Marco Onofrio La dimensione poetica – Dalla lingua delle origini alla torre di Babele: l’iperdenominazione del mondo, Dioniso Apollo Eraclito, Il divenire (Parte III)

de chirico il ritorno di Orfeo

de chirico il ritorno di Orfeo

 

de chirico ettore e andromaca

de chirico ettore e andromaca

La poesia è da sempre tesa alla presunta “lingua pura” delle origini: cerca di afferrare l’“essere linguistico” delle cose, il nome segreto e cifrato di ogni essere, come traduzione del suo “quantum”, della sua quiddità energetica, della sua scintilla creatrice, della sua peculiare nota metafisica. Come la “lingua nuova” di cui ad esempio Hugo von Hofmannsthal (nella Lettera di Lord Chandos) articola l’istanza-ipotesi: una lingua «di cui non una sola parola mi è nota, una lingua in cui mi parlano le cose mute, e in cui forse un giorno nella tomba mi troverò a rispondere a un giudice sconosciuto». Una lingua che incorpora l’oggetto, che lo crea nominandolo, che lo manifesta in quanto luce: verbo e nome, parola e cosa. Questa lingua conoscente, di nome e di essere, coincide con lo stato paradisiaco delle origini perdute. La lingua di Adamo; e quindi, come tale, irrecuperabile. La parola umana nasce dalla rottura di questa unità originaria. Il peccato originale segna l’uscita della parola umana dalla terra della “lingua nominale” che ancora Platone può difendere nel Cratilo. Da allora c’è la torre di Babele: iperdenominazione del mondo; pluralità di linguaggi e ingorgo di gerghi strumentali; pletora di nomi vuoti: un immenso fragore di segnali: un boato di fondo che sfuma nel silenzio dell’insignificanza…

 LA GUERRA CHE VERRA'. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell'ultima c'erano vincitori e vinti.

LA GUERRA CHE VERRA’. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti.

A questo può servire la poesia, nel suo valore ontologico, oggi più che mai. Ad aggiustare la frequenza del suono: a riagganciare la giusta armonia: ad ascoltare il silenzio delle origini. Ben diverso da quello fragoroso dei linguaggi: profondo, questo, e limpido, e creativo. È in questo silenzio originario che si è andato a nascondere l’indicibile della conoscenza perduta, che si esprimeva nella pienezza del nome. Il silenzio del mondo che tace la verità. È a questo stato pre-categoriale, di eterna attualità, che attinge nello scrivere il poeta. Deve portare le cose all’essere, lasciandole affiorare e rivelare. La parola, allora, diventa simbolo pieno: nome che contiene mille voci, tutte le voci. E che, talvolta, vuol dire la realtà in tutta la sua fulgida pienezza, sublimandola e magnificandola.

zbigniev herbert

zbigniev herbert

Ma una rappresentazione sublimata e solare delle cose è, forse, migliore premessa all’insorgere dell’ombra che, forte della stessa negazione, preme con urgenza da fuori, o da dentro – come il disturbatore della conferenza –,  per conquistare o riconquistare il centro della scena. Rivendicando i suoi diritti. Urlando le sue incognite ragioni. Ecco perché ad ogni epoca di armonia succede inevitabilmente una di crisi. Si passa così dal meriggio rinascimentale al crepuscolo inquieto del barocco. Dal chiarore dei lumi alle ombre gotiche del romanticismo. Dalle certezze positive dell’Ottocento all’angoscia decadente del Novecento, ecc. Ciascuna di queste trasformazioni  esclude dal suo corso i salti netti: procede dunque con una dinamica di passaggi intermedi e sfumature che solo a posteriori, e forzandone la straripante complessità, è possibile storicizzare e/o classificare.

