
Andrea-Zanzotto di Andre-Aciman il paesaggio come stato d’animo
Andrea Zanzotto (Pieve di Soligo, 10 ottobre 1921 Conegliano, 18 ottobre, 2011), nasce da Giovanni, pittore e professore di disegno inviso al fascismo, e da Carmela Bernardi, consegue il diploma magistrale nel ’37. Ottenuta anche la maturità classica (’38), si iscrive a Lettere a Padova: tra i suoi maestri ci sono Diego Valeri e Concetto Marchesi. Sono anni densi di novità per l’autore che, oltre a coltivare la scrittura poetica – alcuni testi composti in questo periodo sono inclusi nella plaquette A che valse? (versi 1938-1942), edita nel ’70 – approfondisce la lettura di Baudelaire, conosce l’opera di Rimbaud e Hölderlin, studia la lingua tedesca. Laureatosi con una tesi sull’opera di Grazia Deledda nel ‘42, l’anno successivo è richiamato alle armi: inviato ad Ascoli Piceno per il corso allievi ufficiali, è sospeso dall’addestramento a causa di una grave allergia e destinato ai servizi non armati. Dopo l’8 settembre trova riparo nei luoghi d’origine e, nelle file di Giustizia e Libertà, collabora con la stampa della Resistenza.
Tornato all’insegnamento con la fine del conflitto, per qualche tempo è in Svizzera; dal ’46 prosegue la sua attività in varie scuole del Veneto. Nel ’51 esce la raccolta Dietro il paesaggio, in cui confluiscono gli inediti insigniti in precedenza (’50) del Premio San Babila. Nel ’54, superato il concorso a cattedre, Zanzotto prende servizio in una scuola media di Conegliano; pubblica nello stesso anno Elegia e altri versi, con prefazione di Giuliano Gramigna. Lavora intanto alle liriche poi raccolte in Vocativo, edito nel ’57. Sposatosi nel ’59 con Marisa Michieli, da cui avrà i figli Giovanni e Fabio, nel ’61 accetta di organizzare la scuola media inferiore di Col San Martino, dove svolge per due anni la funzione di preside. Pubblica, nel ’62, le IX Ecloghe; nello stesso anno, sulle pagine di «Comunità», firma un intervento in cui prende le distanze dalle motivazioni che hanno ispirato la raccolta antologica I Novissimi, uscita nel ’61 per le cure di Alfredo Giuliani. Dopo la raccolta di prose creative Sull’altipiano (’64), dà alle stampe La beltà (’68) e il poemetto Gli sguardi i fatti e senhal (’69). Abbandonato l’insegnamento nel ’70 (ma fino al ’75 continuerà a occuparsi di formazione degli insegnanti), Zanzotto licenzia Pasque (’73) e la raccolta Filò (’76) per il film Casanova di Fellini. Attende inoltre alla trilogia comprendente Il Galateo in Bosco (’78), Fosfeni (’83) e Idioma (’86). Insignito di diversi riconoscimenti – come il Premio Viareggio nel ’78, il Librex- Montale nell’83, il Premio Feltrinelli dell’Accademia nazionale dei Lincei nell’87 –, raccoglie parte della sua produzione critica e saggistica nei volumi Fantasie di avvicinamento (’91) e Aure e disincanti (’94). Negli ultimi anni, ha pubblicato le raccolte Meteo (’96) e Sovrimpressioni (2001). La sua produzione poetica, con una scelta delle prose, è stata riunita e ordinata nel «Meridiano» edito nel 2000.
Andrea Zanzotto (1921 – 2012) da “Meteo” Donzelli 1996 pp. 82 £ 16.000
da “Poiesis” n. 10 maggio-agosto 1996
Sangue e pus, e dovunque le superflue
superfluenti vitalbe che parassitano gli occhi,
un teleschermo, fuori tempo massimo.
Dirette erutta e Balocchi
Tu sai che
La città dei papaveri
così concorde e gloriosa
così di pudori generosa
così limpidamente inimmaginabile
nel suo crescere,
così furtiva fino a ieri e così,
oggi, follemente invasiva…
Voi cresciuti in monte su un monticello
di terra malamente smossa
ma ora pronta alla vostra voglia rossa
di farvi in grande-insieme vedere
insieme notare in pura
partecipazione e
naturalmente, naturalmente adorare
Che ridere che gentilezze che squisitezze
di squilli e vanti per la sorpresa infusa
a chi nella note ottusa
non potè vedervi aggredire-blandire
il monticello che fu le vostre mire!
