Sergej Aleksandrovic Esenin nasce il 3 ottobre 1895 a Konstantinovo (oggi Esenino), nella regione di Rjazan (Russia); figlio unico di genitori contadini, è l’esponente più importante della cosiddetta scuola dei “poeti contadini”. Nei suoi versi traspare il mondo rurale della Russia di inizio Novecento: le sue parole esaltano le bellezze della campagna, l’amore verso il regno animale, ma anche gli eccessi della sua vita (Esenin fu alcolista e frequentatore di bordelli).
Cresciuto con i nonni, inizia a scrivere poesie già all’età di nove anni. Nel 1912 si trasferisce a Mosca dove si guadagna da vivere lavorando come correttore di bozze presso una casa editrice. A San Pietroburgo diviene noto nei circoli di letteratura. È grazie a Alexandr Blok che viene promossa le sua carriera di poeta. Nel 1915 pubblica “Radunica”, il suo primo libro di poesie, subito seguito da “Rito per il morto” (1916). In breve diviene uno dei poeti più popolari di quegli anni.
La bellezza di Esenin è del tutto fuori del comune; bisessuale, cerca appoggio nella prima parte della sua vita presso uomini influenti, mentre nella seconda parte la sua preferenza andrà verso il sesso femminile. Dotato di una personalità romantica Esenin s’innamora di frequente, tanto che arriverà a sposarsi per ben cinque volte.
Si sposa per la prima volta nel 1913 con Anna Izrjadnova, collega di lavoro presso la casa editrice, dalla quale ha il figlio Yuri (poi arrestato durante le grandi purghe staliniste e morto in un gulag nel 1937). Nel periodo 1916-1917 Sergej Esenin viene arruolato, ma poco dopo la rivoluzione d’ottobre del 1917, la Russia esce dalla prima guerra mondiale. Credendo che la rivoluzione avrebbe comportato una vita migliore, Esenin la sostiene, ma ben presto si disillude arrivando persino a criticare il governo bolscevico (di questo periodo è la poesia “L’ottobre severo mi ha ingannato”).
Nell’agosto 1917 Esenin sposa l’attrice Zinaida Raikh. Da lei ha una figlia, Tatjana, ed un figlio, Konstantin. Nel settembre del 1918 fonda una propria casa editrice chiamata “Compagnia lavorativa moscovita degli artisti della parola”.
Conosce poi Isadora Duncan, già allora famosa ballerina; l’incontro sarà determinante per le sue ispirazioni poetiche. La sua relazione con lei (di 17 anni più anziana) è molto tormentata e difficile, nonché ricca di stravaganze: clamoroso fu l’episodio in cui a Parigi i due furono cacciati da un albergo perché Isadora ballava nuda mentre Esenin recitava versi. Unitisi in matrimonio il 2 maggio 1922 (lei, bisessuale con preferenza per le donne, conosceva solo poche parole di russo: il matrimonio era per entrambi una mossa pubblicitaria), si separano l’anno successivo.
Torna a Mosca e sposa l’attrice Augusta Miklaevskaja. Negli ultimi due anni della sua vita Sergej Esenin vive tra gli eccessi, spesso ubriaco; ma questo periodo di disperazione personale è anche il periodo in cui crea alcune delle sue poesie più belle e note.
Nella primavera del 1925 sposa la sua quinta moglie, Sofia Andreevna Tolstaja, nipote di Lev Tolstoj. La donna cerca di aiutarlo, ma Esenin non riesce ad evitare un esaurimento nervoso: entra in un ospedale psichiatrico dove resta per un mese. Viene dimesso per il Natale: due giorni dopo si taglia un polso e scrive con il suo stesso sangue la sua ultima poesia, che rappresenta il suo addio al mondo; persona violenta e aggressiva capace allo stesso tempo di grande sensibilità, Sergej Esenin muore suicida il giorno dopo, il 27 dicembre 1925, all’età di 30 anni: mentre si trovava nella stanza di un albergo a San Pietroburgo, se ne va impiccandosi alle tubazioni dell’impianto di riscaldamento. Esiste ancora oggi il mistero per il quale alcuni pensano che il suicidio sia stato una montatura: Esenin sarebbe stato in realtà ucciso da agenti del GPU.
Mi è rimasto un solo divertimento:
le dita in bocca e fischiare allegro.
Si è diffusa la cattiva nomea
che sono un tipo volgare e un attaccabrighe.
Ah, che stupida perdita!
Nella vita ci sono tante stupide perdite.
Mi vergogno perché credevo in Dio,
provo amarezza perché non credo più.
