POESIE di Maria Rosaria Madonna “Gli angeli sono come gli uccellini”, Giorgio Linguaglossa “Carnevale delle ombre“, Marco Onofrio “Stige”, Fabrizio Dall’Aglio “Nel tempo in cui il passato continuava”, Nazario Pardini “Nel regno delle Eumenidi”, Anonimo “Poema dell’altrove”, SUL  TEMA DELL’ISOLA DEI MORTI di Böcklin (STIGE o ACHERONTE)

Arnold_Böcklin_seconda versione

Arnold Böcklin, seconda versione

  Arnold Böcklin (1827-1901) dipinse diverse versioni del quadro fra il 1880 e il1886. L’opera fu estremamente popolare all’inizio del XX secolo e affascinò personaggi come Sigmund Freud, Lenin, George Clemanceau, Salvador Dalì e Gabriele D’Annunzio. Adolf Hitler ne possedeva una versione originale, acquistata nel 1936. Tutte le versioni del dipinto raffigurano un isolotto roccioso sopra una distesa di acqua scura. Una piccola barca a remi, condotta da una persona a poppa, si sta avvicinando all’isola. A prua ci sono una figura vestita di bianco e una bara bianca ornata di festoni. L’isolotto è dominato da un bosco fitto di cipressi, associati da lunga tradizione con i cimiteri e il lutto, circondato da rupi scoscese. Nella roccia sono presenti quelli che sembrano essere portali sepolcrali. L’impressione complessiva è quella di uno spettacolo di desolazione immerso in un’atmosfera di mistero.

Arnold Böcklin non ha fornito alcuna spiegazione pubblica circa il significato del suo dipinto, anche se l’ha descritto come «un’immagine onirica: essa deve produrre un tale silenzio che il bussare alla porta dovrebbe fare paura». Il titolo, che gli è stato dato dal mercante d’arte Fritz Gurlitt nel 1883, non è stato specificato da Böcklin, anche se deriva da una frase scritta in una lettera inviata nel1880 ad Alexander Günther, che aveva commissionato l’opera. Non conoscendo la storia delle prime versioni del dipinto, molti critici d’arte hanno interpretato il vogatore come una rappresentazione di Caronte, che nella mitologia greca conduceva le anime agli inferi. L’acqua è quindi il fiume Stige o l’Acheronte, e il passeggero vestito di bianco un’anima recentemente scomparsa in transito verso l’aldilà.

Arnold Böcklin_Die_Lebensinsel_-1888

Arnold Böcklin Die Lebensinsel -1888

La spiaggia di Levrechio sull’isola di Paxos si trova di fronte alla foce dell’Acheronte fiume che attraversa l’Epiro, regione nord-occidentale della Grecia, e si congiunge col mare nei pressi della cittadina di Parga. L’Acheronte è un affluente del lago Acherusia e nelle sue vicinanze sorgono le rovine del Necromanteio, l’unico oracolo della morte conosciuto in Grecia. Ma Acheronte (in greco Ἂχέρων, -οντος, in latino Ăchĕrōn, -ontis) è anche il nome di alcuni fiumi della mitologia greca, spesso associati al mondo degli Inferi. Secondo il mito sarebbe proprio un ramo del fiume Stige che scorre nel mondo sotterraneo dell’oltretomba, attraverso il quale Caronte traghettava nell’Ade le anime dei morti; suoi affluenti sarebbero i fiumi Piriflegetonte e Cocito. Il suo nome significa “fiume del dolore”. (nota di Francesco Aronne)

 Maria Rosaria Madonna Cover Ombra

Maria Rosaria Madonna

Gli angeli sono come gli uccellini

Gli angeli sono come gli uccellini
volano via al primo battere delle mani,
i dèmoni invece stanno immobili
appollaiati sui rami degli alberi
emettono il loro singhiozzo disperato.
Essi non possono fuggire… maledetti
dall’eternità sono condannati a star fermi.
Per sempre.

*
Ci sono parole che dormono
il loro sonno eterno e non è bene
svegliarle. Ci sono altre parole invece
che improvvisamente risorgono
a vita nuova dopo un sonno eterno…
magari in un’altra lingua, un altro mondo…
E questa è la vera resurrezione
della carne… la sola, unica e vera.

*

Tu mi chiedi ancora una volta
di tornare al nostro problema principe:
«quale sia l’origine del male».
«Ebbene, ed io ti rispondo che se
al male aggiungiamo altro male e al bene
aggiungiamo altro bene, non per questo
avremo più male o più bene, ma ciò
non deve farci recedere di un millimetro
dal nostro proposito».
Sì, mio caro lettore, dobbiamo
amare le stelle e andare a passeggio
con Dante e i personaggi del suo Inferno
piuttosto che tra i beati del Paradiso.
Sì, mio stimato lettore, il male esiste e resiste
a tutte le intemperie…

Ed ora un aneddoto. Sai come si salvò
un tenente italiano fatto prigioniero dai tedeschi?
All’ufficiale della Wehrmacht che lo interrogava
rispose recitando il primo canto della Commedia…
parlava senza fermarsi della selva oscura
che nel pensiero rinnova la paura
e delle tre fiere che gli sbarravano il passo…
E così si salvò dalla deportazione in un lager.

