La poesia è da sempre tesa alla presunta “lingua pura” delle origini: cerca di afferrare l’“essere linguistico” delle cose, il nome segreto e cifrato di ogni essere, come traduzione del suo “quantum”, della sua quiddità energetica, della sua scintilla creatrice, della sua peculiare nota metafisica. Come la “lingua nuova” di cui ad esempio Hugo von Hofmannsthal (nella Lettera di Lord Chandos) articola l’istanza-ipotesi: una lingua «di cui non una sola parola mi è nota, una lingua in cui mi parlano le cose mute, e in cui forse un giorno nella tomba mi troverò a rispondere a un giudice sconosciuto». Una lingua che incorpora l’oggetto, che lo crea nominandolo, che lo manifesta in quanto luce: verbo e nome, parola e cosa. Questa lingua conoscente, di nome e di essere, coincide con lo stato paradisiaco delle origini perdute. La lingua di Adamo; e quindi, come tale, irrecuperabile. La parola umana nasce dalla rottura di questa unità originaria. Il peccato originale segna l’uscita della parola umana dalla terra della “lingua nominale” che ancora Platone può difendere nel Cratilo. Da allora c’è la torre di Babele: iperdenominazione del mondo; pluralità di linguaggi e ingorgo di gerghi strumentali; pletora di nomi vuoti: un immenso fragore di segnali: un boato di fondo che sfuma nel silenzio dell’insignificanza…

LA GUERRA CHE VERRA’. Non è la prima. Prima ci sono state altre guerre. Alla fine dell’ultima c’erano vincitori e vinti.
A questo può servire la poesia, nel suo valore ontologico, oggi più che mai. Ad aggiustare la frequenza del suono: a riagganciare la giusta armonia: ad ascoltare il silenzio delle origini. Ben diverso da quello fragoroso dei linguaggi: profondo, questo, e limpido, e creativo. È in questo silenzio originario che si è andato a nascondere l’indicibile della conoscenza perduta, che si esprimeva nella pienezza del nome. Il silenzio del mondo che tace la verità. È a questo stato pre-categoriale, di eterna attualità, che attinge nello scrivere il poeta. Deve portare le cose all’essere, lasciandole affiorare e rivelare. La parola, allora, diventa simbolo pieno: nome che contiene mille voci, tutte le voci. E che, talvolta, vuol dire la realtà in tutta la sua fulgida pienezza, sublimandola e magnificandola.
Ma una rappresentazione sublimata e solare delle cose è, forse, migliore premessa all’insorgere dell’ombra che, forte della stessa negazione, preme con urgenza da fuori, o da dentro – come il disturbatore della conferenza –, per conquistare o riconquistare il centro della scena. Rivendicando i suoi diritti. Urlando le sue incognite ragioni. Ecco perché ad ogni epoca di armonia succede inevitabilmente una di crisi. Si passa così dal meriggio rinascimentale al crepuscolo inquieto del barocco. Dal chiarore dei lumi alle ombre gotiche del romanticismo. Dalle certezze positive dell’Ottocento all’angoscia decadente del Novecento, ecc. Ciascuna di queste trasformazioni esclude dal suo corso i salti netti: procede dunque con una dinamica di passaggi intermedi e sfumature che solo a posteriori, e forzandone la straripante complessità, è possibile storicizzare e/o classificare.
Accade anche nell’antica Grecia, quando si passa dall’età mitica delle origini alla grande età del sapere tragico. Apollo è il dio che sovrintende alla poesia come accordo universale, come canto armonico, come sinfonia. Sin-fonia: suonare insieme: alle cose del mondo, alle stelle del firmamento, alle vibrazioni energetiche della materia. Obbedire ai sacri vincoli del ritmo. Essere parte del concerto cosmico. L’armonia del canto è la forza che purifica il dolore, che scioglie dai mali, che dice la verità. Apollo è un dio sublimante e, in quanto tale, riduzionistico. A-pollon: non molti. È l’Uno che nega il molteplice. Per questo può permettersi di essere il dio della pienezza e della luce. Ma, a un certo punto, viene a noia pure il paradiso. Certo, è bello cantare il migliore dei mondi possibili: ma come evitare, al tempo stesso, di avvertire che un poco ci si inganna? Ecco il brivido d’ombra nel fulgore più accecante. Un brivido che punge, da qualche parte: cattiva coscienza del rimosso che torna ad affacciarsi, prima o poi. È un’armonia piena ma falsa, in fondo, poiché intentata: non generata dalla lotta strenua col suo contrario. Allora le grandi narrazioni mitiche non bastano più. C’è bisogno di un senso ancora più profondo, legato al destino dell’uomo, alla sua verità autentica. E si esce dall’infanzia del mondo, dal tempo delle favole.