Dorate, lontane lontananze!
Tutto brucia la vita quotidiana!
E io mi comportavo da maiale e davo scandalo
perché bruciasse più forte.
Il dono del poeta è accarezzare e tagliare.
Un marchio fatale è dentro di lui.
Una rosa bianca con un rospo nero
avrei voluto sulla terra far sposare.
Eppure non si sono avverati, non si sono realizzati
questi propositi dei giorni dorati.
Ma siccome i diavoli hanno fatto il nido
significa che gli angeli vivevano nell’animo mio.
E allora per queste allegre torpidezze,
partendo insieme verso un altro paese,
voglio all’ultimo minuto
chiedere a quelli che saranno con me
per tutti i miei terribili peccati,
per la sfiducia nella bontà divina
che mi mettano vestito di una camicia russa
a morire sotto le icone.
(1923)
Non rimpiango, non chiamo, non piango
ma tutto passerà come fumo dai meli bianchi.
Accerchiato dall’oro della sfioritura,
non sarò più giovane.
Ormai non batterai più come un tempo,
cuore, toccato dalla frescura
ed il paese delle telose betulle
non mi alletterà a bighellonare scalzo.
Anima vagabonda! Sempre più di rado, di rado
agiti la fiamma delle labbra
oh, mia freschezza perduta,
violenza degli sguardi e pienezza dei sensi.
Ormai sono diventato più avaro nei desideri,
vita mia, forse ti ho solo sognata?
Come in un sonante mattino di primavera
galoppavo su un cavallo rosa.
Tutti noi, tutti noi siamo caduchi a questo mondo.
Cola lentamente dagli aceri il rame delle foglie…
E che sia per sempre benedetto,
quello che venne a fiorire e morire.
(1921)
Ha smesso di parlare il boschetto dorato
con l’allegra lingua delle betulle
e le gru, volando mestamente,
ormai di nessuno hanno compassione.
Compatire chi? Ognuno al mondo è un pellegrino
se ne andrà, passerà e di nuovo abbandonerà la casa.
Sogna tutti quelli che se ne sono andati la canapaia
con la grande luna sull’azzurro stagno.
Sto solo in mezzo alla pianura spoglia
se ne rivanno lontano col vento le gru
io, sono colmo di allegra giovinezza
ma non compiango nulla del passato.
Non compiango gli anni sprecati invano,
non compiango la fioritura color lillà dell’animo,
nel bosco arde un falò di sorbo rosso
ma non può riscaldare nessuno.
Non bruceranno i grappoli di sorbo,
l’erba non sparirà perché ingiallita,
come l’albero lascia cadere senza rumore le foglie,
così io lascio cadere le parole tristi.
E se il tempo, sparpagliandole col vento,
le ammucchia in’inutile zolla..
dite così…che il bosco dorato
ha smesso di parlare con lingua gentile.
(1924)
Mi è nota questa strada
e mi è nota questa casetta bassa,
la paglia azzurra dei cavi
si è rovesciata sulla finestra.
Furono anni di pesanti calamità,
furono anni di forze turbolente, folli.
Io ricordavo l’infanzia in campagna,
ricordavo l’azzurro della campagna.
Non cercavo né la gioia né la pace,
conoscevo questa gloria vana.
Ma ora, come chiudo gli occhi,
vedo soltanto la casa paterna.
Vedo il giardino nelle azzurre gocce,
sommessamente l’autunno si è appoggiato alla siepe.
Nelle verdi braccia reggono i tigli
lo schiamazzo ed il cinguettio degli uccelli.
Ho amato questa casa di legno,
nelle travi si intiepidiva una crepa minacciosa,
la nostra stufa in modo strano e crudele
urlava nella notte piovosa.
La voce potente ed il singulto tonante,
come su qualcuno perduto, vivo.
Che cosa vedeva, cammello di mattoni,
nell’ululato piovoso?
Di certo vedeva paesi lontani,
il sogno di un tempo altro e fiorito,
le sabbie dorate dell’Afganistan
e la nebbia di cristallo di Buchara.
Ah, anche io conosco questi luoghi,
ho percorso lì un cammino non piccolo,
solo più vicino al paese natale
vorrei ora volgermi.
Ma si è spento quel tenero torpore,
tutto si è dissolto nel fumo azzurro.
Pace a te, paglia campestre,
pace a te, casa di legno.
(1923)
Mio acero spoglio, acero intirizzito,
perché te ne stai incurvato sotto la bianca tempesta?
Forse hai visto qualcosa? Forse hai sentito qualcosa?