Dunque, è vero, stimato amico lettore
che la poesia salva la vita e riscatta il mondo
e sono nel falso e nella menzogna
coloro che dicono altro. Tienilo a mente,
o lettore, tu che sei saggio e sai
distinguere la verità dalla menzogna.
E così sia.

(Inedito da Tutte le poesie – 1985-2002)

Picasso the shadow 1953

Giorgio Linguaglossa

Carnevale delle ombre

«Benvenuti al carnevale delle ombre!», disse una voce;
l’angelo Achamoth dai dodici occhi che non guardano che i propri occhi
gridò: «toglietevi la maschera!».

[…]
Ed entrammo, con altri prigionieri, nel corridoio
delle ombre eterne: c’era una ressa del diavolo,
delle statue bianche si avviavano sotto un giogo di ferro
e calcestruzzo eretto, a destra e a sinistra, tra le finestre cieche
lungo un ambulacro alle cui pareti pendevano
migliaia di volti in cornici dorate. I volti dipinti parlavano tra di loro,
dicevano: «non fate entrare le ombre maledette!,
sbarrate loro l’ingresso!».

[…]
Mi accorgo che dalla porta entrano in molti,
dicono «Buongiorno e addio», e ritornano
nel buio da dove sono venuti; c‘è ressa:
dei figuri vogliono entrare dalle finestre, bussano ai vetri delle persiane
sbarrate, lottano anche essi con le ombre; “vogliono
diventare ombre”, penso con raccapriccio.

[…]
Una triplice voce piove dall’alto dai microfoni degli altoparlanti
nascosti nel buio:
«Benvenuti nella galleria dei quadri morti»
«Lasciate i vestiti su questa spiaggia».
Noi lasciamo i vestiti sulla spiaggia ed entriamo nel mare
fino alla cintola; «siamo pronti!», gridiamo.
Entrano in noi lentamente le ombre bianche
come un inchiostro nella carta assorbente;
e scompaiono; la voce ritorna nel microfono,
il microfono cammina nella sala d’aspetto,
il quadro si attacca alla parete, il mare si ritrae dalla spiaggia,
le ombre si staccano dai corpi, si allungano e camminano nel volo
dei gabbiani bianchi.
[…]
Dio scrive sull’acqua le parole che vuole nascondere:
un testo senza parole?, un pentagramma senza note?,
l’ascensore del silenzio sale nel sole assente,
il sole assente entra ed esce dal sole bianco.
Madame Hanska nell’atrio fa entrare le parole morte
e scaccia con un frustino le parole vive.
Le ombre prendono possesso delle statue bianche, ombre
anch’esse di altre pallide ombre; pallide linci di pallide ombre.
Portano una maschera bianca sul volto.
[…]
I geroglifici delle stelle vengono incontro
alle maschere bianche che portiamo sul volto.
La mia ombra veste l’abito del crepuscolo
ascende i gradini del silenzio, il dolore soffia
con un sospiro rauco e si attacca alle pareti del corridoio
i sopravvissuti della luce trascinano le ombre bianche
sopra le impalcature di ferro. Una voce esce da un altoparlante
e dice: «Buongiorno e addio»

(Inedito da La notte è la tomba di dio –)

i misteri di Eleusi

i misteri di Eleusi

 