E sembra che là installati
solo ardiate di sfidare a sangue
per nanosecondo il niente, ma
deridendoci, noi e voi stessi.
nella nostra corsiva corriva instabilità e
meschina nanosecondità –
sì quel vostro millantarvi
e immillarvi in persiflages
butta tutto ciò che è innominabile
fuori dal colore
del vostro monticello seduttore…
Un saluto ora non bizzoso, tutto per voi-noi,
sternuto
*
Topinambùr* tuffi del giallo
atti festivi improvvisi del giallo
gialli brividi baci
bacilli-baci
*
Topinambùr
to to torotorotix
augellini lilix
lontani insettini di
vespificato giallo
Ur-giallo lilix
*Pianta erbacea dai fiori gialli accesi che crescono spontanei lungo i fiumi, diffusissima nell’Italia settentrionale
Commento
Dopo dieci anni di silenzio Andrea Zanzotto stampa questo libro di versi Meteo (1996), «Incerti frammenti» li chiama l’autore; alcune poesie sono di discreta lunghezza, altre sono brevi frammenti. «Più che in passato – scrive l’autore – l’idea che per la poesia non esiste un punto terminale, quello che una volta si diceva “ne varietur”, si è fatta più labile. Molto spesso affido questi frammenti alla carta, come mi vengono, e li ammucchio in un cassetto, anche disordinatamente. La poesia non si scrive su carta speciale. Viene a colpi e a lampi». Zanzotto in una recentissima intervista ha ripetuto che «forse prediligo il frammento, che è anche una composizione un po’ lunga e scherzosa, ma di umorismo nero se si guarda bene (ad es. in quello) intitolato “Tempeste e nequizie equinoziali” dove parlo di una specie di distruzione del cielo operata da una serie di fenomeni che non ci danno più l’idea di un cielo meteorologico, come ad esempio il buco nell’ozono che recita: “Mille teatrini in batuffoli, frammenti / nell’insieme dispettosissimi / ora è quanto è rimasto / di un sospetto di cielo…”, con il finale: “Non ottenesti tu forse la massima pratica orgastica / a testa infilata entro un sacchetto di plastica?”.
Trattasi «soltanto (di) uno specimen di lavori in corso, risalenti a tutto il periodo successivo e in parte contemporaneo a Idioma (1986)», spiega il poeta in una succinta nota. Il carattere di frammento di quest’ultimo lavoro non costituisce una «assoluta» novità, ormai tutta l’arte del Novecento aderisce al paradigma del frammento come suo punto terminale. Tutta la poesia del Novecento che si riallaccia alla triade paradigmatica: Baudelaire, Mallarmé, Rimbaud riflette nel frammento lo stato di disartizzazione dell’arte. Ed è significativo che, in casa nostra, sia la scrittura di matrice ermetica, post-ermetica che quella di provenienza neoavanguardistica, abbia fatto riferimento (pur da opposti versanti) ai medesimi progenitori comuni tirandoli per la giacca a secondo dei propri interessi.
Il linguaggio disincarnato, sempre più depurato e rarefatto della modernità si è assottigliato sul filo di rasoio della semantica (sublimata o desublimata che sia) fino a perdere di vista l’obiettivo centrale della parola (poetica e non): il significato. Come ogni vera mistica il linguaggio poetico è divenuto una mistica del medium, un superintellettualizzato riflettere sulle superfici specchiate della dissoluzione della semantica.
Con la modernità si è interrotta per sempre l’abitudine alla lettura ad alta voce della poesia: Ariosto e Tasso leggevano ad alta voce la propria poesia davanti alle corti rinascimentali. Con il Novecento la poesia è divenuta sempre meno «auditiva» e sempre più «ottica»; è questa la vera ragione storica della decadenza della rima. La decadenza del significante ha trascinato con sé anche il discredito per la rima. Il sistema perfettamente rimato e ritmato della poesia pre-moderna (di Mirycae) è colato a picco per quelle stesse ragioni storiche che hanno decretato il decesso della rima. Oggi, probabilmente, una poesia perfettamente rimata e ritmata assume (che lo voglia o no) le sembianze del kitsch. Concetto questo che aveva ben chiaro Zanzotto che lo ha sviluppato nell’ambito della cultura del post-sperimentalismo.

