POESIE di DVORA AMIR (1948) poetessa israeliana a cura di Steven Grieco, Prima traduzione in italiano

Il muro di Gerusalemme

Il muro di Gerusalemme

 Presento qui una poetessa che il lettore italiano forse non conosce. Persona comunque schiva, da quanto è dato capire, Dvora Amir ha pubblicato libri di poesia, fra cui Slow Fire, 1995, insignito del premio letterario israeliano Kugel, e Documentary Poems, 2003, vincitore del Prime Minister’s Award.

Come il lettore ha capito, mi sono permesso di fare una traduzione di una traduzione (ebraico-inglese-italiano), pensando soprattutto allo spessore umano di queste poesie, e che difficilmente il lettore le troverà già in versione italiana. Non c’è bisogno di un mio intervento, le poesie parlano da sole, o meglio “si scrivono da sole”. Posso solo dire che nel lavorarci sopra, non ho incontrato quasi nessuna asperità linguistica, e questo mi fa pensare a quella che deve essere la limpidezza originaria dello stile, la poetessa non ha bisogno di pirotecniche o virtuosismi per delineare le sue parole semplici ma forti.

(Steven Grieco)

Dvora Amir 5Di seguito un commento di Rami Saari sulla poetessa:

Dvora Amir è nata a Gerusalemme nel 1948, durante la Guerra d’Indipendenza. I suoi genitori giunsero in Israele dalla Polonia. [..] Nel 1967, dopo la Guerra dei Sei Giorni, studiò letteratura ebraica, filosofia ebraica e Kabbala alla Hebrew University di Gerusalemme. Nel 1975-76 studiò letteratura inglese alla University of Illinois. Attualmente lavora al Centre for Educational Technology di Tel Aviv, dove scrive programmi di formazione linguistica e letteraria.

Come dice Dvora Amir di se stessa, “è difficile descrivere le (mie) poesie. Si scrivono da sole, e sono semplici, spero.” Tuttavia, anche se lei privilegia  “il contenuto soprattutto,” le sue poesie rivelano una maestria, un immaginario in cui si intrecciano passato e presente. Talvolta le sue poesie sono come “sussurri contro l’oblio,” un modo per “lenire il dolore della separazione.” Spesso la poetessa si concentra sulle persone amate che non ci sono più; raccoglie particolari precisi e molto personali, e così fa rivivere il mondo scomparso di sua madre e dell’immigrazione Russo-Polacca in Israele. Ogni poesia è un interrogativo, un organismo esaminante, un corpo umano vivo che soffre stupito la vita e le privazioni.

© RAMI SAARI

Le prime quattro poesie e il commento di Rami Saari sono tratte da “Poetry International Rotterdam”, la quinta da “MPT, Modern Poetry in Translation”.

Dvora Amir

Dvora Amir

GEOGRAPHY LESSON

What creates poetry, you ask
and I, like the coal man in the Basque movie,
run to brace the tumbling stack of coal.
We’re talking about a lifesaving act, I say,
the courage to touch the heat collapsing.
“Beyond all this,” as Larkin wrote,
“the wish to be alone.”
This grinding land rests on my neck.
The knife, the dagger, and the spear
have been contaminated since the day people thought to produce them.
We walk about like those who have lost their minds,
drumming our exposed chests in crazy ceremonies.
The poems, I promise you, haven’t experimented on animals.
Everything is done carefully and strictly, created humanely,
after all, we’re talking about human beings.
The head of a Palestinian woman bandaged in white cotton lies on a platter
like the head of the Baptist presented to Salome.
In the land of vengeance dripping mother’s milk and blood
poems are moveable property –
stones, ridges, houses, fences.

© Dvora Amir
From: Shirim doqumentariyim (Documentary Poems)
Publisher: Ha-kibbutz Ha-meuchad, Tel Aviv, 2003

© Translation: 2004, Lisa Katz

Translator’s Note: “The knife, the dagger, and the spear/ have been contaminated…”: Here the poem challenges a line of rabbinical text which defines the purity or impurity of metal tools.

