
antonio sagredo teatro abaco1971 skomorochi con A.M. Ripellino
Antonio Sagredo. Dicono che sia nato nel Salento nella prima metà del novecento… a pochi chilometri da Giulio Cesare Vanini (a cui ha dedicato un poema), da Carmelo Bene e Eugenio Barba; il primo lo frequentò con discrezione somma, e gli dedicò versi immortali. Fu frequentatore assiduo di quei teatri d’avanguardia romani e non, di cui conobbe autori e attori; recitò in due spettacoli teatrali: nei drammi lirici del poeta russo Aleksandr Blok e in uno spettacolo del poe-ta praghese Vitězslav Nezval, che inneggiava ai progressi della scienza della comunicazione. Sagredo studiò e visse a Praga calpestando gli acciottolati insieme ai poeti praghesi e a Keplero. I suoi primi componimenti, a 14 anni, in un vagone di terza classe (seppe tempo dopo che Pasternak e Machado viaggiavano nella stessa classe, componendo); distrusse i primi versi, i secondi e seguirono altre rovine; trovò un impiego di ripiego per nascondersi; poi raggiunse una forma inclassificabile tendente al sublime che gli permette di vivere di eredi-tà auto-postuma. Un amico poeta spagnolo, M. Martinez Forega, lo spinse a pubblicare due piccole raccolte di poesia a Zaragoza: Tortugas (Lola edito-rial, 1992) e Poemas (Lola editorial Zaragoza, 2001); sulle riviste: Malvis (n. 1) e Turia (n. 17). Poi nulla più, fino a che da New York, la scorsa estate, gli giunse una proposta di pubblicazione con Chelsea Editions.
Oriana
Se l’ignoranza è vita, che sarà
dell’ignoranza rinnovata dalla vita?
(parafrasi da V. Holan)
Questi putridi anni…
Non è un venerdì
viola – di passione nemmeno l’ombra –
non è un rauco presagio
un tremore di ghiaccio
uno sgomento marcito
uno stupore d’obitorio
è una liturgia questa tecnica lirica
una dissipazione…
Oh, Dio, perché non esisti davvero,
“ti amerei di più” – come disse un poeta –
ti accetterei anche incestuoso
coi tuoi parenti vicini e lontani,
ma il fatto è che tu esisti davvero
e questa è la nostra tragedia!
Ma la tragedia è una farsa cucita coi nostri sogni pelosi
e non è ancora la Notte delle ceneri
una notte greca di vigilia
una notte di dettagli e di litanie
non è la notte del salmista
che recita:
Mi aspettava sulla torre più alta
sull’ultima torre dai merletti sinistri
mentre il falco rosicchiava l’orecchio destro
l’artiglio beccava le froge e l’occhio basedowico,
ma la vita non ama la risurrezione a richiesta
quando il suicida gioca d’anticipo sulla risposta
e avverte le gazzelle che il salto è più esteso dell’essere!
Cosa ne è del corpo quando finisce il sogno?
Il nodo è: se diligenza o freccia rossa…
va a finire come la favola… scorsoio o gordiano?
ma è più veloce e gradito lo zoccolo duro del suono!
Il necrologio non ama gli addii,
gli sventolii dei nastri funebri
o i lamenti mestruali delle puttane
quando il cavatappi giudaico si muta in rasoio.
È quel prima e quel dopo,
quel tic-tac metafisico
che sconcerta la carezza scimmiesca… e la domanda:
c’è un qualcosa o un qualcuno con cui giocare
a nascondino con l’immortalità
o discutere sui tarocchi con l’eternità?
Ma non è così…
E così cadono i frutti dell’essere,
come Luciferi!
La Natura c’era prima che uscisse dal cilindro
umano di Dio.
O era un coniglio?
Non certo una colomba,
e se bianca l’azzardo è una farsa.
Ma i corvi, allora?
– A Dio manca l’anima – disse il Poeta-
non vede se stesso, ha paura…

teatro Politecnico 1974, Antonio Sagredo
Lo specchio s’incurva prima del Tempo!
I frutti distruggono il giardino, delizie…
Pure è incarnato l’albero, e il patibolo
geme come una banderuola di sughero su tumuli e cipressi!
– Avevate ragione, Lazzaro, si risorge solo per finta,
altrimenti è terribile il viaggio verso l’ignoto!