andrea zanzotto
Già Poe sosteneva la tesi secondo cui una poesia deve essere breve, lunga non più di una pagina, tanto quanto possa essere contenuto nel respiro di una lettura. Oggi i poeti avveduti sanno bene che è problematica la sopravvivenza della forma-poesia dallo stato anoressico ed aurorale del frammento. Indubbiamente, un’arte che voglia sottrarsi al suo compito decorativo non può che finire che nella balbuzie e nell’afasia. Una poesia come questa di Zanzotto non intende assolvere ad alcuna funzione sociale o decorativa. Con la sua tendenza non-decorativa questa poesia pende sul piano inclinato della incomunicabilità, del proprio essere superflua. Se parlare di poesia a-sociale è una contraddizione in termini, come può l’artista impedirsi di consegnare al pubblico i suoi prodotti? Se persino essere antisociali rientra in qualche modo nella logica della socializzazione che ilo mercato globale impone, il problema è appunto: come si deve essere? Come si deve scrivere? Qual è il ruolo sociale che il poeta intende occupare. Verso quale paradigma dirigersi?. La poesia di Zanzotto rastrella dovunque le proto-associazioni, i proto-vocaboli, i proto-simboli, ovunque si annida l’iper-razionalità dell’irrazionale essa è: che l’arte è espressione dell’inconscio et similia. L’irrazionale si manifesta qui con tutto il suo impeto privilegiando gli scarti, le associazioni semantiche. Sì, è vero, il mondo viene visto di nuovo e per la prima volta con immediatezza soltanto dai bambini e dai primitivi. L’opera di Zanzotto anela a un nuovo primitivismo ma in questo modo periclita nell’irrazionalismo dell’inconscio semantico. Di colpo, anche in pittura, nasce un nuovo linguaggio: l’opera di Cézanne, Van Gogh e Gauguin sta lì a dimostrarlo. Ma questo Zanzotto più che un nuovo linguaggio appare essere l’estrema propaggine di una civiltà poetica giunta alla stazione della propria esilarante gassosità. La vocabologia, esilarante e raffinata di certi composti verbali e associazioni semantiche, non può cambiare poi le carte in tavola di ciò che hanno prodotto le poetiche dello sperimentalismo semantico. Siamo nella fase discendente dello sperimentalismo.

andrea zanzotto
Zanzotto prende atto della crisi irreversibile dell’italiano: «Scrivo ormai sempre meno in dialetto. Con la catastrofe che incombe sopra l’italiano, sempre più minacciato nella sua realtà linguistica da infiltrazioni di ogni genere, sento di più il bisogno di riavvicinarmi alla lingua da consolidare» (intervista citata), e della crisi irreversibile della lirica. Zanzotto ritorna alla lirica dalla meta-lirica; prende atto del decesso dell’ironia in poesia, ritornandovi dalla meta-ironia, che sarebbe poi la formula di Duchamp: la bellezza dell’apparato semantico, si trasforma in una trappola di incertezze e confusioni. La lessicografia di Zanzotto è ambigua e infirmata anche perché sottoposta all’operazione della meta-ironia. Questo fenomeno di inversione di attrito semantico ottenuto mediante l’etimologia immaginaria, è particolarmente adatto allo scarto breve, al frammento, alla gassosità di uno sfrigolio semantico. Come “l’incontro di pugilato” di Duchamp non consiste nella lotta di due pugili in un ring ma negli assalti di una biglia da combattimento contro tre bersagli collocati su tre cuspidi le cui deflagrazioni fanno saltare un sistema ad orologeria che provoca la caduta di due arieti, questo Meteo di Zanzotto adotta il paradigma meteorologico («esantemi teoremi», «la città di papaveri», «Topinambur» etc.) quale sostituto del paesaggio reale. Insomma, paradossalmente, la lirica della natura viene riabilitata (tra scoppi di risa avrebbe detto Fortini) da una meta-lirica del paesaggio.