Marco Onofrio

Stige

Raccolsi dentro il pugno la mia accidia
andando per montagne, per vallate
dove centurie d’anime perdute
mi chiamavano a vivere con loro;
e vidi: cenni di bonzi sciamani
giganteschi calvi di terrore
col cranio lucisferico di senso
che in coro mi lanciavano anatemi;
e il polso del braccio levato
emergere da melme barbuglianti
dal basso di fondali putrescenti
megere transatlantiche abissali
erinni o gorgoni impazzite
con le chiome gonfie color notte
annodate sulle facce urlanti
dagli occhi insanguinati e inebetiti
da minacce: spaventate picchiatrici
di sorde campane bombanti
suonando senza fine risuonando
dal vuoto la sottesa melodia
di algoritmi in carole flautate
modulando ossa traforate
di vittime immolate, fredde già
o gemebonde, all’ultima agonia
rosicchiare, raspolare, spollinare
e frangere, e gemere, e ingollare
e svellere vincigli corticali
le unghie fameliche rapaci
tuffate dentro l’opera tremenda
immerse nella chiorba alla poppugna
cucchiara della crogna nel babbàno
marmitta della pigna al sobbollire
maderna della broda in portulano
fernacca papelèra e bocca a culla,
or quando imbestialita di murena
or quando ingentilita e musicante:
e così, far cembali d’orecchi
e d’incavati malli le conchiglie
di nacchere giulive ed andaluse
e di mariti becchi le protuse
armoniche di trippe sbudellate
ad uso pizzicato di chitarra
e per le corde i nervi da vibrare
utilizzando a plettri le sporgenze
di nasi acuminati a scimitarra
e di scuoiati occipiti ocarine
busecchie iridescenti cornamuse
di chiappe a percussione il ratapùm
bombando fra i tiranti le membrane
tamburi contro rulli fragorosi,
nel fondo più profondo di pantani
dolciastri, al chiasso di batraci
dagli occhi velati, stroboscopici
palluti e concertati, a frotte
a lestre, a turbe di milioni
vidi gonfiare i gozzi ed eruttare
dalle bocche tumide violacee
il fiato solforoso in bolle ciane
grotteschi brutti gonfi ciondolanti
bambocci, allocchi imbecilliti
mentre le squame grigiazzurre dei tritoni
guizzavano nel viscido mollume
coi corpi attenti ad ogni variazione
e un fitto, inestricato brulicame
di rivoli ammuffiti e densi grumi
agglutinava bianche concrezioni
all’apice dei fusti e dei rizomi
nei luoghi abbandonati alla paura
agli angoli obliati dove i morti
trascorrono invisibili natura
nei posti poco fuori all’aria scura;
e larve raggrinzite degli aborti
vidi pendere, da rami scheletriti
e i resti delle crapule imbandite
su stuoie di macachi scotennati
catriossi di spolpata cacciagione
disseminata in croste di pattume
tra nodi di midolli pineali
disciolti dentro stormi di riflessi
e ciuffi dentro bulbi dilavati
e viscioli di villi e condilomi
sfinteri, duri anelli e polpi ricci
vesciche purulente, gialle piaghe
in volti liquefatti ed ustionati
di stolta maldicenza ottuse voci
le fole vagabonde senza autore
a friggere daccanto le scintille
barlumi fuggitivi e grandi luci
di croci nere sagome lontane
e visi, tanti visi senza tratti
i nasi consumati dal dolore
esausto nel suo riso evaporato
ai franchi prigionieri del silenzio
l’ecclèsia degli aventi in dissipare
ricchi di vuoto, di solennità
ghignare i loro ammicchi verso il cielo
da celle di costretta opacità;
e scivolanti anguille fatte a fiume
sciamare senza fine, a mille a mille
ali d’angeli con la zampa storta
dimenarsi nel bitume dei pasticci
stillando dappertutto colaticci
di pece puzzolente e di lordume
e schiere di scorpioni ticchettanti
brucare le mucose rosse fuoco
le callide lussurie di baccanti
confitte nelle forre d’acqua morta

(Inedito)

 

Fabrizio Dall’Aglio

Nel tempo in cui il passato continuava

Vorrei dirti che sotto questo sole
son già passate le generazioni.
Ascolta. Un passo, un asso, e nel rumore
di piedi che ricoprono la terra
c’è il lento genocidio della specie.
Gente. Persone. Qualcuna si è affrettata
nel tempo in cui il passato continuava
a passare. Qualcuna è già sparita.
Cosa conviene fare. Ascolta.
Fra un anno, forse, vedi,
saremo ancora insieme ad annaffiare
questa sabbia spettrale,
questa oasi imbandita di pianto.
Non siamo nati per questo.
Ma ora è solo un battito di sangue
nelle vene, un testo di stagioni trasferite
in piazze gremite di gente
a chiacchierare
o in lambrette curve
su strade di montagna
verso il mare.
La nostra storia.
Era un paese, era la sua luce
dischiusa dagli elementi abbandonati;
un’euforia di soldati smessi
nell’unica memoria che rimane.

(da Colori e altri colori Passigli 2014)

roma donna gioco della palla

pittura parietale romana

 

Nazario Pardini

Nel regno delle Eumenidi
(fra mito e poesia)

Avvenne proprio là. Nel punto in cui
scorre il diletto fiume, verdeggiante
nelle acque che rispecchiano le acacie
rigonfie e le betulle; quasi al termine
del suo fluire dove l’onda stenta
respinta dal libeccio; sulla sponda
rivolta alla marina, ormai matura,
mi apparvero dal volto minaccioso
tre fanciulle severe. Svolazzavano
sopra le loro forme le ampie vesti
sanguigne che cangiavano ora in nero
ora in bianco. Furiose e pien di sdegno
con un unico suono a me si volsero
stridente ed infernale: “Erinni siamo
o, se ti aggrada, Nemesie; lo vedi
dall’abito di pece del momento.
Ci fu madre la notte e genitore
Acheronte che in animo portiamo
rigonfio di uccisione e di indicibile
rancore. Se placate, diventiamo
l’eburnee Eumenidi. Guardaci bene!
Restiamo sopra te sospese in aria
con le materne ali. E ci vantiamo
che serpi attorcigliate sopra il capo
rimpiazzino i bei crini. Illuminate
da fiaccole splendenti
ancor di più risaltano d’orrore.