Un sentiero di rame… martelletti, timpani…
i rimorsi mi squillano le tempie!
E dietro di me la casta Verbania che ridacchia col suo mento peloso
e dissimula le lacrime con gli occhi di Eleusina,
e i grani purulenti di un requiem… scabrosa letania
era la mia maschera saldata in piombo di Sassonia,
era caduta in prescrizione la mia aristocratica rovina,
come un recitar cantando la passione sottratta al gesto recidivo.
Sul rogo la vastità assordante della carne,
quale canto il carnefice in lacrime scarnifica?
Un applauso d’ossa che non fosse come la lancetta
che misura il ritorno infame dell’eterno…
Federico,
io amai la tua arte del volo,
l’ogiva
e quell’arco moresco,
la tua mente che condanna in contumacia
l’antico ordine imperiale…

Antonio Sagredo, anni settanta
Non posso fingere l’infinito come il vostro poeta – mi disse –
tanto meno esser più grande del cordigliero aquilino
o più lento del tardo e saggio passo latino.
Non posso – mi disse – che celebrare l’inventore del numero,
sperare che la babilonica Roma uccida se stessa…
l’interdizione mi reclama e sventola i ceppi, come vessilli!
Come se i giorni non sapessero il passato futuro d’Oriente!
– Devo scendere al Sud, qui solo è possibile il canto e il volo!
L’epitaffio – mi disse – è una gioia postuma, come la Poesia
o come la delusa Oriana che al Trivio delle Blatte incontrò il surrogato
di un uomo o un qualcosa che non posso dire indicibile,
come il mistero della fede a gettoni.
Ma la ragione – aggiunse – ha fine
e inizia col mercimomio delle stimmate:
prostituzione del sacro è epifania del profano!
Ah, i tempi pagani…
quando su ogni gradino c’era un sogno ad aspettarti,
quando nelle fucine il tabernacolo era sugli altari
e il volo degli ossessi… erano bianchi di sangue!
Demoni e angeli hanno generato un serpente sulla croce
e il vessillo lupesco delle notti,
perché le danze di Golgotha e Valpurga
generassero il canto del falco
che sanguina, sanguina…
Sapete – mi disse – anche la castità ha il suo prezzo taurino:
non riflette il sesso di una donna, ma il suo male oscuro!
E non c’è tormento minore che recitare sul palco la purezza
di una misericordiosa colomba dallo sguardo equino,
e le sue ali che non hanno immacolata portanza
o l’implume desiderio di una vergine che accetta un finto amplesso!
Che farò io, che dirò in questa Città dei Tormenti senza strade,
non sobborghi, né sentieri, ombre, luci…
dove tutti i ponti hanno la tisi e incestuose ferraglie vomitano
e sputi di ruggine ad ogni passo collerico.
Amanti del retrogrado tempo,
io m’invecchio
disatteso
ai trivi
e sono soffocato da gorgiere barocche!

antonio sagredo, 1966
– Guinzagli obliati – disse il poeta – di appuntite metafore!
Non capisco, parlate più chiaro nel Mese dei Morti,
l’immortalità non è un credito a tempo scaduto.
I suicidi non comprendono la sorte normale,
l’ignominia di una congiura tradita
gli amori dei bramiti autunnali…
ah, l’ostia delle Ceneri!
eclissi – in nero esilio!
Un convivio… le palme… l’acqua…
l’alchimia delle costellazioni.
Accordiamo gli strumenti con gli occhi,
violini, viole d’amore, violette!
le destinazioni agli otto angoli universali,
e che i falchi ricordino più che il volo le traiettorie
sui tamburi africani dove s’impiglia la vista non acuta dei passeri,
gli ex-voto dei pellegrini in gramaglie, metastasi di speranze,
ma il miracolo è un perdono irrisolto come l’estasi
di quella troia di Penelope che tramava mestrui e coiti altrui,
si, si… di quella troia che simulava l’orgasmo ruttando come una chiavica:
il trivio ha fatto ottusa più d’una generazione umana!
E pure così sognava i desideri dei Morti che sono ultramondani
e i sette chiodi della passione unti per una penetrazione spettrale,
l’Imperatore delle Sofferenze altrui!
Il falco… fermato d’un tratto dalla sua stessa statua,
marmo insipiente, vista implume…
venature orientali – incensi!
Il granchio romano spolpava e avvelenava la sua arte…
Maddalena, sono tuoi i sette pugnali!