(Giorgio Linguaglossa)
[Il linguaggio disincarnato, sempre più depurato e rarefatto della modernità si è assottigliato sul filo di rasoio della semantica (sublimata o desublimata che sia) fino a perdere di vista l’obiettivo centrale della parola (poetica e non): il significato]
sono completamente d’accordo con questa analisi di Giorgio. Tempo fa, non molto, dopo aver letto “Conglomerati” dell’ultimo Zanzotto, mi sono trovata nella deplorevole situazione che mi capita di tanto in tanto, cioè di aprire un libro leggerne le prime cinque pagine e chiuderlo. Ma nel risistemarlo nello scaffale della libreria, mi sono sentita oltre che amareggiata per l’aver speso 10 o 15 euro, anche “tradita” non so bene ancora da cosa o da chi!
eppure capisco la sperimentazione di fine Novecento che arriva a lambire l’incomunicabilità poetica, perché incomunicabile sembrava (e forse lo era) essere diventata la realtà e la lingua in quel periodo. Il problema è che arrivare a chiudere un libro dopo averne letto solo cinque pagine, vuol dire anche che essere arrivati a quel punto estremo di sperimentazione, non è realmente servito ad arrivare in nessun posto!
Anche io come Ambra Simeone non ho mai capito Zanzotto, eppure qualcosa di Zanzotto in me è rimasto incagliato, nel mio inconscio poetico, per lungo tempo, fino alla sua completa rimozione e riabilitazione.
Anche io come Ambra rimasi deluso dopo aver comprato e letto il mio primo libro di Zanzotto, Galateo in Bosco, pagato in lire allora e che pesarono non poco sulle mie finanze di studente squattrinato. Lo lessi e appuntai una nota, “un nai…e un cimitero d’ossa” (conservo il libro e l’appunto). Scrissi anche qualcosa che potevano essere dei versi e li conclusi con un “arf arf”.
Poi misi via il libro.Lo incastrai tra quelli di filologia germanica e Beowulf ululò per tutta la stanza contrariato.
Non è più tempo di meta-ironia, credo.
Ho conosciuto Andrea Zanzotto come un signore di squisita gentilezza (come Mario LUzi, del resto) anche nei confronti di poeti più giovani e molto meno noti come ero io in alcune serate a Venezia e soprattutto a Mestre, dedicata alla Poesia in dialetto veneto, dove Zanzotto , accostato a Biagio Marin, venne letto da Marco Paolin. Amava la sua terra e la natura e anche se aveva abbandonato il dialetto le sue poesie parlavano dei luoghi in cui era nato e vissuto con amore. Condivido la critica di Giorgio Linguaglossa anche se non ho amato Meteo, ho letto, volentieri invece Sovraimpressioni con i versi vicini alla poesia Modernista che lo porta in alto.
Lidia Are Caverni
Ho incontrato Mario Luzi in occasione di un premio di poesia, Viareggio Carnevale 2000. Ricevetti quel premio per la mia prima pubblicazione, Le Vocali Vissute, libriccino che ha il solo merito di non assomigliare a nessuno e di parlare di sperma. Luzi era in giuria, ed io, ricevuto la mia bella pergamena, mi avvicina a lui per stringergli la mano, pieno di ammirazione e gratitudine. Luzi, con il suo viso dal profilo tagliente di ebreo furetto, mi voltò le spalle lasciandomi con la mano tesa. Subito dopo abbracciò e baciò una poetessa che come me ricevette la sua bella pergamena. Bella donna, la poetessa.
Per anni ho pensato a quel suo gesto, mitizzandolo in negativo, che non mi è sembrato tanto gentile e onesto…
rievoco una serie di poeti escrittori nel poemetto criptico SERENDIPITY: cioè coloro che hanno bisogno estremo di gloria, e coloro che affosso (come i nemici scrittori di Orte ( che AMO). Su Zanzotto mi esprimo così
(dopo che ebbe lodato per sua gloria le mie Legioni!):
—
Gli ossi, la casa e il doganiere non hanno senso per me
e pure le altre corti, ignare, che ci circondano gementi.
Coraggio, entriamo gioiosi, nati ieri, nella Villa accesa.
Le mie Legioni hanno bisogno di scongiuri: che auguri, ZanZan!
Contro tutti difendo la celeste AMO dai compagni
e dalle capre, dai falchi, con eurovigore!
