mobile e vibratile nel tempo, testimonia sia la straordinaria potenza della voce (e non una voce qualsiasi, ma quella suggestiva di Ungaretti), sia la particolare qualità di questa scrittura, il suo essere preformata in vista della performance, scritta a mo’ di “partitura” da eseguire, dilatandosi ed esaltandosi nella voce. È una poesia che chiede giustizia alla voce, che insomma deve “suonare” per essere davvero se stessa. Nella lettura ad alta voce si produce dunque una forma di “variante assoluta”: la poesia vive autenticamente – nella pienezza delle sue potenzialità – attraverso un rito vocalico che la accende, e la fa palpitare all’unisono col ritmo interiore del poeta, mentre questi la rivive e la scandisce attimo per attimo, respiro dentro respiro, parola dopo parola. Non è difficile rendersi conto che questo è il modo del primo Ungaretti.
Dopo i versicoli dell’Allegria, distillati per quintessenza dal simbolismo francese ed europeo, il poeta rientra nell’alveo accademico della tradizione italiana: un certo sentire barocco, che gli appartiene per istinto e anche per cultura (traduce da Gongora, Shakespeare, Racine), viene travasato entro le strutture ormai “archetipiche” del petrarchismo (dopo secoli di codificazioni stratificate e sbiadite imitazioni). La “restaurazione” operata con Sentimento del tempo determina un sovrappiù di forma che ingorga, offusca e, da ultimo, porta fuori strada il percorso aperto dalla scintillante e davvero creativa novità del Porto sepolto. Che il modo originario fosse il più conforme e congeniale alla sua verità di uomo e di poeta, lo si capisce dal fatto che Ungaretti lo conserva, nel corso degli anni, come metodo di lettura performativa. Talché anche il verso lungo (e l’endecasillabo, in particolare) delle raccolte successive, viene destrutturato, nell’atto della lettura ad alta voce, secondo il modello dell’Allegria. Come a dire che l’autentico Ungaretti è e resta il poeta dell’Allegria, anche quando scrive e poi legge pubblicamente testi che distorcono o contraddicono quelle originarie implicazioni. Si prenda ad esempio, da Il taccuino del vecchio, lo struggente e disperato appuntamento d’amore, oltre i confini del tempo, che è “Per sempre”, del 1959, in memoria della moglie Jeanne morta da un anno:
Senza niuna impazienza sognerò,
mi piegherò al lavoro
che non può mai finire.
E a poco a poco in cima
alle braccia rinate
si riapriranno mani soccorrevoli.
Nelle cavità loro
riapparsi gli occhi, ridaranno luce.
E, d’improvviso intatta
sarai risorta, mi farà da guida
di nuovo la tua voce,
per sempre ti rivedo.
Ecco come la poesia si trasforma, per una lettura televisiva, nella dizione ansimante e pausata di Ungaretti:
Senza niuna impazienza
sognerò
mi piegherò
al lavoro
che non può mai
finire
e
a poco a poco
in cima
alle braccia
rinate
si riapriranno
mani
soccorrevoli
nelle
cavità loro
riapparsi
gli occhi
ridaranno luce
e d’improvviso
intatta
sarai
risorta
mi farà
da guida
di nuovo
la tua voce
per sempre
ti rivedo.
Il metro viene spezzato dal respiro della voce, nella sua misura organica, perché emerga la verità profonda delle parole, incise – queste più che mai! – nella carne dell’esistenza, del dolore e della memoria. La pausa isola la parola nella sua densità semantica. Il silenzio accentua, per contrasto, il suono della voce: ne esalta la magia, la persuasività. La voce può così manifestare il percorso spirituale della parola, afferrandone l’eco remota. Ungaretti cerca di catturare, nella dizione franta, il ritmo nativo ed essenziale della sua poesia, lasciando affiorare il chiarore dei sottotesti e consentendo di significarne la “verità” (su tutte le possibili letture).
Anni erano passati, e vicende e tragedie Ungaretti aveva oltrepassato, evolvendo nel proprio percorso. Nuove opere, nuove ispirazioni, nuovi orizzonti. Eppure l’Ungaretti che recitava versi restava ancorato al tempo dell’Allegria, al modo di quel capolavoro, al bagliore folgorante del suo avvio. Era quella la voce “nativa” del poeta, ed egli fin da allora l’aveva conquistata, definitivamente, per sempre. Conservare così la voce più chiara, la più limpida, di cui era capace, gli serviva anche per sciogliere i grumi, le opacità della forma, nella vita pulsante della voce, dispiegata attraverso il rito divulgativo della lettura. Leggendola ad alta voce, Ungaretti estrae la propria poesia dal nodo semantico che ne racchiude il senso, dentro la profondità delle strutture. La poesia ermetica si “dis-ermetizza” nel fuoco liquido della voce. La poesia di Ungaretti, ermetica nello spazio bianco della pagina, cessa di esserlo nell’espressione totale della performance, nell’urgenza della sua vocalità.