W.H. Auden with Cecil Day-Lewis and Stephen Spender

W.H. Auden with Cecil Day-Lewis and Stephen Spender

Accade anche nell’antica Grecia, quando si passa dall’età mitica delle origini alla grande età del sapere tragico. Apollo è il dio che sovrintende alla poesia come accordo universale, come canto armonico, come sinfonia. Sin-fonia: suonare insieme: alle cose del mondo, alle stelle del firmamento, alle vibrazioni energetiche della materia. Obbedire ai sacri vincoli del ritmo. Essere parte del concerto cosmico. L’armonia del canto è la forza che purifica il dolore, che scioglie dai mali, che dice la verità. Apollo è un dio sublimante e, in quanto tale, riduzionistico. A-pollon: non molti. È l’Uno che nega il molteplice. Per questo può permettersi di essere il dio della pienezza e della luce. Ma, a un certo punto, viene a noia pure il paradiso. Certo, è bello cantare il migliore dei mondi possibili: ma come evitare, al tempo stesso, di avvertire che un poco ci si inganna? Ecco il brivido d’ombra nel fulgore più accecante. Un brivido che punge, da qualche parte: cattiva coscienza del rimosso che torna ad affacciarsi, prima o poi. È un’armonia piena ma falsa, in fondo, poiché intentata: non generata dalla lotta strenua col suo contrario. Allora le grandi narrazioni mitiche non bastano più. C’è bisogno di un senso ancora più profondo, legato al destino dell’uomo, alla sua verità autentica. E si esce dall’infanzia del mondo, dal tempo delle favole.

Costantino Kavafis

Costantino Kavafis

C’è un grido terribile, nel Declino degli oracoli di Plutarco, che segna questo termine epocale: «Il grande Pan è morto». Come poi dirà Nietzsche all’alba del Novecento: «Dio è morto». È Eraclito il Nietzsche dell’antichità: lo spirito illuminante e perturbante che sottrae all’uomo il terreno sotto ai piedi, prescindendo dalle certezze acquisite. Eraclito non teme di rivelare che gli uomini sono «stranieri in mezzo a cose straniere», sonnambuli che «non sanno ciò che fanno da svegli, così come da svegli dimenticano ciò che fanno nel sonno». Il mito non serve più a spiegare il senso delle cose, giacché «la natura ama nascondersi». Occorre trovare una strada verso la reale costituzione dell’essere. C’è un logos abissale che sfugge allo sguardo, perché è invisibile, ma domina il mondo dall’interno di tutte le sue manifestazioni. Se guardi bene scopri che c’è un “oltre” in tutto (lo dice fra gli altri Pirandello, all’inizio del romanzo Quaderni di Serafino Gubbio): che al di là del visibile si apre il mondo dell’invisibile, dei rapporti nascosti, dei legami interstiziali. Come scrive Baudelaire nella lirica Corrispondenze: «La Natura è un tempio dove colonne vive / lasciano a volte uscire confuse parole; / l’uomo vi passa attraverso foreste di simboli /che l’osservano con sguardi familiari. /Come echi lunghi che da lontano si fondono / in una tenebrosa e profonda unità / vasta quanto la notte e quanto la luce».

Yeats and Eliot

Yeats and Eliot

Occorre distinguere, nella fitta trama del tutto, le tracce di questa armonia, tesa e sottesa, che si rivela più forte di quella in superficie. È la relazione che lega l’uno al tutto: è la forza che tiene insieme il molteplice. C’è bisogno di un’armonia più autentica e complessa, un’“armonia discorde”. È l’armonia dei contrari: il logos eracliteo che sottende le tensioni contrastanti. Sintesi dinamica di attrazione e contrasto, di amore e guerra, di essere e divenire. Per arrivare a questa ragione sottile, e dunque all’essenza costitutiva delle cose, occorre passare attraverso l’esperienza del molteplice, fuori e dentro di noi. Perdersi nella selva oscura. Smarrire le coordinate. Aprirsi al rischio della-peiron, dell’aperto, dell’abisso privo di fondamenti. Il sapere tragico nasce dalla frattura del mondo: e dalla scissione che apre il soggetto alla visione consapevole di questa frattura. L’uomo si raggiunge in ciò che più gli appartiene, finendo per coincidere con la propria condizione. Apre gli occhi e si vede come “dal di fuori”, così come è: nodo di autocoscienza riflessa, individuo, soggetto distinto, posto dinanzi alle cose, non più parte di esse. Come accade, nella Genesi, ad Adamo ed Eva, dopo aver mangiato il frutto proibito della conoscenza: «Allora si aprirono gli occhi ad entrambi e si accorsero che erano nudi».