—-
il primo verso è per Montale -il secondo è per coloro che lancora lo sopravvalutano – il terzo è una celebrazione di Emilio Villa, che stacca per tantissime lughezze il nobel – il quarto è per Zanzotto, che tuttavia ne esce da me abbastanza bene – il quinto altra celebrazione per l’amor mio prediletto Ortese; e allora dopo Pirandello, Ortese, e quindi Fo (una batosta per il poeta tradizionale: poi… ma ci metterei Arbasino!) – i nemici di AMO: Compagnone (compagni), La Capria (capre); i falchi (qui, chi è non mi ricordo).
a. s.
Vi racconto un aneddoto. Durante i primi anni della rivista “Poiesis” che facevo insieme a Giuseppe Pedota, Laura Canciani e altri minori nei primi anni Novanta, spedivo la rivista agli indirizzi di poeti vari insieme ad alcune domande sulla poesia. Nel numero successivo della rivista pubblicavo le risposte pervenute tutte insieme (NON HO MAI CENSURATO NULLA E NESSUNO).
Un giorno ricevo una cartolina a firma di Andrea Zanzotto con su scritto:
“gentile Linguaglossa la ringrazio per l’invito a rispondere alle sue domande ma, visto l’indirizzo preso dalla rivista, ritengo di non dover rispondere ad alcuna delle sue domande. Saluti. Andrea Zanzotto”.
La risposta mi meravigliò alquanto. Dunque, pensai, Zanzotto ha intravisto che la rivista non è di quelle che fanno operazioni di fiancheggiamento, non è di quelle che suonano il piffero verso i poeti celebrati. E allora perché darle un sostegno (anche se indiretto) con un articolo a mia firma? Questo era il messaggio sotteso a quella cartolina postale.
Io non potei che prendere atto della meschinità di un tale punto di vista, attento solo alla convenienza immediata e alla laudatio personale.
Io ho un aneddoto su Zanzotto da raccontarvi: non sono mai riuscito ad aprire un volume di Zanzotto: è stato un “traffichino” della cultura italiana e non si capisce niente di ciò che scrive. Se non apprezzo l’uomo, e non capisco niente di ciò che scrisse (comprendo i massimi campioni della non chiarezza, tipo Heidegger o Wittgenstein, e non capisco Zanzotto: mi domando, forse Zanzotto è inutile alla storia della cultura mondiale), diffido (pre-giudizio). Con tutti i documenti storici che ci sono da studiare, dalle iscrizioni geroglifiche alle epigrafi della Legio IX Hispanica, dai codici romano-visigotici alla letteratura araba, dai trattati bellici del Cinquecento agli scritti di Comte, dai discorsi di Mussolini alle canzoni dei CCCP, è necessaria una selezione a priori, fatta con l’occhio critico (pre-giudizio) del sociologo e dello storico. Per una fisiologica legge di economia della ricerca, semplicemente Zanzotto non mi manca.
Topinambùr* tuffi del giallo
atti festivi improvvisi del giallo
gialli brividi baci
bacilli-baci (A. Zanzotto)
Il cavillo è un animillo
piccillo che galippa galippa
Ajeje Brazorv! (I. Pozzoni).
Il mio è uno sperimentalismo.
Caro Ivan, ciò che hai scritto or ora dovrebbe valere anche per Dante Alighieri: vi sono centinaia dei suoi versi (spece nella Commedia) ancora oggi incomprensibili agli specialisti! – “non si capisce niente di ciò che scrive”, e allora dico: sforzaTi! – l’Almerighi per esempio, nel blog, fa con me il sarcastico poi che incapace di spiegare una mia strofa, che tra l’altro è di una chiarezza palese! Gli da fastidio che io sia un rapido (scrive riferendosi a me: “fermatelo”), mentre lui è appena un triciclo scalcinato. – Se volete fare i critici, fatelo! ma con stile, ma tutto ciò sottende una vastissima cultura. Poi dovrebbe essere una gioia cercare le fonti. – I Poeti non sono oscuri, sono oscuri i lettori. La Cvetaeva rispondeva ad un lettore-amico che ognuno ha la sua oscurità, ebbene diceva “Io penso alla mia, e voi pensate alla vostra!” – Con la differenza, aggiungo, che l’Oscurità del Poeta (Dante) conduce alla Luce,e quella del lettore alla Morte! Cerca di comprendere e lo devo sottolineare ogni volta: non è un attacco personale. Quando non si comprende un verso è necessario che il lettore si lasci trasportare dal canto! Questo è essenziale!
