L’Editore Tallone annuncia l’uscita di un’antologia in italiano e in inglese del poeta Alfredo De palchi, cittadino del mondo e di New York corredata da un acquerello originale di Fulvio Testa, artista italiano famoso anch’egli negli Stati Uniti, che alle poesie dell’amico si è ispirato dipingendo un’opera originale per ciascuna delle 90 copie dell’edizione.
Alberto Tallone Editore
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da http://www.hounlibrointesta.it
Quanto è antico il sapere dell’uomo? La nostra esistenza millenaria ha inciso e continua a incidere sul mondo, lasciando tracce eterne e transeunti. Per ritrovare le origini della sapienza umana, occorre interrogarsi sulla natura dei segni che accompagnano da sempre il nostro passaggio.
Il professore Carlo Sini, accademico dei Lincei, e per oltre trent’anni docente di Filosofia teoretica all’università di Milano, nel libro Il sapere dei segni, edito da Jaca Book, analizza il senso delle figure e delle scritture umane, «senza dimenticare che anche la nostra mente che “rin-traccia” è un prodotto interno di questo cammino». Possiamo avvicinarci solo indefinitamente ai segni del passato, perché ogni volta che tentiamo di rintracciarli, in realtà li «ri-tracciamo», li duplichiamo nella rappresentazione, creando qualcosa di nuovo e di diverso.
Si può ipotizzare che diecimila anni fa sulla terra esistesse una sorta di «linguaggio universale», che i nostri antenati utilizzassero «un sistema di espressione comune, fatto della convergenza di gesto, suono, visione, esercitati e vissuti come un atto globale». La differenziazione culturale, la torre di Babele nella quale viviamo sarebbe un’acquisizione successiva.
Analogamente, la sintassi dell’arte preistorica potrebbe aver generato la nostra attuale forma di scrittura. «La configurazione delle nostre lettere alfabetiche non è affatto arbitraria o convenzionale. Ogni lettera è invece un disegno decaduto o stilizzato la cui origine va rintracciata proprio nelle figure e nei segni del paleolitico e del neolitico».
Rispetto al passato, dunque, c’è qualcosa che abbiamo perduto. L’unità di scrittura, figura e azione. Le parole si sono separate dalla loro figura, si sono «s-figurate», diventando astratte e autonome. La figura si è svuotata della presenza originaria che l’abitava, il mondo della vita. Come Euridice, essa può essere richiamata in essere, ma il canto capace di risvegliarla è lo stesso che la uccide: quando la figura si consegna al sapere, resta inchiodata a un apparire determinato e oggettivo e, in un certo senso, smette di vivere, di transitare. Il gioco dei segni si mantiene solo nel rimando continuo, molteplice e indefinito, di qualcosa a qualcos’altro.
Le dinamiche percettive sono complesse e intrecciate; per scoprire cosa significa davvero «sentire», dovremmo considerare la possibilità di «ascoltare con gli occhi e vedere con le orecchie». L’esperienza non è mai univoca. Anche del lattante di poche settimane o di pochi mesi, non si può dire che sia una «tabula rasa», un «foglio bianco» unidimensionale, puramente ricettivo: egli «è già un mondo complesso di emozioni, di immaginazioni e di pensieri, ancorché non verbali». Secondo gli studi di Daniel Stern sulla prima infanzia e sullo sviluppo psichico infantile, la formazione del Sé emerge molto prima dell’avvento del linguaggio. Da sempre siamo circondati dai segni e, grazie ai segni, impariamo a comunicare.
Il professore Sini ha introdotto in Italia il pensiero di Charles Sanders Peirce , considerato il padre della semiotica; citando il filosofo statunitense, il nostro autore scrive che anche la più semplice delle nostre azioni e delle nostre inferenze nasconde in sé «una filosofia dell’universo». Non appena nasciamo, siamo immersi in un linguaggio universale, in una musica eterna. Non è forse un caso che l’opera letteraria più frequentata da Carlo Sini sia la Divina Commedia, una rappresentazione allegorica dell’umanità, un itinerario trascendente e simbolico, che, da un cerchio all’altro della vita, dal sottosuolo ultraterreno alle altezze celesti, illumina il chiaroscuro che l’uomo sperimenta tutti i giorni, e di cui vivono anche i suoi segni.
Il sapere dei segni è la sapienza delle nostre origini. Secondo lei, professore, la nostra mente è in grado di rivivere e di «riscrivere» un passato ormai trascorso e dimenticato?