Scòpati i tredici apostoli!
Oriana, ultima castellana, salutami le tue sorelle!
E altre, e altre ancora che il destino e la condanna
già conoscono – dal futuro!
Marina, Ipazia, Saffo, Emily, Gaspara Stampa!
Un sentiero di rame m’incerta il cammino.
Sono spine d’argento queste foglie d’ulivo.
Il selciato a brandelli era piagato dai tasti deformi del piano,
le note tradivano un refrain per un invito di Risurrezione
alla Bettola delle Scosciate in via Meretricio, 69…
Il festino dei sacerdoti sfogliava le oziosi lordure
e sputtanava il libro mastro e il Verbo.
L’Uomo era in lacrime confortato dal lutto dei demoni:
è dal tempo dei torbidi che era all’indice nero,
perché il dubbio strizzasse le lacrime
dai loro occhi in ceppi!
e i loro pianti bruciati non fossero d’angeli,
ma finzioni di donna le grida di trivio
per mostrare che sono più immortali di Dio
i fuochi d’artificio dei loro piaceri carnali…
per questo esistono gli uomini: non hanno bisogno
di un qualsiasi intervento divino!
“Ah, mi presero gli occhi!” – disse il Poeta.
Girati, Maddalena, non devi guardare la mia corona di spine!
Le spine sono vere, ma io sono soltanto un sosia con l’obbligo
di fare miracoli… penetrare la tua conoscenza, al suo posto, ad ogni stazione
è la mia missione… anche la più alta Giustizia è merda divina!
Apriti, Maddalena, apri il tuo tabernacolo, fammi vedere il mistero!
E non guardare i miei occhi, o vedrai come il male si nasconde
anche sulla croce!
Sono sfinito dalla parte, sono stufo di trombare, trombare, trombare…
Io so che giunsi a Patmos da un finto esilio veleggiando
dalla Tauride sulle macerie dello spirito intramoenia
e non avevo ancora smaltito i miti invernali,
il numero delle notti,
ancora non cantavo gli inni e i carmi!
Il viaggio resterà inattuale, come il cammino riflesso di un bavoso verme
in una cornice d’ambra e d’ossidiana!
Dilaniatemi il sangue!
La vecchiaia non è un conforto se è solo – urina!
Ma quale sangue si poserà sulle palpebre come un vomito di tramonto e di catrame
e si muterà in salmo quasi fosse sorgente di pietà o di purezza?
Una sfera di rovine, di ricostruzioni nella sfera della mia mente:
è “questa altra parte dell’Universo d’un cerchio lui comprende,
sì come questo li altri”, e l’altra sfera in circolo piombata
è il solstizio insonne della carne e della parola
“parecchio inchiuso da quel ch’ell’inchiude”.
– La prossima volta mi metterò il frak, il cilindro e la marsina! –
così la Morte mi disse, come una scosciata accattona sui gradini infedeli
d’una chiesa sconsacrata… aveva il pudore infantile come quello
di una fossa appena scavata per una vergine in gramaglie.
Va bene – le risposi – va bene, io amo il livido lusso premortale
e non ho la libido del lavoro! Per questo il settentrione è osceno:
pensa in calcoli, non in miracoli! La bettola è la chiavica
del suo essere-non-essere, il resto è sterminio da consumare!
Il custode della follia cerca un futuro – non ci sarà!
La follia del custode cerca una risurrezione – non ci sarà!
Cos’è questa corsa in avanti che ci riporta indietro,
forse perché non la vita è mortale, ma la morte, si?
La risposta a una domanda inaccessibile è una risposta.
(Roma, Vermicino, 13/25/29 ottobre 2010)
Pure è incarnato l’albero, e il patibolo
geme come una banderuola di sughero su tumuli e cipressi!
mentre il falco rosicchiava l’orecchio destro
l’artiglio beccava le froge e l’occhio basedowico,
quando il cavatappi giudaico si muta in rasoio.
Quelli riportati sopra sono soltanto alcuni esempi di “metafora libera”, cioè una immagine che si tramuta in un’altra senza un apparente nesso di consequenzialità o di rationalità di sviluppo. Il discorso poetico di Antonio Sagredo è probabilmente l’unico esempio nella poesia del Novecento e contemporanea italiana in cui la tessitura del discorso si regge unicamente sulle differenze di immagini. Sagredo va per differenze e per de-moltiplicazione, non si basa affatto sul significante, non specula sulle virtù taumaturgiche del significante; ha saputo trarre la lezione della poesia di uno Zanzotto nei punti deboli di quella poetica e si è inoltrato per una via difficilissima tutta personale dove nessuno può inseguirlo.
