La poesia è da sempre principalmente canto e musica, perché nasce dalla notte dei tempi come atto magico di controllo e dominio delle energie cosmiche, come impronta sulla creta primordiale della materia, come mantra evocativo, come rito collettivo di fondazione e rappresentazione comunitaria: proprio giocandosi sul potere metafisico del suono che incarna la voce. Il poeta coincide con lo sciamano, col maestro di cerimonia. Poesia è lingua sacra che permette di comunicare con gli dei e dialogare con il regno dei morti: medium che avvicina universi distanti e paralleli, trasportando partecipanti e ascoltatori verso i regni oscuri dell’ignoto e precipitandoli nel “luogo ombelicale” dell’essere, alla radice dell’umana condizione. La poesia, nel suono e nella voce, libera dal tempo l’esistenza e manifesta il cuore essenziale della realtà, conferendo nome e senso a tutte le cose. Originariamente si tratta dunque di un rito collettivo di fondazione che, mitizzando il vissuto quotidiano, assicura al mondo la continuazione di un senso e quindi la coesione interna del gruppo sociale.
La parola poetica è un appello magico in grado di formulare la richiesta collettiva che l’uomo rivolge alle cose: che esse sorgano nella loro totalità, che si lascino generare dal verbo. Il poeta è un mago che comanda sugli elementi e domina sul tempo e sullo spazio: utilizzando il potere della voce e della parola.
Questa originaria dimensione sciamanica è legata in modo esclusivo all’oralità. La “letteratura” si distingue dalla poesia in quanto legata fin da subito al segno scritto, alla lettera. La poesia, invece, nasce prima della scrittura e della lettera alfabetica, sostenuta dalla trasmissione orale. Le origini della poesia sono dunque legate alla magia, al mito e al rito. Il valore ontologico della parola si compie proprio nella sua esecuzione vocale. La poesia nasce per essere “cantata” a viva voce, nel tempo biologico del respiro, istante dopo istante. Solo così, del resto, può funzionare una formula magica. Se l’essere è canto, a sua volta il canto è essere: nel senso che fonda l’identità del soggetto, come l’esistenza delle cose. Ma canto è anche “incanto” che dis-aliena l’essere e lo libera in un mondo illimitato e fluido, dove vige il tempo sacro delle origini. La trance mistica e visionaria si conquista nel potere assoluto della voce.
La voce, scrive Paul Zumthor nel saggio La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, è «voler dire e volontà di esistere. Luogo di un’assenza che, in essa, si trasforma in presenza, la voce modula gli influssi cosmici che ci attraversano e ne capta i segnali: è risonanza infinita, che fa cantare ogni forma di materia, come attestano le tante leggende sulle piante e sulle pietre incantate». Si pensi, su tutte, alla celebre favola di Orfeo. La voce è una forma archetipica, una pulsione originaria e creatrice, un desiderio inappagabile. È indicibilità che si veste di linguaggio, ma suona dentro e oltre la parola.
«La voce abita nel silenzio del corpo, come già il corpo nel grembo materno. Ma, a differenza del corpo, essa vi ritorna, abolendosi in ogni istante come voce e come parola. Appena parla, risuona nel suo vuoto l’eco di questo deserto di prima della rottura, da dove zampillano la vita e la pace, la morte e la follia».
L’intuizione artistica è un momento alterato di coscienza che produce l’emersione del buio profondo, donde talvolta scocca un lampo rivelatore. L’artista entra in contatto con l’informe magma che ribolle al di sotto della superficie. È la materia alogica e destrutturata delle zone pre-verbali. Da lì sale un luccicore misterioso, come il riflesso di un sogno. Occorre plasmare e piegare la materia viva di questo informe: farne tramite del nostro continuo passaggio fra dentro e fuori. In questo transito vengono strutturate e/o ristrutturate parti di noi stessi. Tutto è finalizzato all’integrazione armonica dei due emisferi cerebrali, condizione necessaria della salute mentale. Lo scambio che riequilibra i due emisferi avviene mediante il convergere di più energie, di segno diverso, anche nella presenza creativa del suono come armonia, come vibrazione, come risonanza empatica.