C’è un grido terribile, nel Declino degli oracoli di Plutarco, che segna questo termine epocale: «Il grande Pan è morto». Come poi dirà Nietzsche all’alba del Novecento: «Dio è morto». È Eraclito il Nietzsche dell’antichità: lo spirito illuminante e perturbante che sottrae all’uomo il terreno sotto ai piedi, prescindendo dalle certezze acquisite. Eraclito non teme di rivelare che gli uomini sono «stranieri in mezzo a cose straniere», sonnambuli che «non sanno ciò che fanno da svegli, così come da svegli dimenticano ciò che fanno nel sonno». Il mito non serve più a spiegare il senso delle cose, giacché «la natura ama nascondersi». Occorre trovare una strada verso la reale costituzione dell’essere. C’è un logos abissale che sfugge allo sguardo, perché è invisibile, ma domina il mondo dall’interno di tutte le sue manifestazioni. Se guardi bene scopri che c’è un “oltre” in tutto (lo dice fra gli altri Pirandello, all’inizio del romanzo Quaderni di Serafino Gubbio): che al di là del visibile si apre il mondo dell’invisibile, dei rapporti nascosti, dei legami interstiziali. Come scrive Baudelaire nella lirica Corrispondenze: «La Natura è un tempio dove colonne vive / lasciano a volte uscire confuse parole; / l’uomo vi passa attraverso foreste di simboli /che l’osservano con sguardi familiari. /Come echi lunghi che da lontano si fondono / in una tenebrosa e profonda unità / vasta quanto la notte e quanto la luce».
Occorre distinguere, nella fitta trama del tutto, le tracce di questa armonia, tesa e sottesa, che si rivela più forte di quella in superficie. È la relazione che lega l’uno al tutto: è la forza che tiene insieme il molteplice. C’è bisogno di un’armonia più autentica e complessa, un’“armonia discorde”. È l’armonia dei contrari: il logos eracliteo che sottende le tensioni contrastanti. Sintesi dinamica di attrazione e contrasto, di amore e guerra, di essere e divenire. Per arrivare a questa ragione sottile, e dunque all’essenza costitutiva delle cose, occorre passare attraverso l’esperienza del molteplice, fuori e dentro di noi. Perdersi nella selva oscura. Smarrire le coordinate. Aprirsi al rischio dell’a-peiron, dell’aperto, dell’abisso privo di fondamenti. Il sapere tragico nasce dalla frattura del mondo: e dalla scissione che apre il soggetto alla visione consapevole di questa frattura. L’uomo si raggiunge in ciò che più gli appartiene, finendo per coincidere con la propria condizione. Apre gli occhi e si vede come “dal di fuori”, così come è: nodo di autocoscienza riflessa, individuo, soggetto distinto, posto dinanzi alle cose, non più parte di esse. Come accade, nella Genesi, ad Adamo ed Eva, dopo aver mangiato il frutto proibito della conoscenza: «Allora si aprirono gli occhi ad entrambi e si accorsero che erano nudi».
Ci vuole un principio energetico, attivo e propulsivo, per rimettere in moto, cioè in discussione, l’astratto e sublimato cosmo apollineo. Anche a costo di mandarlo in frantumi. Sola armonia credibile, dunque, sarà quella scaturita dalla crisi; sola luce vera, quella accesa dal cuore stesso della tenebra, trafitta e oltrepassata. È Dioniso: il dio dell’ebbrezza, della leggerezza, della libertà, della dispersione e della spersonalizzazione; il dio-capro tellurico, oscuro ed inquietante, ma anche affrancatore dai vincoli che ci tengono legati al carcere di un tempo e di uno spazio, volta a volta unici ed esclusivi, quindi escludenti. Quando Dioniso sfiora Apollo, Apollo cambia per sempre: cambia la sua musica, la sua armonia: comincia a parlare per “geroglifici”, segni ambigui e indecifrabili, attraverso la bocca delirante della Pizia delfica: cose cupe, straniere, informi, “altre” e refrattarie; difficilmente componibili in un symbolon, un’unità di senso in superficie. La musica solare di Apollo si sporca di pulsioni notturne e risonanze umane: diventa gioia del dolore, diventa tragica. D’ora in poi sarà più difficile sostenere un riduzionismo incapace di sorgere da un confronto serrato, corpo a corpo, con la complessità.
L’Apollo tragico nasce dall’assimilazione di Dioniso, dal superamento della musica, nel sogno «abitato da immagini plastiche» (Dino Campana). La visione tragica apollinea sorge dalla potenza della musica dionisiaca. Il cosmo nasce dal caos. Per crescere ed evolversi c’è bisogno prima di entrare in crisi, per poi superarla. E che cosa scopre Apollo, quando Dioniso lo mette in crisi? Altrimenti detto: di che cosa diventa capace la poesia quando l’accende il fuoco della musica, l’“oscuro turbine” di un canto che viene dal basso, dalle viscere, dal sangue, dal vino, dalla terra? Risposta: che l’uomo è il “soggetto dei contrari” che non si possono risolvere, e non devono essere risolti – se la parola vuol darne cenni di verità autentica: senza falsi inganni, oltre le favole, oltre le illusioni. Il mistero stesso che abbiamo in noi è espressione del logos abissale. Dice Eraclito l’oscuro: «Per quanto tu possa viaggiare, non riuscirai mai a scoprire i confini dell’anima». La verità che la parola tragica ci svela è che siamo complicati e ambivalenti, perché partecipiamo della natura dei contrari che riuniamo dentro noi stessi. Scrive Marco Aurelio, nei suoi Pensieri, che siamo fenditure di tempo fra due eternità: quella che ci precede e quella che ci seguirà. Labili, effimeri, passanti. Fiamme tremolanti di candela. Abbiamo i piedi che sfumano nel vuoto. Soglie di transito fra notte e giorno, luce e tenebre, vita e morte. Il nostro essere è il divenire.