Ho ricevuto il Poema inedito “Oriana” circa un mese fa direttamente da Sagredo. “Potente e dissacrante”, anche irritante, urticante, un generatore di dubbi, e quando pare che i versi esplichino o svelino, in realtà ti accorgi che quelli successivi demoliscono i precedenti senza nessuna pietà.
Sagredo non lascia spazio a nessuna speranza.
Oltre alle belle metafore indicate da Giorgio L. ce ne sono molte altre che s’accompagnano agli aforismi di cui il poema è ricco. Anzi, mi pare che il poema sia composto da una infinita serie di aforismi:
– La Natura c’era prima che uscisse dal cilindro umano di Dio.
– La vecchiaia non è un conforto se è solo – urina!
– Prostituzione del sacro è epifania del profano!
– La risposta a una domanda inaccessibile è una risposta.
Sagredo è irraggiungibile perché non ti offre nemmeno la possibilità di inseguirlo.
G.P.
Sono confuso e imbarazzato da questi giudizi, e mi si offre per questo una grande responsabilità. Non è senza rancore – mediato dalla mia cortese tolleranza – che mi rivolgo a chi osa razionalizzare i miei versi, che possono possedere tanti difetti (andateli a cercare, provateci e vi romperete non solo l’osso del collo, ma pure del bacino e non camminerete – e poi se vorreste avere un miracolo, chiedetelo ai miei versi!) ma sono possenti: di quest’ultimo termine ne ho piena coscienza. a. s.
l’immortalità non è un credito a tempo scaduto.
Ho già espresso all’amico Antonio Sagredo il mio parere: è una poesia così profonda che non si può scandagliare, indecifrabile (la sua “scatola nera” è inaccessibile). Ogni tentativo di interpretarla non fa che renderla ancora più inesplicabile. Meglio il silenzio. Che ogni suo lettore esprima le sue impressioni, l’unico pericolo che egli corre è quello di restare abbagliato e confuso (“e in questa immensità annega il pensier mio…”
“e in questa immensità s’annega il pensier mio…”
Giacomo Leopardi intendeva esprimere ben altro.
Giorgina Busca Gernetti
Qui da commentare c’è ben poco, in effetti è inutile, come dice Paolo Statuti andare a scandagliare la “scatola nera”, meglio il silenzio. E poi Antonio Sagredo è consapevole della superiorità dei suoi versi rispetto al 99,99% della poesia italiana, talmente consapevole che, a volte, gli fa assumere atteggiamenti di superiorità e primazia che però mal si confanno ad un poeta. Di fatto lo si può giustificare, che uno dei migliori poeti oggi in circolazione in Italia (diciamo tra i 3 o 4 dei viventi) non abbia trovato un editore disposto a pubblicargli un’opera è significativo del degrado in cui sono precipitate le patrie Muse, però è anche vero che Sagredo non ha fatto nulla per vellicare la gigioneria e la vanità dei letterati che contano. E quindi i conti tornano.
Ma è bene dire subito che la strada scelta da Antonio Sagredo era la più ripida in assoluto e la più difficile: andare per metafore libere o liberate e poi centrifugate all’interno di un eloquio borghese (e quindi sordido e malfido, lastricato di falsa coscienza e teologemi) non era una strada affatto facile. E poi l’amplissimo spettro lessicale e morfologico del suo linguaggio lo rende inimitabile e revulsivo, ostico a qualsiasi impostazione ermeneutica che intenda entrare nei meccanismi segnaletici e semantici del suo discorso poetico. È come se Sagredo sfidasse i critici ad entrare nella fortezza inviolata delle sue metafore algebriche e revulsive, e si divertisse a constatarne il default.
“Parea ch’a danza e non a morte andasse
ciascun de’ vostri o a splendido convito”
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a Giacomo Leopardi
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Infanzia infinita
Per quanto tu sia cristallina sei inquietante,
(nei tuoi quadranti la crudeltà gioca
la sua parte) tu sei l’antagonista ad ogni legge
del presente, e il capriccio e il pianto sono la tua arma
primordiale, e t’affatichi nel generare intrecci e trame
evolutive, e della storia che ti precede non hai gli assioni
e i cardini su cui puntare il caso, ma il caos iniziale
ti è da guida e non distingue la passione che ti sferza
da una finzione che assegna solo ad uno specchio
l’immensità che ti circonda… e tu sei il centro unico
mancato ad ogni istante di un cortile che invano ti protegge.