«Il passato è tale proprio in quanto è trascorso e dimenticato. Solo a questo prezzo può essere ricordato, il che vuol dire: riportato nel cuore del sapere e perduto per la vita diretta. Quindi il cosiddetto passato è in realtà quella presenza che sempre agisce inconsapevole (il passato dei miei genitori rivive nel mio corpo ecc.): questo passato non è mai passato, è la vivente continuità della vita. In questo senso l’animale non ha passato; solo gli esseri umani ce l’hanno, poiché dispongono di segni per constatare la differenza intercorsa tra l’essere e l’avere, l’agire e il sapere, il vivere e il ricordare di aver vissuto; anzitutto, ovviamente, perché dispongono di segni del linguaggio».
Prima dell’invenzione della tecnica della scrittura, il linguaggio era diverso: il dire non era diverso dal fare, le immagini, i gesti e i suoni erano una cosa sola. La nascita del segno scritto ha comportato una perdita per l’umanità?
«La scrittura, diceva Derrida, è antica quanto il linguaggio e io sono d’accordo. I gesti sono la scrittura del corpo, così come le pitture del viso ecc.; lo stesso è da dire delle vesti e dei manufatti; la parola è la scrittura della voce ecc. In generale la scrittura, in quanto lascia traccia di sé, costruisce progressivamente una distanza tra l’agito in forma diretta e irriflessa e il saputo in forma riflessa e replicabile. In questo senso è giusto dire che il mondo animale, più che non disporre di forme di linguaggio, non possiede scritture, cioè repliche del mondo e dei suoi significati in un microcosmo quale è appunto ogni supporto di scrittura. Se un uomo va alla capanna del suo amico e la trova sbarrata, con sopra una tavoletta sulla quale l’amico ha disegnato una barca e tre lune, il messaggio è chiaro: sono partito in barca e starò via tre notti. Ogni scrittura è una dilatazione dei nostri orizzonti conoscitivi: veniamo a sapere cose che altrimenti ci resterebbero ignote. Le scritture segnano il progresso scientifico dell’umanità. Questo ufficio della scrittura non equivale però alla possibilità espressiva ed emotiva che ci caratterizza nel vivere diretto. Non è che la scrittura ci abbia sottratto alcunché (ci ha donato e ci dona anzi moltissimo). Sta a noi non confondere informazione ed espressione, conoscenza e vita, quantità che caratterizza un messaggio ed eventuale qualità del medesimo. Questo significa anche che la verità non è mai costituita da una sola figura (per esempio matematica), ma che una pluralità di figure sempre la attraversa».
I simboli hanno un rapporto stretto con la trascendenza?
«Simbolo è ciò che unisce a distanza, è ciò che rimette insieme quello che è stato separato. La trascendenza è la sua stessa natura; alludervi è la sua funzione. Con questo non ho detto: “esiste” una “cosa trascendente”. Ho piuttosto alluso al fatto per cui ogni presenza fa segno e si rivolge a ciò che è presente solo come assente».
La cultura cinese, con i suoi ideogrammi e i concetti filosofici di yin e yang conserva ancora una traccia dell’unione di parola e figura?
«Sicuramente conserva una traccia “figurativa”, anche se l’uso moderno degli ideogrammi, il rapporto con l’Occidente, l’imporsi della tastiera del computer e dei telefonini (cioè il tratto sempre più universale della scrittura alfabetica) sta progressivamente cancellando storia, tradizione e figura nella scrittura cinese».
Lei parla del rapporto tra la madre e il neonato come di un momento di interpretazione di emozioni, immaginazioni e pensieri non verbali. Cosa possiamo imparare dallo studio della prima infanzia?
«Il neonato ci presenta l’esempio più vicino e più vivo del mondo preverbale che tutti abbiamo attraversato. Il suo studio è fecondo ed entusiasmante, rivelatore di molti segreti della vita adulta. Bisogna però sempre ricordare che le nostre ricostruzioni sono scritture e mappe del sapere, non l’equivalente del vissuto infantile. Dicono di noi, di come siamo accaduti, più che dire della vita infantile diretta: questo bisogna ricordarlo, per non cadere nelle ingenuità “oggettivistiche” e “naturalistiche” che spesso assediano la mente degli scienziati, nonostante il loro preziosissimo lavoro».
Lei scrive che il vero compito della filosofia è quello d’intendere la «differenza e la relazione tra vita e sapere”». Secondo lei, quando e come avviene l’incontro tra il sapere e la vita? E tra la vita e la verità?