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LEZIONE DI GEOGRAFIA

Cosa crea la poesia, mi chiedi
e io, come il carbonaio nel film basco
corro ad abbracciare la pila di carbone che vien giù.
Stiamo parlando di un atto che salva la vita, dico,
il coraggio di toccare il calore che collassa.
“Oltre tutto ciò,” come scrisse Larkin,
“il desiderio di stare soli.”
Questa terra lacerata mi pesa sul collo.
Il coltello, il pugnale, e la lancia
sono contaminati* dal giorno in cui la gente pensò di produrli.
Noi andiamo in giro come quelli che hanno perso il senno,
tamburellando sui nostri petti esposti in folli cerimonie.
Le poesie, ti prometto, non sono state sperimentate su animali.
Tutto viene fatto con attenzione e severità, creato umanamente,
in fondo, stiamo parlando di esseri umani.
La testa di una donna palestinese bendata di cotone bianco sta su un vassoio
come la testa del Battista presentato a Salomé.
Nella terra della vendetta, che goccia latte e sangue di madre
le poesie sono beni mobili –
pietre, crinali, case, recinti.

* Nota della traduttrice inglese: “Il coltello, il pugnale e la lancia / sono contaminati…” in questo punto la poesia contesta un passo di un testo rabbinico che definisce la purezza o meno degli arnesi metallici.

esercito israeliano in azione di guerra

esercito israeliano in azione di guerra

HOW MANY WINDOWS DOES A PERSON NEED

How many windows does a person need to open himself,
so he won’t be like Captain Nemo, trapped in the webs of length
and width coordinates
hunted by his world. Among navigation instruments, “moving
within the moveable base,”
closed in, as if saying let the world come through my porthole,
let it accustom itself to me.
And on his eyes he put patches made of glass to keep tears
from pouring to the light.
He too needed several windows to save his life.
A tiny slit, a teeny gate to look through, and from the inside out.
Like Jonah in the belly of the whale, in the closing darkness
he saw a sparkling pearl,
pressed up against the fish’s pupil like an old man to the
keyhole in his door.
He saw flowing water moving towards him, and knew: the fish as well as the various creatures of the sea
like him live their lives in a trap,
and he heard his mouth tell his ears, I am alive.

© Dvora Amir
From: Be’ira itit (Slow Burning)
Publisher: Ha-kibbutz Ha-meuchad, Tel Aviv, 1994

© Translation: 1991, Linda Zisquit
From: Modern Hebrew Literature No. 6
Publisher: Institute for the Translation of Hebrew Literature, Ramat Gan, 1991

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DI QUANTE FINESTRE HA BISOGNO UNA PERSONA

Di quante finestre ha bisogno una persona per aprirsi,
perché non sia un Capitan Nemo, imprigionato nelle trame
delle coordinate in lungo e in largo
braccato dal suo mondo. Fra gli strumenti di navigazione, “muovendosi
entro la base movibile,”
chiuso all’interno, come se dicesse, sia il mondo a penetrare dal mio oblò,
sia lui ad abituarsi a me.
E sugli occhi mise toppe di vetro perché le lacrime
non colassero alla luce.
Anche lui ebbe bisogno di diverse finestre per salvare la propria vita.
Una sottile fessura, un cancellino attraverso cui guardare, e dall’interno verso fuori.
Come Giona nella pancia della balena, nell’oscurità crescente
vide una perla splendente,
premuta contro la pupilla del pesce come un vecchio al
buco della serratura del suo uscio.
Vide le acque ondeggiargli incontro, e seppe: il pesce, e le diverse
creature del mare
vivono come lui le loro vite in una trappola,
e sentì la sua bocca dire alle sue orecchie: sono vivo.

Dvora Amir

Dvora Amir

UNDER THE SUN

When Auden wrote about Icarus
He looked at Brueghel’s painting in a framed museum haze.
He did not expose his pupils to the direct glow of light,
and did not open his nostrils to the odor of sage,
and did not undress his body to the touch of a ray that drugs every feeling
that which melts and drips like wax.

And now for the young boy who falls from the sky.

I was there, in Crete, and saw it myself
and like the peasant I continued to plow
and like the very elegant boat I embarked further on my way
and like the olive I stood
and like the small river I flowed
and like the rock I hardened my heart and didn’t pay
attention to his suffering
and I also said, “a person can’t find – which means understand –
what is done under the sun.”

Crete, Fall 1988

© Dvora Amir
From: Be’ira itit (Slow Burning)
Publisher: Ha-kibbutz Ha-meuchad, Tel Aviv, 1994

© Translation: 1991, Linda Zisquit
From: Modern Hebrew Literature No. 6
Publisher: Institute for the Translation of Hebrew Literature, Ramat Gan, 1991

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SOTTO IL SOLE

Quando scrisse di Icaro, Auden
guardò il quadro di Brueghel nella cornice di un museo ovattato.
Non espose le pupille allo splendore diretto della luce,
non aprì le narici all’odore di salvia,
non si denudò il corpo al tocco di un raggio che inebria ogni sensazione
ciò che si scioglie e sgocciola come la cera.