Mandel'stam a Firenze 1913

Mandel’stam a Firenze 1913

Ci vuole un principio energetico, attivo e propulsivo, per rimettere in moto, cioè in discussione, l’astratto e sublimato cosmo apollineo. Anche a costo di mandarlo in frantumi. Sola armonia credibile, dunque, sarà quella scaturita dalla crisi; sola luce vera, quella accesa dal cuore stesso della tenebra, trafitta e oltrepassata. È Dioniso: il dio dell’ebbrezza, della leggerezza, della libertà, della dispersione e della spersonalizzazione; il dio-capro tellurico, oscuro ed inquietante, ma anche affrancatore dai vincoli che ci tengono legati al carcere di un tempo e di uno spazio, volta a volta unici ed esclusivi, quindi escludenti. Quando Dioniso sfiora Apollo, Apollo cambia per sempre: cambia la sua musica, la sua armonia: comincia a parlare per “geroglifici”, segni ambigui e indecifrabili, attraverso la bocca delirante della Pizia delfica: cose cupe, straniere, informi, “altre” e refrattarie; difficilmente componibili in un symbolon, un’unità di senso in superficie. La musica solare di Apollo si sporca di pulsioni notturne e risonanze umane: diventa gioia del dolore, diventa tragica. D’ora in poi sarà più difficile sostenere un riduzionismo incapace di sorgere da un confronto serrato, corpo a corpo, con la complessità.

Adam Zagajevski

Adam Zagajevski

L’Apollo tragico nasce dall’assimilazione di Dioniso, dal superamento della musica, nel sogno «abitato da immagini plastiche» (Dino Campana). La visione tragica apollinea sorge dalla potenza della musica dionisiaca. Il cosmo nasce dal caos. Per crescere ed evolversi c’è bisogno prima di entrare in crisi, per poi superarla. E che cosa scopre Apollo, quando Dioniso lo mette in crisi? Altrimenti detto: di che cosa diventa capace la poesia quando l’accende il fuoco della musica, l’“oscuro turbine” di un canto che viene dal basso, dalle viscere, dal sangue, dal vino, dalla terra? Risposta: che l’uomo è il “soggetto dei contrari” che non si possono risolvere, e non devono essere risolti – se la parola vuol darne cenni di verità autentica: senza falsi inganni, oltre le favole, oltre le illusioni. Il mistero stesso che abbiamo in noi è espressione del logos abissale. Dice Eraclito l’oscuro: «Per quanto tu possa viaggiare, non riuscirai mai a scoprire i confini dell’anima». La verità che la parola tragica ci svela è che siamo complicati e ambivalenti, perché partecipiamo della natura dei contrari che riuniamo dentro noi stessi. Scrive Marco Aurelio, nei suoi Pensieri, che siamo fenditure di tempo fra due eternità: quella che ci precede e quella che ci seguirà. Labili, effimeri, passanti. Fiamme tremolanti di candela. Abbiamo i piedi che sfumano nel vuoto. Soglie di transito fra notte e giorno, luce e tenebre, vita e morte. Il nostro essere è il divenire.

6 commenti

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6 risposte a “Marco Onofrio La dimensione poetica – Dalla lingua delle origini alla torre di Babele: l’iperdenominazione del mondo, Dioniso Apollo Eraclito, Il divenire (Parte III)

  1. Siamo effettivamente la forma più riuscita di nomade stanziale. Bisognerebbe comprendere con freddezza quale sia la reale portata, e la precisione dei nostri sensi. A cosa corrisponde quel che percepiamo attraverso i cinque canali dei sensi, è realmente come lo intendiamo noi? Sicuramente la poesia è un approdo sul versante ripido di una colata lavica rimasta in sospeso. Siamo l’unica specie conosciuta che articola suoni esprimendo concetti pratici o astratti, la parola. Non è mai esistita una antica lingua pura delle origini, lingue e linguaggio sono in perenne evoluzione; così come il concetto di poesia, ampiamente dibattuto e a un punto tale da essere arrivati a non essere più in grado nemmeno di definirla.

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  2. caro Marco,
    l’hai detto: siamo entrati nell’epoca della iperdenominazione dei segni (io direi accelerata), la poesia moderna, da Baudelaire in poi ha sentore di questo pericolo, e c’è chi come Hofmannstahl cerca nella mutezza delle cose il modo per tradurre e condurre quella mutezza nella lingua umana. Una visione ancorata a presupposti tardo romantici.