Gli dèi ci destinarono al castigo
degli uomini in vita coi flagelli
della celeste collera. A turbare
i loro sonni. Li perseguitiamo
con paurosi rimorsi e dilanianti
visioni. Perché soffrano di già
del tartaro gli eterni patimenti.
A noi, temute, omaggi singolari
furono offerti e tanto fu pauroso
il rispetto che nessuno si arrischiava
a nominarci o a porgere lo sguardo
ai nostri templi. Solo sia d’esempio
d’Oreste il gesto. Alzò in fondo all’Arcadia
un’ara per cercare di placare
i nostri tetri intenti. Di narcisi
e zafferano incoronò le nostre
statue; di frutta le cosparse e miele;
una pecora nera ci immolò
e consumò il suo corpo sopra un rogo
di cipresso, ginepro e biancospino.
Fu allora che commosse dai rimorsi
gli comparimmo con le vesti bianche.
Ci eresse un nuovo altare. Incoronò
noi Eumenidi di olivo e in sacrificio
due tortorelle ed una libagione
d’acqua di fonte in vasi con i manici
fasciati in pelle ovina. Proprio là
pretendevano i ministri il sacro vero”.

Intanto il sole deponeva in fondo
all’orizzonte i tiepidi languori
di sopore serale. Sopra il chiaro,
nel punto in cui il mio fiume ormai si annulla
nell’insaziabile gorgo dei pelaghi,
giacevano rosate d’occidente
animelle e poiane. Dalle sghembe
forcelle dei pinastri lacrimava
il pianto delle scorze ricamate
dei queruli richiami dei colimbi.

Sembrava l’astro, nella sua metà
roventata di luce porporina,
volesse richiamare l’attenzione
delle ferali Erinni. Dai loro
occhi sanguinolenti trasparivano
tutti i martìri umani: di Megèra
l’insaziabile invidia; il desiderio
più sfrenato di morte, di vendetta,
di uccisione da quelli di Tisifone;
mentre Aletto traspariva tutte quante
le nostre altre mestizie: solitudine,
spleen, tradimenti, indicibili affanni
dei poveri mortali. Mi sembrava
di essere il solo umano sulla terra
ad espiare i rimorsi. Mi rinchiusi
in un terrore infernale; era un sogno,
certo! oppure vivevo le invenzioni
che avevo immaginate più volte ai
limiti estremi della fantasia.
Si trasformava forse il quotidiano
in onirico irreale
e realtà in sua vece si faceva
l’universo pensato nei miei sogni?
Ma in quel momento vidi farsi verdi
i loro occhi profondi. Come il mare
nell’imo più lontano o come i bronzi
sottratti dopo secoli ai fondali
vidi farsi i loro occhi. Sulle teste
divennero le serpi rami fini
di fulve fioriture e poi capelli
fluenti come i grani dei declivi.
Le braccia glauche come i fondi cieli
opposti ad occidente. I seni ansiosi
si fecero rosati come dita
di un ultimo barlume trasparente
sulle sete nivali. Mi rapirono
le femmine vogliose e sensuali,
benevole oramai. Respiravo
tra i loro afflati e i crini di lavanda
l’aria del maestrale. Mi svanivo
gradatamente nei riflessi pallidi
dell’ultimo settembre. Quale pace
nel lieto regno! Essenza di trasvoli
di suoni, di silenzi, di dolcezze,
di estremi amori il regno delle Eumenidi.

Venere statua

Venere callipigia statua

 

Anonimo

Poema dell’altrove

Fummo nella dimenticanza di noi stessi eterni. Una lontananza incalcolabile definì la percezione dello spazio. L’inganno futuro non parve più inaccessibile.
La Ragione e la Musa scelsero templi dalle soglie ardenti. Ne delimitarono lo spazio oracolare.
Avvenne il trionfo, nonostante i divieti. Nel cerchio purissimo, nel punto glorioso, l’io e l’eternità dialogarono a lungo.

Scena della vestizione

Eleusi mi addestrò alla morte.
Non fu necessario giungere, piuttosto liberarsi e semplicemente essere.
Mi concesse la dea una vestale esperta di misteri.
Dimenticare. E vedere, udire unicamente il tutto.
È come sfilarsi una collana – disse –
e mi tolse anelli bracciali e corpetto.
Non più indefinita e inquieta la suprema dimora.
Ma la veste invasata di vita sulla pelle tessuta e cucita
non fu dato strapparla.
La libertà, in tutta la sua ampiezza, violava l’involucro della carne.
Incollerita mi cacciò dall’Ade.
E me ne andai come da una festa
sfilandomi adagio la collana.
La stillante tenerezza vide la sua pietà inondare il corpo delle cose.

 

Nato nel 1971 a Roma, dove si è laureato in Lettere moderne,  Marco Onofrio è autore di poesia, narrativa, saggistica e critica letteraria.  Per la poesia ha pubblicato 9 dei 21 volumi complessivi, tra cui Autologia (2005), D’istruzioni (2006), Emporium. Poemetto di civile indignazione (2008), La presenza di Giano (con Raffaello Utzeri, 2010), Disfunzioni (2011), Ora è altrove (2013). Ha pubblicato poesie in numerosi volumi antologici. Ha conseguito premi e riscontri critici a livello nazionale e internazionale, tra cui il “Montale”, il “Carver”, il “Pannunzio”, il “Farina”, il “Città di Torino”, il “Città di Sassari”. Web Site: www.marco-onofrio.it