Dalla dissonanza, così, si passa alla consonanza dell’ac-cordo, legato – come dice la parola – al battito del cuore. Il suono della parola poetica è per molti versi terapeutico, se non taumaturgico, perché riattiva e riattualizza la nostra identità sonora, perduta o dimenticata. Si provi, per esempio, a cantare a voce alta il proprio nome; o ad ascoltarlo cantato da altri. Già questo può bastare a metterci in crisi, innescando un processo di centratura psichica, di trasformazione, di cura. E non è questione di emozioni. Ogni emozione artistica è assolutamente soggettiva. Le emozioni dividono chi le prova, perché ognuna ha le proprie sfumature. Universale è il fatto stesso che ci sia un’emozione: è la predisposizione dell’opera a suscitarla. L’opera ci pro-voca, ci scuote, ci sveglia: ci chiama ad una presa di coscienza. Fruendo dell’opera d’arte io entro in risonanza con le mie zone profonde, evocate dalle zone profonde dell’artista che si esprimono nell’opera. L’individuo creativo è più di altri a contatto con la dimensione interiore e le sue rimozioni. Ci sono aspetti della vita pre-conscia che per un attimo riemergono, come lampi di una luce dimenticata: “conoscere”, in tal senso, è davvero “ricordare”.
Si pensi a come Freud descrive il processo di rimozione: c’è un tizio che disturba una conferenza e viene messo alla porta; ma da fuori disturba di più! Esce dalla porta e rientra dalla finestra: attraverso i sogni. La rimozione, dunque, non risolve il conflitto. Invece di mettere alla porta il disturbatore, lo invitiamo a spiegare finalmente che cos’ha, che cosa vuole. Ci dice, magari, che si sente inadeguato perché tutti gli uditori della conferenza sono più bravi di lui. Lo invitiamo ad esprimere questo disagio, a rielaborarlo, a trasformare questa energia. Si sentirà adeguato.
La creatività, dunque, è una forza generatrice presente, chi più chi meno, in ognuno noi. È, addirittura, uno degli istinti basilari dell’uomo: come la sete, la fame, il sesso, ecc. Un’energia primaria che, se non messa in opera, ci rende la vita più difficile. Scrive Franco Ferrucci nel saggio Ars poetica: «L’uomo diventa distruttivo se non dà sfogo alla creatività, come certe specie di uccelli che si immolano se non trovano da nidificare». La salute psicologica e il benessere sono direttamente legati alla capacità e alla possibilità di interpretare creativamente la propria vita, di liberare e sviluppare le energie creative latenti. Un veicolo meraviglioso per farlo è proprio la parola, nella sua sostanza sonora, attraverso la potenza della voce.
Il soffio caldo della voce è spirito creatore, inciso nella carne, ritmato dentro il palpito del sangue. È fuoco: potenza che purifica o distrugge. Nella voce risuona l’eco nostalgica e l’infinito desiderio dell’Unità primordiale, l’Identità fondamentale di un mondo mitico: l’età dell’oro, anteriore al “principium individuationis”. La parola è la forma relativa di questo assoluto: il tipo di questo archetipo. La voce è essa stessa parola: è una parola infinitamente più grande delle parole che pronuncia, che ci parla dell’origine perduta, del «tempo della voce senza parola», dell’«istante senza durata in cui i sessi, le generazioni, l’amore e l’odio furono una cosa». È questo tempo mitico, in cui lingua e musica erano tutt’uno, che la poesia cerca disperatamente di recuperare. La voce è, perciò, «parola senza parole, purificata, filo vocale che fragilmente ci collega all’Unico», aperta sull’essere interno: proviene dall’abisso dell’origine e ci conduce all’aldilà del corpo. Non a caso la bocca, varco della voce e strumento della parola, in latino (os, oris) ha la stessa radice etimologica di “origine” (origo, inis). La voce inoltre è una straordinaria potenza erotica, umida di respiro, presente all’essere che vive, irripetibile nel suo puntuale proporsi. La voce cattura il silenzio di chi ascolta, rapisce le menti, seduce: impossibile resistere al canto delle Sirene.