«La domanda è molto complessa ed è formulata in modo assai suggestivo. Esiste una vita cieca a se stessa, che non si pone domande, come si dice, di senso; una vita che promuove se stessa ereditando lo spirito vitale di ciò che appunto l’ha prodotta. Poi esiste anche una “vita della verità” che ha molti sensi. Anzitutto quello di dire la verità o il suo contrario: è la più antica nozione di verità sorta nelle comunità umane. Poi c’è la verità ritenuta tale da tutti i membri di un gruppo sociale. Per esempio: è vero che c’è tra noi qualcuno di impuro; per questo gli Dei ci puniscono con una pestilenza. Queste innumerevoli figure della verità affrontano appunto la selezione della vita e divengono e si trasformano esse stesse con la vita. Talvolta muoiono, talaltra risorgono e così via. Non bisogna cadere nella superstizione della verità, cioè nella identificazione della verità con un suo contenuto, con un suo significato definito. Sarebbe come identificare l’umanità con questo uomo. Ma questo uomo muore e l’umanità no. Così i significati di verità tramontano, ma l’evento della verità nelle sue figure, l’incontro che continuamente facciamo con questo evento, imparando da esso a non sopravvalutare i nostri significati di verità, questo evento e questo incontro sono la verità in cui siamo volta a volta iscritti: la verità che attende e stimola la nostra capacità di accogliere, di mutare, cioè di vivere con coraggio e senza presunzioni superstiziose il suo continuo evento».
La letteratura e la poesia riescono a conservare la magia degli inizi? C’è un’opera letteraria che le sta particolarmente a cuore, per il suo valore creativo e simbolico?
«Gli inizi dell’espressività umana sembrano essere caratterizzati da ciò che i Greci chiamavano “arti dinamiche”, cioè dal canto, dalla danza e anche dalla figuratività delle espressioni. Una volta approdati alle lettere (anzitutto con la trascrizione in Occidente dei due poemi epici attribuiti a Omero, diversa è la vicenda dell’Oriente), è nata appunto la scrittura “letteraria”, che tenta di recuperare, attraverso i segni dell’alfabeto, le emozioni originarie del vivere (per dire la cosa molto in fretta e in modo certo insufficiente). Nella letteratura, intesa nel senso più ampio, si deposita il ricordo della intera epopea dell’umanità e quindi la più alta consapevolezza della nostra storia e del nostro destino. Tra le grandi opere letterarie dell’umanità, quella che ho più frequentato e che ancora frequento con frutto indescrivibile è la “Commedia” di Dante».

“The Knight, the death and the devil”, B 98. Engraving by Albrecht Dürer. Musée des Beaux-Art de la Ville de Paris.
Il cavaliere, la morte e il diavolo. E’ con l’immagine di questa incisione di Albrecht Dürer che il professore di Filosofia teoretica presso l’Università di Milano, Carlo Sini, inizia la sua lezione, dal tema: I nomi e le cose – L’epopea dimenticata. “Husserl – spiega Sini – scorgeva nel cavaliere fiero e sprezzante del pericolo che, chiuso nella sua corazza, precedeva senza timore, incurante del diavolo e della morte, il cammino della fenomenologia”. Oggi come allora, sostiene il professore, la filosofia – per vedere le cose con sguardo puro – deve evitare di cadere in due tentazioni: “l’oblio del linguaggio (la morte) e la sopravvalutazione delle parole (il diavolo)”. Secondo Sini infatti, il segno mai coincide con le cose, “le parole non sono cose”. Il linguaggio è piuttosto un automa, il primo grande artificio costruito dall’uomo. “E’ un’eredità. Ciascuno di noi è parlato dal linguaggio, vero e proprio pacemaker del pensiero. Quel che manca è la consapevolezza che parole e cose sono inscritte insieme nella storia”. Per Carlo Sini la filosofia non è né scienza né poesia: “essa deve procedere, come il cavaliere, con coraggio, verso la cosa stessa”. Le parole hanno senso ora, ma sono sempre postume. Posticce. “Non tutto può esser detto in ogni tempo”, sentenzia Sini. Ecco allora che per giungere alle cose, al sapere dei segni, occorre esser consci che la nostra mentalità presente, non è eterna, unica o universalmente vera, bensì un prodotto, transitorio, come tutti gli altri. Nietzsche si era reso conto di questo fatto, quando nel 2° aforisma di Umano troppo umano parla di un filosofare cieco. Cieco perché ignora che la storia dell’umanità è ben più lunga di quella che i loro occhi possono vedere. “Dobbiamo recuperare la storia, quella di tutti – continua Sini – nella consapevolezza che abbiamo un rapporto vivente coi segni del passato. La cosa cammina la parola. Le parole fanno transitare le cose sin dove possono, poi nasce l’esigenza di creare parole nuove, perché queste non bastano mai”.
L’epopea è, secondo Sini, la sostanza di ogni cosa. “La verità assoluta è nel transito, nell’abbandono dei saperi superstiziosi. La filosofia è l’avvocato della vita, direbbe Nietzsche, il ricordo della vita che è transitata, transita e transiterà. Ridar voce all’epopea dimenticata, al sapere dei segni, significa anche non cadere nelle illusioni scientistiche di tanti nostri contemporanei, che credono con un paio di molecole, di avere risolto questioni che attengono l’umano”. (Jessica Bianchi)