E ora veniamo al giovane che cade dal cielo.

Io ero lì, a Creta, e vidi cosa successe,
e come il contadino seguitai ad arare,
e come la barca tanto elegante proseguii per la mia strada
e come l’olivo stetti
e come il piccolo fiume scorrevo
e come la pietra indurii il mio cuore e non
badai al suo tormento
e dissi inoltre, “una persona non può trovare (ovvero, comprendere)
ciò che si fa sotto il sole.”

Creta, autunno 1988

La poesia di W. H. Auden a cui si riferisce la poetessa israeliana è Musée de Beaux Arts. È stata tradotta da Nicola Gardini nel volume, Un altro tempo. Adelphi, Milano 1997. Si può trovare la poesia riprodotta su questo blog.

 

WHAT SINKS IN

Every photo in your album has women workers crowded
so close together their temples touch each other,
staring straight ahead, as the photographer wanted.
You in the corner, kneeling, sorting sugar beets,
as if refusing to take part in the proletarian pose.

The day I looked gently at your beautiful legs, I discovered teeth marks
on your calf. That’s how a child discovers by chance a scrap
of her parent’s torment. All the years you walked around this country –
a world foreign to me was driven into your legs, a forbidden garden,
as it were, a cruel landlord, watch dogs, a girl attacked.
And once in George Eliot Lane, close to the Sisters of Zion convent,
I was overwhelmed by fear they’d drag me in, put me in orphan’s clothes,
lock me in a cellar soaked in the odor of crucifixes, and from the folds
of a monk’s black robe, Satan’s dogs would bite me.

© Dvora Amir
From: Be’ira itit (Slow Burning)
Publisher: Ha-kibbutz Ha-meuchad, Tel Aviv, 1994

© Translation: Translated by Shirley Kaufman
From: The Defiant Muse
Publisher: The Feminist Press, New York, 1999, 1-55861-223-8

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COSA RIMANE IMPRESSO

Ogni foto nel tuo album mostra donne operaie pressate
così vicine le une alle altre che le loro tempie si toccano,
lo sguardo fisso in avanti, così come il fotografo voleva.
Tu in un angolo, inginocchiata, sceglievi barbabietole da zucchero,
come rifiutando di partecipare alla posa proletaria.

Il giorno che il mio sguardo si posò sulle tue bellissime gambe, scoprii segni di denti
sul polpaccio. E’ così che un figlio scopre per caso un brandello
del tormento del genitore. Tutti gli anni che girasti a piedi questo paese –
un mondo a me ignoto penetrò con la forza nelle tue gambe, un giardino proibito,
come dire, un proprietario crudele, cani da guardia, una ragazza aggredita.
E una volta in George Eliot Lane, vicino al convento delle Suore di Zion,
ebbi il terrore d’essere costretta a entrare là dentro, vestita con abiti da orfana,
rinchiusa in una cantina intrisa del tanfo di crocifissi, and da dietro le pieghe
di un nero saio di monaco, i cani di Satana che mi mordevano.

Dvora Amir

Dvora Amir

ON THE RIM OF ABU-TOR

On the rim of Abu-Tor an Arab boy is walking
across his roof. A schoolbook in his hand,
he goes sure-footed right up to the edge.
All around is quiet, houses anchored to the slope
like the ships of some giant.
A brown cow lazing on the path
could be a rusted scrap from a stolen car.
In front of the house a drainage stream gapes wide
moistens its throat as if waiting for its prey.
Why do his confident steps cast such terror upon me?
Something intimately foreign creeping
through me like the vine that weaves
entwined between our courtyards.
He walks, and I dare not take my eyes off him,
as if my gazing were bidden to protect his soul.
I tend to the flowers in my plot, I water them
but my heart is on watch for his every step
dangling like my life before my eyes.

(Abu-Tor is a mixed Jewish-Arab neighbourhood
on the south-eastern edge of Jerusalem)

© Translation: Jennie Feldman, Modern Poetry in Translation, Issue: Series 3 No.9 – Palestine. This poem was translated with the author.