George L. mi scrive che devo spiegare con commenti i miei versi. Non sono ancora impazzito! Lo ho fatto una volta come un favore all’Ennio Abate, e mi sono pentito; poi intervenne una poetessa che disse: ” si vuole umiliare un Poeta!”.
Stammi bene e…. meno tensione
Sagredo, il mio “fermatelo” era riferito al tuo multinickismo e alla fregola per il Nobel. Che tu sia rapido, ripido, o altro non so. Per commentare un commento, prima, bisogna capirlo.
Caro Antonio, ci mancherebbe! Niente attacchi/difese: si discute. Preferisco, infatti, de gustibus, al Dante della Divina Commedia il Dante del De Monàrchia, o Cecco. Io non ho intenzione di fare il critico: ho intenzione di fare lo storico/sociologo/filosofo. E, siccome non ho duecento vite, devo selezionare a priori i miei metodi e i miei oggetti di analisi. Per esempio il Gilgamesh gli Insegnamenti di Ptahhotep molti non li comprenderanno mai perché mancano di lingua, di conoscenza storica, politologica e sociologica dei tempi (così come nel caso dello stesso Dante). E, sinceramente, un essere umano non riuscirà mai a conoscere contemporaneamente 85 lingue, padroneggiare storia, sociologia, antropologia, antropologia culturale, economia, politologia, diritto, storia dell’arte, estetica, filosofie varie, biologia, tutte insieme, cioè tutte discipline indispensabili all’ermeneutica di un testo. Quindi, l’oscurità del “poeta” conduce all’oscurità, come l’oscurità del “lettore” conduce all’oscurità (non comprendo come due stessi termini se raffrontati a due tipologie umane diverse debbano condurre a due conseguenze diverse). Quando il “poeta” è oscuro, è responsabilità del “poeta”, e se il lettore rimane nell’oscurità, è libero di fregarsene e di trovare la “luce” in un “poeta” o in un “tecnico” meno oscuro (per esempio, un commercialista). Per me, allenato alla scuola analitica di teoria del diritto (cioè sull’ermeneutica dei testi giuridico/giudiziari) chiarezza è merito, oscurità, cioè estrema vagueness, è semplicemente un modo di nascondere il fatto che non si abbia niente da dire, come accade nella politologia. Il discorso del “politico” è oscuro, in quanto vuoto o fuorviante; il discorso del giurista è oscuro, in quanto vuoto o fuorviante; il discorso del “poeta” è oscuro, in quanto vuoto o fuorviante. Ciascun discorso “tecnico”, e il “poeta” è antropologicamente un tecnico, similmente, ad esempio, a un biologo, un medico, un direttore amministrativo, se è “oscuro”, non verrà considerato, conducendo nella tomba anche i contenuti del suo dire. Dice bene la Cvetaeva «Io penso alla mia, e voi pensate alla vostra! [oscurità]», nel senso: io, autore, curerò, avrò cura, di essere meno oscuro possibile; tu, lettore, abbi cura d’essere meno ignorante possibile. Perché dall’incontro tra a] un autore chiaro e un lettore colto nasce un fine dialogo; b] tra un autore chiaro e un lettore ignorante un’occasione sprecata; c] tra un autore oscuro e un lettore colto, lo smascheramento dell’incapacità dell’autore (cioè la non attenzione) e d] tra un autore oscuro e un lettore ignorante, nasce l’Italia.
Perdonatemi, ma il fatto che il critico debba possedere una cultura enciclopedica per poter interpretare le oscurità dei poeti (grandi e meno grandi) fa parte di una certa mitologia. Quello che io personalmente desidero da un critico contemporaneista (gli studiosi di settore sono accademici specializzati in alcuni autori o in uno o due secoli, ma sono un’altra cosa, non possono essere considerati critici di poesia contemporanea), è che sappia indicare gli elementi di discontinuità e di novità di un’opera rispetto a un’altra. Poi, può anche sbagliare interpretazione di uno o più passi ma questo non significa nulla.
Il critico deve indicare il valore ma non gli si può chiedere di avventurarsi in interpretazioni di dizioni linguistiche oscure o catafratte.
Spesso i poeti infarciscono le proprie poesie per intimidire il lettore (e il critico) e ammonirlo a stare in ginocchio dinanzi ad Orfeo che canta con la lira (vedi De Signoribus). Ma, signori, suvvia, soltanto un critico sciocco o interessato può prendere sul serio le oscurità pretenziose di un De Signoribus.