Non conosci del cipresso i rami coi suoi funebri latrati, e la sua fine
e i nastri viola che sventolano dietro a una livida corteccia,
un nitrito per vanità equina hai generato e una rivolta
e un sembiante hai scambiato per uno spettro… hai scarnito il trionfo
di un vessillo come un’arteria che non sa il mistero della sua corsa!
Così si rallenta la visione di un pulsare irrevocabile, ed è ingannato
quel diritto che una soglia giudica tradito da un vano speculare.
Il furore e il riso… e ti sei assolto da una condanna inesistente
per una colpa che ti sei inventato inorridita,
e di ritornare umana a malincuore è più che una farsa –
è una finzione!
Antonio Sagredo
Roma, 15 dicembre 2011
(47 minuti all’ora prima)
in questo testo è possibile incontrare un autore che ha raggiunto il suo centro ed è in grado di porsi quelle domande che sono in sé risposte. Nel testo ci sono elementi fisici, concreti, che bilanciano e esorcizzano il metafisico. Direi uno sguardo oggettivo e concreto al metafisico. Così quei -sogni pelosi-, o anche -il salto delle gazzelle più esteso dell’essere.
-Cosa ne è del corpo quando finisce il sogno?(mi viene in mente Pedro Calderón de la Barca)- Il poeta si domanda, e si domanda nel modo dell’uomo, non del vate, o di chi voglia indicare una via; e la domanda non è priva di commozione, anche molto sentita, fino alla caduta su se stessa in -Ma non è così…
Un viaggio che non è affatto immaginativo, ma consapevole e ancorato alla disciplina di quell’essere. Il poeta sa e invia il suo messaggio dove la resurrezione è finzione o -il viaggio verso l’ignoto- sarebbe -terribile-.
Particolarmente accesi quei versi, dove l’elemento fisico spogliato della sua apparenza è visibile in tutta la sua significanza, e il congiuntivo imperfetto la contraddizione che conferma la linea del tempo incommensurabile. -Un applauso d’ossa-.
Altrettanto commovente è l’ingresso di quel nome, Federico, che individua il rivolto di questo accordo inflessivo e soliloquiale, introduce la via tentata della speranza, cui si oppone il disincanto della ragione col suo mercimonio.
Il richiamo ai tempi pagani quando il sogno era inviolato. Lo stesso sogno sognato da Colui che sogna i -desideri dei Morti- che sono -ultramondani-.
Toccante l’esortazione -E non guardare i miei occhi-, la cui sensibilità è profonda quanto carica di realismo cinico. Prende corpo fino a quel -solstizio insonne della carne e della parola-.
Fermarsi su ciascuna strofe è scoperta di un talentuoso quanto prometeico sguardo. Una scrittura che in realtà è scarna. Dove ogni verbalizzazione è calibrata sul senso. Talmente lucida e inesorabile da non perdere per un solo istante il suo potenziale emotivo.
Sagredo, nonostante le mie idiosincrasie, qui lei convince, credo.
Per quel che può valerle detto da me.
Saluti
La Torre finalmente si è sciolta, disincantata non teme più di crollare!
Vorrei fare una semplice riflessione: non è un caso che oggi chi scrive poesia di livello elevato o molto elevato siano poeti che contano all’incirca 70 anni o anche più, come il caso di Antonio Sagredo e di Anna Ventura, tanto per citare due persone che fanno una poesia diversissima sotto l’aspetto stilistico l’uno dall’altra. Oggi per scrivere poesia di alta qualità occorre aver raggiunto una maturità umana e culturale che una persona di 30 anni difficilmente può avere, occorre inoltre aver avuto il coraggio di affrontare un percorso solitario e, spesso, contro corrente, contro i pregiudizi e i giudizi superficiali. Inoltre, non è un caso che questi due poeti provengano dalla periferia, la Ventura da L’Aquila e Sagredo dal Salento (anche se vive a Roma da molti decenni), la periferia è spesso il centro motore delle novità più rilevanti quando il Centro perde la sua capacità propulsiva. Ma, per arrivare a certi risultati occorre tenacia, costanza, resistenza, capacità di saper reagire alle incomprensioni e alle sotto valutazioni con un di più di personalità e di applicazione.