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SUL CRINALE DI ABU-TOR

Sul crinale di Abut-Tor un ragazzo arabo cammina
sul suo tetto. Un libro di scuola in mano,
avanza con piede fermo fin sul ciglio.
Tutto intorno è quiete, le case ancorate al pendio
come le navi di un gigante.
Una mucca bruna che se ne sta pigra sul sentiero
potrebbe essere il rottame arrugginito di un’auto rubata.
Davanti alla casa un canale di spurgo si allarga a dismisura,
s’inumidisce la gola come aspettando la preda.
Perché i suoi passi sicuri mi danno così tanta angoscia?
Qualcosa di intimo-estraneo mi percorre furtivo
come la vite che tesse
e si intreccia fra i due nostri cortili.
Lui cammina, e io non oso distogliere gli occhi,
come se al mio sguardo fosse chiesto di proteggere la sua anima.
Curo le piante nel mio giardinetto, le annaffio
ma il mio cuore è attento ad ogni suo passo,
lui che penzola come la mia vita davanti a me.

(Abu-Tor è un quartiere misto ebreo-arabo a sud-est di Gerusalemme.)

La poesia, tradotta in inglese da Jennie Feldman e l’autrice, è apparsa in MPT Modern Poetry in Translation, Issue: Series 3 No.9 – Palestine. (La trovate anche sul sito internet di MPT)

Steven Grieco a Trieste giugno 2013

Steven Grieco a Trieste giugno 2013

Steven J. Grieco, nato in Svizzera nel 1949, poeta e traduttore. Scrive in inglese e in italiano. In passato ha prodotto vino e olio d’oliva nella campagna toscana, e coltivato piante aromatiche e officinali. Attualmente vive fra Roma e Jaipur (Rajasthan, India). In India pubblica dal 1980 poesie, prose e saggi.

È stato uno dei vincitori del 3rd Vladimir Devidé Haiku Competition, Osaka, Japan, 2013. Ha presentato sue traduzioni di Mirza Asadullah Ghalib all’Istituto di Cultura dell’Ambasciata Italiana a New Delhi, in seguito pubblicate. Questo lavoro costituisce il primo tentativo di presentare in Italia la poesia del grande poeta urdu in chiave meno filologica, più accessibile all’amante della cultura e della poesia.

Attualmente sta ultimando un decennale progetto di traduzione in lingua inglese e italiana di Heian waka. In termini di estetica e filosofia dell’arte, si riconosce nella corrente di pensiero che fa capo a Mani Kaul (1944-2011), regista della Nouvelle Vague indiana, al quale fu legato anche da una amicizia fraterna durata oltre 30 anni.

protokavi@gmail.com

8 commenti

Archiviato in antologia di poesia contemporanea

8 risposte a “POESIE di DVORA AMIR (1948) poetessa israeliana a cura di Steven Grieco, Prima traduzione in italiano

  1. antonio sagredo

    Mi è stato riferito che io non devo rispondere con i miei versi, che per me è lunica risposta che darei alla Dvora Amir. E allora non rispondo!

    • Giuseppe Panetta

      Antonio, ti ho già detto in privato cosa penso dell’inserimento delle tue poesie nei commenti a questo blog, del pericolo, e tu mi hai dato una risposta che comprendo e accetto.
      Però ad essere sincero a me piace più Sagredo intellettuale, tagliente, ironico, anche lapidario nei commenti, e leggere le Tue poesie nelle pagine a Te dedicate.
      Poi vedi tu, questa è la mia opinione.
      “How many windows does a person need to open himself…”

      G. Panetta

    • Ho il massimo rispetto per Sagredo e ammirazione per le sue poesie ma lo preferisco quando interviene con i suoi commenti argomentati che rivelano grande competenza e profondità

  2. Quello che più colpisce nelle poesie di Dvora Amir è l’ampia latitudine dei suoi versi dove non c’è mai alcun riferimento al proprio quotidiano perché tutto ciò che tocca la poesia di Dvora Amir è quotidiano, prodotto di fatticità, fattualità, dolore che si è indurito nella parola e nelle immagini. Anche quando parla della poesia di Auden sulla caduta di Icaro, anche quando accenna ai riferimenti atroci delle guerre che si sono succedute nel suo paese. Le sue riflessioni (giacché la poesia di Dvora Amir è tutta intessuta di riflessioni personali) derivano sempre dal tema preso in esame, sono riflessioni umili ed eterne, cioè consegnate al tempo e ai tempi a venire, tendono al futuro, vogliono uscire dalla gabbia del presente per approdare ad un mondo migliore che forse un giorno ci sarà.