Ed è questo il piacere del canto e del racconto: conquistare l’attenzione di chi ascolta, avvincendolo al suo proprio silenzio: essere la sua voce e dunque la sua vita, fintanto che ascolta. Il silenzio di chi ascolta è il controcanto necessario alla parola di chi parla, è il fondamento stesso della comunicazione. Colui che ascolta beve (e quindi parla) la parola di chi parla, che parla per lui, anche a suo nome. La parola è “verbo”: potenza arcana che anima, plasma, trasforma. La parola proferita dalla voce crea ciò che dice. È Mercurio, il dio dei ladri, il numen tutelare dei poeti. Mercurio governa al contempo la bocca, la parola, la mano. La bocca per cantare; la parola per dire; la mano per scrivere: i tre attributi del poiein creativo, del fare poetico. Mercurio è il demiurgo fluidificante, che mette in contatto i diversi livelli del reale – anche quando lontanissimi o all’apparenza inconciliabili: come quando il poeta dà vita a una metafora, o a un ossimoro. Usando le parole sarebbe possibile dominare gli elementi, farsi obbedire dalle energie. L’articolazione stessa del mondo proviene e procede attraverso la parola. Come comincia, ad esempio, il Vangelo di San Giovanni? «Nel principio era la Parola, e la Parola era Dio. Essa era nel principio con Dio. Ogni cosa è stata fatta per mezzo di lei; e senza di lei neppure una delle cose fatte è stata fatta. In lei era la vita, e la vita era la luce degli uomini». Anche l’uomo era capace di creare mediante la potenza del Verbo. Ma poi l’ha persa, con il peccato originale. Da quel momento non ha più potuto dominare la materia con la parola: è stato costretto a lavorare con le sue mani. Come Dio dice ad Adamo: «Mangerai il pane che sarai capace di ottenere col sudore della tua fronte».
Le parole, dunque, non sono flatus vocis: hanno una potenza spirituale che percorre lo spazio ed esercita la sua azione, provocando degli effetti (benefici o meno). Occorre stare attenti a quel che si pronuncia, perché tutto viene registrato. Occorre imparare a servirsi della potenza delle parole per trasformare il mondo e noi stessi. Anche di questo si occupa il poeta. Egli è più o meno consciamente interessato ad una trasmutazione cosmica del reale, orientata verso la salvezza dell’eterno, cioè del tempo estratto dal suo fluire, dello spirito riconciliato, della materia guarita: dell’innocenza. Avverte che questo è il suo compito, in termini evolutivi. L’eterno, come il cielo, è l’arca dell’invisibile. E le parole salvano le cose, lasciandone trapelare l’invisibile essenza. Dobbiamo capire che l’invisibile impregna il visibile: che all’origine del visibile c’è l’invisibile. Se non arriviamo a vederlo è solo perché non abbiamo ancora degli organi sufficientemente sviluppati. Anche quelli destinati al mondo fisico, peraltro, sono ancora piuttosto limitati. Non basta la mancata percezione di qualcosa per negarne l’esistenza. L’aria non si vede, eppure noi la respiriamo. Due persone che si amano sono legate da un filo invisibile, anche a distanza. Non possono vedere né toccare il loro amore: eppure non dubitano che c’è, che è qualcosa di reale. L’invisibile è ricco di forze creatrici, e palpita di correnti energetiche, di musiche, di entità spirituali che circolano fra i mondi paralleli dell’universo. Scrive Pirandello nello stupendo dramma incompiuto I Giganti della montagna (è Cotrone che parla alla Contessa): «Siamo qua come agli orli della vita, Gli orli, a un comando, si distaccano; entra l’invisibile (…) I sogni, la musica, la preghiera (…) tutto l’infinito che è negli uomini (…) Gli angeli possono come niente calare in mezzo a noi; e tutte le cose che ci nascono dentro sono per noi stessi uno stupore».