 A fine 1991 Maria Rosaria Madonna (Palermo, 1942- Parigi, 2002) mi spedì il dattiloscritto contenente le poesie che sarebbero apparse l’anno seguente, il 1992, con il titolo Stige con la sigla editoriale Scettro del Re. Con Madonna intrattenni dei rapporti epistolari per via della sua collaborazione, se pur saltuaria, al quadrimestrale di letteratura Poiesis che avevo nel frattempo messo in piedi. Fu così che presentai Stige ad Amelia Rosselli che ne firmò la prefazione. Era una donna di straordinaria cultura, sapeva di teologia e di marxismo. Solitaria, non mi accennò mai nulla della sua vita privata, non aveva figli e non era mai stata sposata. Sempre scontenta delle proprie poesie, Madonna sottoporrà quelle a suo avviso non riuscite ad una meticolosa riscrittura e cancellazione in vista di una pubblicazione che comprendesse anche la non vasta sezione degli inediti. La prematura scomparsa della poetessa nel 2002 determinò un rinvio della pubblicazione in attesa di una idonea collocazione editoriale. È quindi con dodici anni di ritardo rispetto ai tempi preventivati che trova adesso la luce uno dei poeti di maggior talento del tardo Novecento. (nota di Giorgio Linguaglossa)

Nazario Pardini è nato ad Arena Metato (PI). Laureatosi prima in Letterature Comparate e successivamente in Storia e Filosofia all’Università di Pisa, è inserito in Antologie e Letterature: “Delos” (Autori contemporanei di fine secolo), edita da G. Laterza, Bari, 1997; Antologie Scolastiche “Poeti e Muse”, edite da Lineacultura, Milano, 1995, 1996; Antologie “Blu di Prussia”, E. Rebecchi Editore, Piacenza, 1997 e 1998; Antologia Poetica “Campana”, P. Celentano, A. Malinconico, e Bàrberi Squarotti, Pagine Editrice, Roma, 1999; G. Nocentini, “Storia della letteratura italiana del XX secolo”, a cura di S. Ramat, N. Bonifazi, G. Luti, Edizioni Helicon, Arezzo, 1999; “Dizionario degli autori italiani contemporanei”, Guido Miano Editore, Milano, 2001; “Dizionario degli autori italiani del secondo novecento”, a cura di Ferruccio Ulivi, Neuro Bonifazi, Lia Bronzi, Edizioni Helicon, Arezzo, 2002; “L’amore, la guerra”, a cura di Aldo Forbice, Rai – Eri, Radio Televisione Italiana, Roma, 2004. È fondatore del blog “Alla volta di Lèucade” (nazariopardini.blogspot.com). Il 9 maggio 2013 gli è stata conferita la Laurea Apollinaris Poetica dalla Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università Salesiana Pontificia di Roma. Ha pubblicato 26 opere fra poesia, narrativa e saggistica, ultima: Lettura di testi di autori contemporanei, The Writer Edizioni, Milano, pagg. 776.

Fabrizio Dall’Aglio è nato nel 1955 a Reggio Emilia. Vive tra Reggio Emilia e Firenze, impegnato in attività di carattere editoriale e librario. Ha pubblicato: Quaderno per Caterina. Poesie e brevi prose 1975-1980 (Reggio Emilia, Libreria Antiquaria Prandi, 1984); Versi del fronte immaginario, 1982-1983 (Reggio Emilia, Libreria Antiquaria Prandi, 1987); Hic et nunc. Poesie 1985-1998 (Firenze, Passigli, 1999); La strage e altre poesie. Resti di cronaca, 1975-1982 (Valverde, Il Girasole, 2004); L’altra luna. Poesie 2000-2006 (Firenze, Passigli, 2006); Colori e altri colori Passigli, 2014.

Giorgio Linguaglossa è nato a Istanbul nel 1949 e vive e Roma. Nel 1992 pubblica Uccelli e nel 2000 Paradiso. Ha tradotto poeti inglesi, francesi e tedeschi. Nel 1993 fonda il quadrimestrale di letteratura «Poiesis» che dal 1997 dirigerà fino al 2005. Nel 1995 firma, Giuseppe Pedota, Lisa Stace, Maria Rosaria Madonna e Giorgia Stecher il «Manifesto della Nuova Poesia Metafisica», pubblicato sul n. 7 di «Poiesis». È del 2002 Appunti Critici – La poesia italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte. Nel 2005 pubblica il romanzo breve Ventiquattro tamponamenti prima di andare in ufficio. Nel 2006 pubblica la raccolta di poesia La Belligeranza del Tramonto.
Nel 2007 pubblica Il minimalismo, ovvero il tentato omicidio della poesia in «Atti del Convegno: È morto il Novecento? Rileggiamo un secolo», Passigli, Firenze. Nel 2010 escono La Nuova Poesia Modernista Italiana (1980 – 2010) EdiLet, Roma, e il romanzo Ponzio PilatoMimesis, Milano Nel 2011, sempre per le edizioni EdiLet di Roma pubblica il saggio Dalla lirica al discorso poetico. Storia della Poesia italiana 1945 – 2010. Nel 2013 escono il libro di poesia Blumenbilder (natura morta con fiori), Passigli, Firenze, e il saggio critico Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea (2000 – 2013), Società Editrice Fiorentina, Firenze. Ha fondato il blog lombradelleparole.wordpress.com e-mail: glinguaglossa@gmail.com