  3. ambra simeone

    Interessantissima questa poetessa, sono d’accordo con l’analisi di Giorgio, ma se dovessi confrontarla con la poesia di Magrelli, direi che nella sua c’è questa propensione al futuro e verso l’altro, in quella di Magrelli c’è invece una chiusura, chiusura causata però da un’incomunicabilità di fondo segno di un’italianità che non piace, neppure allo stesso autore; per cui vedo il poeta Magrelli uno dei tanti simboli del suo tempo, della sua cultura, della sua società… e non potrebbe essere altrimenti!

  4. Valerio Gaio Pedini

    guarda, porto un trono, perché è un simbolo. Ambra oggi non è giornata. ho già visto suonare le trombette a quella vecchia giapponese. Sinceramente fatemelo qui tutti sono simboli…ma tra l’esserlo, e il dire di essere scrittori decenti, beh, c’è di mezzo un oceano di lava, che spero bruci un po’ di libri inutili.

  5. antonio sagredo

    più che bruciare i libri, sono i libri che dovrebbero bruciare… gli uomini, i poeti, insomma quello che capita specie quello che dice di avere un’anima!
    si dà il caso (il caso?) che anche i libri hanno un loro cerebro e che la pensano in maniera diversa da tutta l’umanità; si intendono forse meglio con gli animali – che non siano uomini, però – in tal modo il lavorio degli specchi ne sarebbe facilitato; p.e. lo specchio o il portale dei trionfi non sopporterebbe mai quel confronto – che se fosse banale sarebbe aristocratico! – che fa l’Ambra… l’ambra si sa è immortale alcova giusto per gli animali, non certo per quella coppia incapace di far versi, fa prosa insensata, pure! – giudicate voi se questo è un verso:

    “Lui cammina, e io non oso distogliere gli occhi”

    “Lui cammina”: che c’è di poetico in questo?
    “non oso distogliere gli occhi”: che c’è di poetico in questo?

    ma non poteva usare dei verbi diversi?
    come: “lui si traduce e io ho gli occhi crocefissi”
    notate come ci si eleva, si sta su un altro piano, si sta altrove,
    l’immagine che evoca ha qualcosa di straordinario: è poesia!
    (ma così è oscurità grida il critico sputo saccente!!!)

    a. s.

  6. Steven Grieco

    Sottolineo di nuovo che le mie versioni italiane di Dvora Amir devono solamente servire come aiuto a leggere le versioni inglesi… che sono già una tappa più in là rispetto all’ebraico. In questa mia operazione mi è stato di conforto sapere che l’alfabetizzazione inglese del popolo israeliano oggi, in particolare di coloro che sono attivi in ambito universitario e letterario, è altissima, e che da 70 anni esiste comunque in Israele un intenso scambio tra le due lingue. La continuità culturale da qualche parte c’è.
    A proposito della fortissima aderenza alla realtà nelle poesie di Dvora Amir: è una cosa che ammalia e riempie di stupore. Perché mentre questo suo tratto evidentemente fluisce e si purifica attraverso il realismo che il suo paese le insegna, esso in effetti origina da un luogo mentale profondissimo, un luogo onirico, oceanico, che pullula di immagini della storia del suo popolo, sia recente che più antica, Europa orientale e molto prima ancora, immagini che se anche arrivano ad affiorare nelle poesie che leggiamo qui, lo fanno in maniera understated, ma allo stesso tempo non hanno niente di “trasognato”. Insomma, grandissimo pudore.
    Da quel punto di transizione tra la memoria e l’oggi – come la transizione che lei opera in termini puramente umani e non-ideologici da “israeliano” a “palestinese” (che pure rimangono divisi) – la poetessa osserva in silenzio ciò che disumanizza l’uomo, e fa balenare ciò che potrebbe invece, per remota ipotesi, rendergli l’umanità. Di fronte a ciò, viene da piegare la testa.
    E proprio per questo, io penso, in componimenti come “How many windows does a person need” e “Lessons in Geography”, è difficile stabilire l’esatta differenza fra colui che dice e chi o cosa viene detto. Sembra talvolta che lo sguardo interno della poetessa si fonda con il volto che osserva. Ma il veicolo rimane sempre questo disincanto, come inchiodato alla terra dolorosa.

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