    Non c’è alcuna mutezza né alcuna lingua nelle «cose», le «cose» ci parlano e non ci parlano allo stesso tempo. E il peggiore dei casi è se esse ci parlano. Ma per fortuna le «cose» sono «mute», già il fragore delle iperdenominazioni della nuova civiltà mediatica è tale che diventeremmo tutti ciechi e sordi se anche le cose parlassero. E invece, per fortuna, almeno loro sono «mute». È soltanto una nostra proiezione antropologica a farci illudere che esse, a volte, ci parlino.
    La poesia moderna è costretta a vivere dentro la iperdenominazione dei segni ma non come una sventura ma come un retaggio inevitabile e una sfida continua a superare la CRISI della comunicazione nella quale siamo tutti immersi.

    Se ci fosse una comunicazione perfetta la società sarebbe perfetta, e infatti la società ha bisogno di continuo di mettere a punto nuove forme di comunicazione perché le vecchie sono ormai obsolete. Solo che la poesia e il romanzo non sono forme di comunicazione perfette, stanno sotto la comunicazione, o sopra, a destra o a sinistra; insomma, stanno da qualche parte, ma la teoria della comunicazione non li troverà mai.

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  3. Bello, molto bello questo testo di Onofrio. E molto….dianeo (Carlo Diano, intendo), soprattutto nei suoi riferimenti a Eraclito e all’abisso dell’apeiron periechon.
    Per quella dimensione fluida, ambigua, polimorfica e polisemica che è propria della poesia moderna (non l’Ermetismo, né la contemporaneità) almeno da Baudelaire in poi, il dio però non è né Apollo né Dioniso, ma Hermes, il dio di Odisseo, un dio pregreco, dalle infinite forme e facce, della tèchne e dell’attimo.

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  4. Franco Campegiani

    I preti raccontano che l’umanità è uscita dall’Eden in maniera definitiva, ma i poeti sanno che questa è una menzogna, giacché la verginità delle origini è sempre qui, nel vivo della maledizione storica e del veneficio culturale. I poeti sanno che incanto e disincanto non sono separabili tra di loro e che la parola poetica ha il potere di nominare sempre e comunque per la prima volta il mondo, anche nel mezzo della babele linguistica in cui oggi viviamo. La parola dei poeti sarà sempre e comunque la lingua di Adamo, la lingua delle origini pronta a sacrificarsi nel mondo storico, per rinascere dalle sue ceneri come l’araba fenice. Sono davvero affascinato dal saggio di Marco Onofrio, il cui ingegno ed acume conosco da anni e qui mostra di essersi enormemente raffinato ed evoluto. Mi trovo d’accordo con lui nel sostenere la necessità dell’armonia di contraddirsi, di mettersi in gioco nel suo contrario, ma in quello stesso gioco io insisterei maggiormente sul contrario del contrario. Ovvero sulla capacità della Fine di tornare all’Inizio trasformando la Disarmonia in Armonia. Giacché il Divenire è nell’Essere, così come l’Essere è nel Divenire.
    Franco Campegiani

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  5. antonio sagredo

    ” Il nascondersi di Eraclito è uno spaventoso amore
    che la donna sotto i lampioni della consolare a scampoli
    concede, mostruoso se tu credi luce rivelata e risorta,
    ma è una rappresaglia della ragione – l’essere! ”

    Questi miei versi del maggio 2009, che riguardano la mia personale consclusione-riflessione di 5 anni fa sulla filosofia di Eraclito, ben si addicono e ben s’accordono con quanto lo studioso Onofrio scrive sopra:

    “Il mito non serve più a spiegare il senso delle cose, giacché «la natura ama nascondersi”.

    Nascondersi… tradisce un azione più che un atto… tradisce un rivelazione
    che sta per compiersi e che compiuta non sarà mai, e in questa fase tra il compiersi e il compiuta che non sarà mai che situo la musica wagneriana del Tristano e Isotta, si, proprio verso la fine, quando entrambi non sanno più chi sono e non sono più capaci di nascondersi perché oscillano di continuo nel vortice delle note tra l’apparire e l’essere! E cerchiamo di convincerci che la ragione sta sempre lì pronta a una rappresaglia: a ricordarci che l’essere tradisce se stesso se vuol essere soltanto un divenire!
    grazie a Onofrio
    A., S.

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  6. Da: Gianfranco Criscenti [mailto:gianfranco.criscenti@gmail.com] Inviato: sabato 4 febbraio 2017 16:37 A: francesca.cannavo@giustizia.it; francescacannavo@hotmail.it Oggetto: Fwd: invito rappresentazione teatrale antiracket

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