Quanto alle didascalie, io non ci trovo nulla di male se un poeta mi mette in calce una didascalia che mi facilita la lettura di un testo, visto che non sono un tuttologo e non ho una cultura enciclopedica.
Io recentemente ho scritto ad un autore che mi aveva inviato un suo libro di poesia che «non possedevo le chiavi ermeneutiche per entrare dentro i suoi testi». Credo che questo sia un contegno onesto. Quella poesia non mi diceva niente di particolare, era ben fatta, ben tornita…
Giorgio ha anticipato il mio commento che, avendo un blocco della rete internet, volevo introdurre alle 18.30, e che è uscito adesso. Pur senza inerpicarmi su una discussione sulla natura antropologica del “critico”, interessantissima, sottoscrivo Giorgio: « Il critico deve indicare il valore ma non gli si può chiedere di avventurarsi in interpretazioni di dizioni linguistiche oscure o catafratte». Bellissimo il termine catafratto, che fa molto cavalleria sassanide (o i clibanarii del tardo-impero romano).
Quanto alla fregola per il Nobel… caro Almer… è una autoironia semplicemente… ma siete pieno di acidità e di fiele… e la giostra, i tornei e le finzioni non sono affar Vostro, come non è affar Suo la Poesia poi che non sapete cosa è uno specchio! : potete leggerla, commentarla, ma “farla” non è alla Sua portata. Il Poeta non ama la sua Poesia affatto poi che è un condannato a vita! Al Poeta si risponde con stile, come fa Giorgio o il Pozzoni che usano il cervello. Sono costretto a scrivere così, come sempre nei tempi della privazione al Poeta rubano gli occhi, perché gli altri sono sprovvisti di visioni! Abbiate pietà di me, più che compassione, poi che sono umile e generoso e non v’accorgete nemmeno di questo!
Se si ricorda, caro Sagredo, quando esordì sull’altro blog, io fui il primo a riconoscere il valore della sua poesia. Il problema è uno solo, bisogna presentarsi sempre col proprio nome, come fanno quasi tutti, lasciar perdere gli sparapizza e affini, non esagerare a utlizzare poesie (a decine) per commentare spesso fuori luogo: per cu isi faccia qualche domanda, è la mia acidosi o la sua totale mancanza di netiquette? Io non discuto il poeta, ma la persona limitata che racchiude in sé. Fortunatamente Lei non è la Sua poesia, almeno al 60%.
“Abbiate pietà di me, più che compassione, poi che sono umile e generoso e non v’accorgete nemmeno di questo!”
Sicuro di esserlo, egregio Sparapizza?
Giorgina Busca Gernetti (detta da Lei “Costei”).
Metanoia
Quel furore inusitato che m’hai prestato in contumacia è una meraviglia
che solitaria brucia sugli specchi come una sfacciata ipocondria,
ed è avvizzito il suo delirio sulla volta di una quinta deformata
per il grido di un numero che sfidava in moto la materia oscura.
Ma sul libro è spento lo spasimo di Palermo che un ferino giorno
declamai per il mio disprezzo, e per quella gloria che il marmo
mutava in corona siciliana l’Omero che riconobbe in un signore
il mare, che s’apriva al suo passaggio e alla schiuma dei cavalli in corsa.
Non riconosci nei miei versi il sublime duraturo e il filiale affetto
che nell’anima agita la tua ascesa, e la baldanza di chi ritorna alla lettura
per ritrovarsi alle cinque fonti… umile, senza enfasi, ti sei rinvigorito.
Ma quei poeti sono luridi nel loro circolo mediocre, e mortale!
E mi sento fuori dell’urna in questa primavera, nei pigolii inermi delle gemme,
e dell’infanzia non sai godere il mio furore giacobino in usufrutto – ma la città
si concede ai requiem, ai canti di cera dei crocicchi – e la mia pietà, Anna,
cortese ammira dal tuo celeste, e la rovina che mi tallona il sangue, e la mia vita!
antonio sagredo
Roma, 7 marzo 2011
“Non capiscono nulla” – disse Cristo a Giovanni – ” è la luce che manca a costoro, al posto di occhi hanno coltelli”.
“Tu mi costringi a rompere gli argini per elevare i miei confini,
conosco i miei limiti insaziabili, i ricatti dei patiboli deserti.”
(da Requiem futuro – 1999)