Come se te ne fossi andato a spasso fuori del paese.
E, come un guardiano ubriaco, uscendo sulla strada,
sei affogato nella neve, ti sei congelato le gambe.
Ah, io stesso sono ora diventato instabile.
non ce la farò fino a casa dalla bisboccia con gli amici.
Là fuori ho incontrato il salice, ho notato il pino
ho cantato per loro sotto la tempesta canzoni sull’estate.
Per parte mia mi sentivo uguale all’acero,
solo non spoglio ma pienamente verde.
E, perdendo la timidezza, ubriaco fradicio,
come fosse la donna di un altro, ho abbracciato la betulla.
(1925)
Poesie meravigliose e dense di riflessione: Esenin andrebbe letto e riletto senza tregua.
Complimenti a Donata De Bartolomeo per la traduzione; non conosco le altre versioni e dunque non posso fare confronti, ma la sua mi sembra molto bella.
Un grazie alla sig.ra Di Bartolomeo per il bellissimo lavoro. Un poeta che non si finisce mai di conoscere, osservando stupiti i suoi passi lontani oramai nel tempo e nello spazio, la sua disperazione che ha lasciato tracce sublimi in un mondo tornato indietro, dove alla nobiltà parassitaria e rapace si è sostituita una finanza altrettanto rapace ma molto più cafona.
Il poeta lirico non può sopravvivere in un mondo di rapidi e febbrili sommovimenti sociali e politici. Esenin era un poeta lirico per intima vocazione ma non aveva alcuna possibilità di sopravvivere dopo la rivoluzione d’ottobre.
Poi c’è un altro tipo di poeta lirico, Leopardi e Hölderlin costretti a vivere, loro malgrado, in un’epoca di restaurazione e di involuzione politica. In entrambi i casi si tratta di situazioni tragiche, ma il poeta lirico può sorgere soltanto in situazioni tragiche, è questo il paradosso storico sociale e psicologico emozionale in cui è costretto a sopravvivere. Si tratta di un sottilissimo e instabile equilibrio tra la coscienza irriflessa del poeta lirico e la coscienza riflessa del poeta non più lirico, IN QUESTA SOTTILE LINEA DI DEMARCAZIONE, lungo questo confine il poeta lirico può produrre poesia.
Nel caso di Esenin la rivoluzione era un fenomeno troppo grande e invasivo perché il poeta lirico potesse sopravvivere; Esenin detestava la modernità, detestava le metropoli occidentali ricche di beni e servizi, detestava New York con i suoi grattacieli che lo riempivano di angoscia. Non aveva più scampo:il futuro era contro di lui. Nella sua poesia baluginano qua e là i terribili eventi della rivoluzione:
Furono anni di pesanti calamità,
furono anni di forze turbolente, folli.
Ma poi tutto rientra, Esenin cerca la pace della sua casetta nel «bosco dorato», può vivere solo come un «vagabondo» «attaccabrighe» in un mondo che si allontana sempre di più…
Ho sempre amato e ammirato Sergej Esenin.
Un ringraziamento alla brava traduttrice Donata Di Bartolomeo e a Giorgio Linguaglossa che ha proposto questa splendida lettura.
Giorgina Busca Gernetti
Per quanto riguarda il “suicidio” di Esenin e “quello” di Majakovskij vi invito a leggere nel mio blog musashop.wordpress.com il mio recente post “Vladimir Majakovskij: A Sergej Esenin”.
pardon musashop.wordpress.com
Mi scusi se correggo il link, altrimenti non ci si arriva direttamente.
http://musashop.wordpress.com
Grazie
Giorgina Busca Gernetti
Mi innamorai subito della poesia, della vita, e della morte, di Esenin
quando a vent’anni lessi numerose sue poesie. Da 68 anni non lo dimentico proprio per non averlo imitato. Beh, qualcosa, da romantico, il suo amore per il mondo animale, l’amore non solo fisico e soltanto per la donna, . La sua poesia, a me, ignorante del linguaggio russo, attraeva per semplicità discorsiva sempre movimentata. Adesso che ho letto queste nuove versioni fresche formidabili in un linguaggio italiano di oggi, ricordo che la sua morte avvenne un anno e 14 giorni prima della mia nascita. Auguri alla Signora Donata De Bartolomeo e un grande grazie per farci rileggere Esenin.
Non ho che da ribadire la mia stima per Donata De Bartolomeo, come in altre occasioni. Ma bisogna stare attenti a certi equivoci linguistici, che sono certo Donata ha compiuto.
a. s.
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