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13 risposte a “POESIE di Maria Rosaria Madonna “Gli angeli sono come gli uccellini”, Giorgio Linguaglossa “Carnevale delle ombre“, Marco Onofrio “Stige”, Fabrizio Dall’Aglio “Nel tempo in cui il passato continuava”, Nazario Pardini “Nel regno delle Eumenidi”, Anonimo “Poema dell’altrove”, SUL  TEMA DELL’ISOLA DEI MORTI di Böcklin (STIGE o ACHERONTE)

  1. antonio sagredo

    Degni di nota sono sia le composizioni che gli autori rispettivi. I temi proposti si prestano assai bene a riflessioni di natura privata, personale che pubblica poi che la Morte priva della Vita non ha senso: il contrario ha la medesima valenza. Non so chi di Voi sia più o meno – più – profondo o più alto…. certo è che, ripeto, i temi sono mortali fin da quando l’uomo ha cominciato a ragionare prima e di più sulla Morte che sulla Vita, che non è vero che sia l’inizio o la fine di qualcosa. E tra la Vita e la Morte ci si mette in mezzo e di traverso la Menzogna (Madonna): fatta carne di parola o parola fatta carne. Qui è il mondo dell’indistinto più che una resurrezione! – E poi (Linguaglossa) qui il tema della soglia e dell’ombra e della maschera: punti e termini e inizi centrali che non confortano l’uomo, poi che si presentano di facili e “bianche” costumanze per prenderci in un vortice carnevalesco di cui non sappiamo se trucco o reali movenze… di biacca più che nerastre! – Onofrio-Dante debutta e ci avvisa con moltitudini di poltiglie umane-inumane, che no sai dove il centro, non sai l’inizio e la fine e non sai se hanno un principio o una legge a cui più che appellarsi, cercano di artigliarsi! Lo Stige è più aggrovigliato di un volto arcimboldesco… se noi distinguiamo i vegetali è perché a fatica distinguiamo le singole parti facciali… qui, NO!: è tutto indistinguibile poi che la frattaglia ignominiosa domina e regna in un caos armato di patologico disordine, e non sai quale morbo “ammorba”… cosa? : un non so cosa sia! – Del > Dall’Aglio che dice di stermini – e io m’intendo! – in pochi versi… ma già si intende che la destinazione è la fine che non potremo evitare. – Nel Pardini invece si ripetono antiche historie di figure tragiche succube dei loro destini assegnati da dei banali infine… banalità divina è quella che assegna destini acerbi a chi li vorrebbe felici… Eumenidi che a furia di lamenti smarriscono la loro stessa valenza, proprio loro che sono più vive di chi li domina… sono lamenti di rimorso che a loro sono stati assegnati e che impotenti accettano la propria metamorfosi in un regno a cui non vollero mai appartenere! – L’Anonimo risolve il proprio stato e segna una liberazione a suo favore che cancella i precedenti versi letti da me con angustia dissacrante… l’accidia di lagune (parte di un mio verso legionario!) non c’è più… si va diritti verso lo scioglimento (ben posti alla fine questi versi) e altro non ho potuto desiderare da questa lettura se non di terminarla al più presto, e infatti….:
    E me ne andai come da una festa
    sfilandomi adagio la collana.
    (che ricorda davvero un mio antico verso!)
    Ma altro c’è che mi tormentava… che il quadro l’Isola dei Morti ( di cui già scrissi in questo blog) piaceva a Lenin, a Hitler, a Freud… e che Majakovskij vi vedeva lo squallore grasso e viscido della classe borghese
    in disfacimento, senza riflettere che questo stato è quello che la fa vivere ancora!!
    Antonio Sagredo

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  2. Io penso molto semplicemente che, prima o poi, un poeta degno di questo nome si debba confrontare con il tema della Morte. Rispondere alla domanda: “Che cos’è la morte” ci aiuta a risolvere e a rispondere a quell’altra domanda: “Che cos’è la vita”. Io penso che un lettore intelligente voglia sapere da un poeta queste cose, voglia sentirle dire dalla sua voce, altrimenti è bene che vada a farsi benedire. A ciascuno le sue responsabilità: al poeta di dire qualcosa e al lettore di valutarla, verificare se quanto detto lo illumina o lo aiuta a capire il senso della vita e della morte. E mi sembra che tutti i poeti qui presenti, più o meno oscuramente, tentino, con i loro mezzi, di rispondere a questo quesito.
    Il poeta (e la poesia) credo debba porre la domanda e tentare una risposta. In questa oscillazione tra i due poli si consuma la validità della poesia, se la poesia debba essere dimenticata o letta e riletta, di quando in quando…