Insomma, si diventa poeti con molta fatica e lavoro.
riflessione condivisibile, anche se credo che il giudizio superficiale possa essere emesso solo da persone incapaci di spingersi oltre la superficie.
Quanto al pregiudizio, esso può barrare lo sguardo in positivo quanto in negativo. Credo sia una struttura molto difficile da demolire, o decostruire.
Caro Giorgio, concordo. Spieghiamolo bene ai giovanissimi: «si diventa poeti con molta fatica e lavoro»: occorre studio, studio, studio. Non basta l’improvvisazione, o l’illuminazione oracolare. Bisogna attendere una devastante maturazione culturale: nel momento storico dell’omologazione coatta, il concetto romantico di “genio” si trova a non avere nessuno spazio. E, inoltre, bisogna spiegare bene a tutti che, sebbene migliaia di individui a cinquanta, sessanta, settanta anni si auto-definiscano “poeti”, “artisti”, “intellettuali”, “studiosi” famosi (quasi fosse un merito d’anzianità auto-attribuibile), i veri “poeti”, “artisti”, “intellettuali”, “studiosi”, maturi e preparati, si contano sulle dita di una mano. Quando brucia la loro lampadina, i c.d. “poeti a illuminazioni” si spengono.
se non c’è talento artistico si può diventare studiosi, accademici, saggi intellettuali (?) non altro, la formazione è importante ma non è tutto
Caro Flavio, a stabilire/definire cos’è il “talento”, ti occorrerebbe, ad ogni caso, addentrarti in un meta-discorso estetico, che è aldilà dell’artistico “puro”.
Caro Ivan, il cosidetto “colpo d’ala” è ininquadrabile, insospettabile, unico. Secondo me, ovviamente, ma non parlo assolutamente di me stesso.
Scrive Ovidio in Tristia: “Senza che me ne accorgessi la Musa mi conduceva al suo ministero. Mio padre ripeteva: “Perché tenti uno studio senza profitto? Omero stesso morì senza lasciare un’ombra di fortuna”. Ero scosso da quelle parole e, lasciato perdere Elicona, provavo a scrivere un discorso non vincolato dal ritmo. Ma senza volere affiorava la poesia con le sue cadenze e qualunque cosa tentassi di scrivere aveva l’andamento dei versi”.
Per il resto condivido pienamente i vari punti di vista fin qui esposti.
Liberati dal Tempo resteremo infine orfani felici
in un dove che Padri e Figli non sapranno mai
che quella riva è un altro uomo, ma una fiumana immobile
scorre mirando del mio corpo il non agire… e poi non più.
antonio sagredo
Vermicino, 22/11/04
Per pietà, dategli il nobel, l’ignobel, il pulitzer e anche la coppa del nonno, fatelo calmare per favore!!!!
Rispondo a George L. secondo cui/lui: “Insomma, si diventa poeti con molta fatica e lavoro.”- –
“Si diventa… : non lo so esattamente; di me so solo che mi sono sempre meravigliato che sia toccato proprio a me quel che sono (ma che sono?) –
so soltanto che è stato un processo naturale e lungo di cui non mi rendevo conto – non avevo consapevolezza – quando l’ho avuta un po’ verso i 22 anni mi son detto che era uno scherzo della natura: non ci ho creduto e non ci ho mai creduto… poi mi son guardato in giro, è iniziata la mia comparazione con altri, degli altri mi son fatto una idea pessima e di me la migliore, e così sono andato avanti – lavoro certo ce ne è stato tantissimo, ma devo dire che non era “disperatissimo”, ero invece allegro e meravigliato, ma la mia cupezza, la parte più oscura dettava legge e da dentro se ne veniva in superficie per divenire parola e versificazione senza tregua – il mio stile s’è formato da solo, come dire quasi non me ne sono accorto, anche i concetti più astrusi si chiarivano attraverso i versi e le figure – il risultato era lo scritto già elaborato dentro, e sulla carta bello e pronto, qualche ritocco qualche trucchetto, qualche altra cosa… e la poiesis
che mi dava la gioia del creare si trasformava in poesia…. più o meno così.
e ora basta! ma devo dire che sono riconoscibilissimo…
a. s. –