Uno dei compiti principali della parola poetica è proprio quello di alzare questi orli, per cucire il visibile all’invisibile. Le vie della poesia, infatti, sono quelle immateriali, atomiche e pulviscolari, dei colori dentro il bianco della luce; quelle del possibile infinito delle direzioni, nello spazio vuoto; ma anche quelle carnali della materia, dell’opaca resistenza, della greve profondità. Come l’uomo, infatti, la poesia è spirito e materia: spirito della materia e, specularmente, materia dello spirito. È luogo d’incrocio tra le diverse condizioni esistenziali: è armonia polemica di opposti; è campo di battaglia; è scontro e incontro di forze; è sintesi dinamica di trasformazioni. Le vie della poesia, più in particolare, sono quelle che allontanano e ri-portano a noi stessi. Nel mondo dell’“esterna internità”: dove “dentro” e “fuori” sono intimamente legati e collegati, poiché l’uno all’altro riconduce – e viceversa, lungo un movimento senza fine (come la striscia di Moebius; o come in molte opere di Escher). Attraversare le cose per conoscersi; capire se stessi per comprendere le cose. E le parole: calde, vibranti, carnali, viventi, corpi di musica e di suono, che fanno da ponte tra lo spazio esterno e quello interno, tra il “sé” e l’“altro da sé”, in una continua traduzione del visibile nell’intimo invisibile – lo spazio autonomo, orfico, del testo (tessuto e partitura di parole), da una distanza remota e prossima insieme: in un “qui” che è anche altrove, e in un “ora” che è anche prima, dopo, sempre.
La poesia deve essere “vera” ma non “reale”. Nel senso che deve bruciare i contatti con la realtà estemporanea che ne innesca, spesso casualmente, il meccanismo. Come un incendio, di cui – una volta attecchito – non riesci più a distinguere la miccia, la scintilla, l’occasione. Il poeta precipita dentro: cerca la sublime profondità. È uno specchio; o un faro che nel buio illumina gli specchi. Per questo la poesia appare spesso ostica, oscura, intraducibile: il più straniero dei linguaggi umani. Anche quando ci riguarda, quando parla di noi: quando dice il respiro, il battito del cuore e il suono misterioso della mente, articolando la nostra più intima misura, come il discorso più proprio e profondo che siamo, e che abbiamo. Perché è un terreno di confine, di rischiosa interminabile ricerca, dove la lingua si rinnova da se stessa, carica delle proprie estreme potenzialità, agglutinandosi nella densità originaria della propria essenza. Il confine dove appaiono, non a caso, le configurazioni nuove del senso, del tempo, del rapporto dell’uomo con il mondo. Per questo invoca ed esige lo scarto di una differenza dalla lingua quotidiana. È una “parole” che si contrappone alla “langue” incrostata e banalmente normativa. Non per vezzo o per snobismo, ma per necessità intrinseche, di ordine espressivo.
La poesia non “serve” a niente, nel senso che non ha un’immediata utilità pratica. Non ha uno scopo: quindi ha un valore. Non è “linguaggio di potere” o “linguaggio strumentale” degradato a semplice mezzo. Non può darsi poesia se la lingua non diviene “poetica”: che non significa “bella” a priori, cioè depurata, raffinata, edulcorata… bensì, piuttosto, autonoma e creativa, staccata dal riferimento immediato alla realtà. Scrive Cesare Brandi nel suo Dialogo sulla poesia: «La poesia è la naturalità che si decanta in realtà senza esistenza, ed è naturalità che urge, preme, deve essere espressa, fissata per sempre». La magia della parola poetica è che ha in se stessa la sua sorgente. La lingua, grazie alla poesia, comunica la propria essenza spirituale, ovvero: l’uomo comunica la propria essenza spirituale attraverso la lingua poetica.