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  3. Il quadro mi ha sempre colpito perché sembra la vetta di un monte altissimo coperto da un mare scuro, quasi extraterrestre con un livello di decine di chilometri. Vera rappresentazione dell’abisso, che non è necessariamente morte, quanto un violento perdersi e perdere in questo ogni connotazione propria. Il bello di queste immagini oniriche è che possono rappresentare tutto e il contrario di tutto. la dice lunga il fatto che abbia affascinato personaggi diametralmente opposti, quali Dalì, Hitler, Freud.
    Trovo particolarmente centrata la scelta del bellissimo brano di Fabrizio Dall’Aglio, eccellente poeta a giudicare da questi versi e che non conoscevo

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  4. Ho trovato delicato e suggestivo il testo di Maria Rosaria Madonna e quello di Giorgio Linguaglossa, capace di affascinare il lettore. Il tema della morte
    “è” della poesia, nella poesia non è dato di parlare solo della bellezza della natura o dell’amore, la morte è un argomento in cui un autentico poeta deve prima o poi misurarsi. Purtroppo l’orrore è diventato quotidianità e spesso si fugge nel desiderio della vita.
    Spesso nel dolore subentra il silenzio, in cui anche la poesia china la testa.
    Lidia Are Caverni

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  5. antonio sagredo

    i tre commenti che seguono al mio sono non li “comprendo”… spero che almeno i poeti pubblicati mi diano una risposta… qualsiasi …
    attendo…

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  6. caro Antonio Sagredo,

    forse sarà più chiaro se lascio la parola direttamente a Paul Valéry:

    Scrive Valéry: «Si potrebbe – e forse lo si dovrebbe – assegnare come unico oggetto alla filosofia quello di porre e di precisare i problemi, senza preoccuparsi di risolverli. Si tratterebbe allora di una scienza degli enunciati, e dunque di una purificazione delle domande». «Una riflessione semplicissima ci fa pensare che la Letteratura è e non può essere altro che una specie di estensione e di applicazione di certe proprietà del linguaggio. Essa utilizza per esempio ai propri fini le proprietà foniche e le possibilità ritmiche del parlare, che sono trascurate nel discorso comune […] È questo il mondo delle “figure”, di cui si preoccupava l’antica Retorica […] La formazione delle figure è indivisibile da quella dello stesso linguaggio, in cui tutte le parole “astratte” sono ottenute tramite qualche dilatazione d’uso o trasferimento di significato, seguito da un oblio del senso primiero. Il poeta che moltiplica le figure non fa dunque che ritrovare in se stesso il linguaggio allo stato nascente […] La Poetica si proporrebbe non tanto di risolvere i problemi quanto di enunciarli. Il suo insegnamento non sarebbe separato dalla ricerca stessa… dovrebbe essere trattato e mantenuto in uno spirito di massima generalità… quest’ultima considerazione conduce… a un’importante distinzione: quella delle opere che sono come create dal loro pubblico (di cui rispondono all’attesa e sono perciò quasi determinate dalla sua conoscenza) e delle opere che, invece, tendono a creare il loro pubblico». (qui pp. 380-381)

    «Una poesia su un foglio di carta non è che uno scritto, sottoposto a tutto quel che si può fare di uno scritto. Ma fra le sue varie possibilità, ce n’è una, e una soltanto, che pone infine quel testo nelle condizioni in cui prenderà forza e forma d’azione. Una poesia è un discorso che esige e che provoca un legame continuo fra la voce che è e la voce che viene e che deve venire. E questa voce deve essere tale da imporsi, e da stimolare lo stato emotivo di cui il testo sia l’unica espressione verbale. Togliete la voce, e la voce che occorre, e tutto diventa arbitrario. La poesia diviene una serie di segni legati l’uno all’altro solo dal fatto di essere stati materialmente tracciati uno dopo l’altro. (qui p. 394) «Anche nella testa più solida la contraddizione è la norma; la consequenzialità è l’eccezione […] Ma ecco una circostanza stupefacente: tale dispersione, sempre imminente, importa e concorre alla produzione dell’opera quasi quanto la stessa concentrazione». (qui 396) «L’opera d’arte è un’opera in sé inutile, in rapporto al senso preciso di utilità: è una categoria completamente a parte». (qui p. 416) «Una poesia deve essere una festa dell’intelletto».

    (dal post su Valéry inserito stamane)

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    • Condivido le parole di Valéry.

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    • La poesia di Maria Rosaria Madonna pone la poiesis più in alto della possibilità, anzi, essa è il punto più alto con cui si dà la possibilità di fronte alla realtà. In questa accezione, la poiesis è quella che salva la vita al giovane tenente italiano che recita il primo canto dell’Inferno ad un ufficiale della Wehrmacht (degno di nota è sapere che si tratta di un fatto realmente accaduto).
      Dunque, Madonna, contrariamente a tutte le poetiche riduzioniste e minimaliste del tardo novecento che accreditano all’arte una funzione inutile e imbelle, rivaluta la funzione e il posto dell’arte rivendicando il suo sommo potere di salvare la vita degli uomini.
      Fine degli uomini, per Madonna, è il pensiero della poiesis, la sola che può riscattare la vita dalla morte.

      Se il «fine dell’uomo è il pensiero dell’essere, l’uomo è fine del pensiero dell’essere, fine dell’uomo è fine del pensiero dell’essere», come dice Heidegger, sicché, in definitiva, il fine ontologico dell’uomo costituirebbe la sua fine, con questa deduzione è però ignorato il fatto che, come appare evidente sin da Sein und Zeit, ove la possibilità dell’esistenza autentica si riveli solo nell’anticipazione della propria morte, la “potenzialità” d’essere dell’uomo non può che proiettarsi in una negatività totale. Nel diventare autentica l’esistenza dell’uomo non si approprierebbe di nulla. Essa permarrebbe nel campo della possibilità, la quale si rivela essere, per Heidegger, «la maniera più originaria e fondamentale di caratterizzare ontologicamente» la realtà umana. Appare dunque evidente che, stabilito quale carattere dell’autenticità il possibile, l’esistenza autentica non può ascriversi ad alcuna struttura teleologica.

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  7. Sul dipinto “L’Isola dei morti” di Böcklin
    :
    In “Di Questo”, di Majakovskij, il quadro appare nella poesia “L’insolito” in cui funge da rappresentazione simbolica di Mosca.
    Salvador Dalí, nel 1932, dipinse “La vera immagine dell’Isola dei Morti di Arnold Böcklin all’ora dell’angelus”.
    August Strindberg, nel 1907, ha composto “La sonata degli spettri”, che termina con l’immagine dell’isola dei morti.
    Sergej Rachmaninov, nel 1909, compose un poema sinfonico con lo stesso titolo del dipinto.
    Nella novella del 1952 di Friedrich Dürrenmatt “Der Richter und sein Henker” (Il giudice e il suo boia) il dipinto è citato come un presagio di sventura.
    Gabriele D’Annunzio apprezzava questo dipinto . V. Nabokov lo pose in un suo racconto.
    A me piace molto (le prime tre versioni)

    Giorgina Busca Gernetti

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  8. caro Antonio Sagredo,

    una precisazione.

    complimenti a Giorgina Busca Gernetti per la sua erudizione, insomma, stiamo in buona compagnia, almeno sul giudizio sul quadro di Bocklin.

    Mi devo scusare con i lettori del blog e con l’Autore della bellissima ultima poesia dell’Anonimo, infatti, per una mia svista, ricevetti questa poesia da qualcuno sulla mia email ma, non avendola salvata con il nome dell’autore, mi è rimasta anonima. Ho creduto doveroso pubblicarla perché (confortato anche dal giudizio positivo di Sagredo che di solito è severissimo) mi sembrava di alto livello estetico.

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  9. Giuseppina Di Leo

    Penso che Valéry centri l’obiettivo quando si rifiuta di attribuire all’oggetto artistico un valore assimilabile a quello di utilità. Non c’entra niente, dice, la poesia è un’altra cosa. Il poeta deve puntare invece proprio su quella “festa dell’intelletto” se si vuole uscire da certi stereotipi di categoria.
    E su questo trovo che le poesie proposte dicano qualcosa che va oltre un discorso preconfezionato o standard, offrendo, pur su un argomento difficile come la morte, differenti spunti di riflessione; passando dall’asprezza sapiente di Madonna, fino, arrivando in ultimo, al Poema dell’altrove, e naturalmente non dimenticando la fantasmagoria di Linguaglossa, il ritmo forsennato di Onofrio, la poesia problematica di Dall’Aglio e la quieta allegoria di Pardini.
    Tra tutte la mia preferita è quella di Marco Onofrio, per quella forza centrifuga che annette alla parola , disconnettendo nel contempo, senso e un voluto non-sense.

    E sulla difficoltà ad esprimere il senso sulla morte, trascrivo una poesia dedicata al caro Gianmario Lucini:

    Caro Gianmario,
    Lettere come questa sembrano inutili.
    Molte delle cose che si pensano lo sono.
    Servono ancora le parole? E le poesie
    hanno senso? Dico uno che ci guidi
    nel comprendere. E le sensazioni
    sono alla stregua delle parole?
    Si dileguano anch’esse
    se rimangono in noi, oggi
    restano come in chi non sa
    profferire. L’andare incostante
    rende ancor più incerto
    per noi il cercare. Provare
    e riprovare a sciogliere
    il dubbio estremo per evitare
    che la ragione si perda ancora
    nel bosco. Tutta la vita nelle mani
    dirai, serve a riconciliare
    il fine con il mezzo come il filo
    conduce all’aspo, né mai
    l’uomo potrebbe indovinare
    il giorno che lo lascia. Mi dirai
    quanto ogni cosa sia unita all’altra
    e tuttavia di non poter provare
    nella regione degli specchi
    la ragione divisa in tanti “sono”.
    Mi dirai anche delle parole
    che sono sale, da usare
    al modo giusto, talvolta
    con parsimonia.
    Le strade si dividono ci sembra
    se già sussurri di «sì»
    ma fino a che non vediamo
    fino a che evitiamo di guardare
    oltre vi è un abbraccio
    una sera di tante sere.
    30 ott. 014 – h.: 18,40

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