da Stige
A giudicare dal lento movimento
dei corvi che in alto nel cielo disegnano vortici
di strida
non ci resta che imitare la conversatione degli Angeli
invetrare e invetriare una lingua tutta nostra
che sia monda dagli stilemi del peccato
e dall’usura delle stelle.
E se il candido Abele è stato ucciso
il giusto Salomone e la corrotta corte
di Babilonia caddero
e il lusso di Creso disparve
quid juris?.
Aeternitas est merum hodie.
Non erubesco meae miseria
plango non esse quod fuerim.
*
Caecata sum da mea libidine
et aurum atque orpella lentescens
supra mei capillum brillabant.

Amedeo-Modigliani-Reclining-Nude-with-Loose-Hair
Ave, Maris stella
tra tutte la più bella.
Ave, gratia plena
io sola sono in pena.
*
Toto pulchro est amico meo
et macula non est in te.
*
In oculos meos sunt ferramenta
in mei auris sunt ligna
in mea mens sunt procella et turbine
et blasfemia mei persecutori resplango.
«Dic nobis Maria
quid vidisti in via?»
Dic nobis. Diabolus clama
blanco pomo et tortile aspide.
*
Illa quae ego amo
passata est ut blanca luna
ut blanca luna in negra terra.
Resplango et piango.
*

Tibi, meo amado, Cherubim et Seraphim…
Tibi, meo amado,
Cherubim et Seraphim
inaccessibili vox proclamant.
*
Laetare et tu.
Quae est ista quae progreditur
ut blanca luna, pulchra ut virgo,
electa ut colomba?
*
Pateat mihi pulsanti janua tua,
iube, queso, atque impera quidquid vis.
Recipe auro argentoque intra meos capillos.
*
Nihil aliud habeo quam cupio dissolvi.
Lieta et electa atque virgo est
mea amada blanca colomba.
*
Lucifero, la stella del mattino,
si desta tra coorti di erranti astri
quae in caliginem transcurrunt.
*
Ego sum flor campi,
surgo pulchra tra i lampi.
*
Tota mea est amaritudine pulchra
nec perspicio aliud quam veneficio.
*
Quando ero giovane e bella
la solitudine del deserto
mi difendeva, benché luxuria
tegumentum meo cerebro frangerem
tamen cogitationibus aestuabat.
*
Si fugero mi sottraggo a morte
si stetero il gladio crudele dovrò affrontare.
*
Nulla securitas est accanto serpente dormire.
Nulla infermitas est accanto angelo dormire.
*
Ignota iacula vibravit diabolus
sed excipientur scuto meo.
*
Icaro in coelo tentò corruptione angeli
et forsitan ideo corruit.
Pietas in haec fiori est crudelem.
*
Et iaculo illius vulnerata respondebo:
«non sunt digna, hoc non est pugnare sed fugere».
Et diabolus dixit:
«immediata et lucida vocatio rerum finitarum».
Stige: misticismo ed eros
Queste, di autori della Mediaetas, sono del resto “presenze” che potrebbero essere confermate dal fatto che Maria Rosaria Madonna, posto che esista, pare sia addentro alle cose medievali, “medievalista quanto a letture”, a giudizio almeno della Rosselli, che così nota in capo al libro. Ma niente puntuali coincidenze di pensiero e di spiritualità con i mistici indicati, le cose stanno in Madonna al rovescio. In loro, il male è il nemico da schiantare con flagelli e cilici, e questo male è sì la lussuria, ma più in senso latino di vita voluttuosa e intemperanza, tanto da confondersi col male in generale. In Madonna invece il male è la lussuria nel senso moderno di passione carnale intemperante, che una disastrosa paideia cattolica o panreligiosa ha demonizzato da millenni, fino a rendere uomini e donne minorati sessuali, spauriti e inetti ad ogni approccio amoroso, con che sconquasso e scasso di storie bellissime è facile immaginare. Ed è un male da estirpare per un motivo solo, quello dovuto ad una nebulia di mente calata da quella paideia, ma col procedere dell’io lirico a più lucido giudizio, quel “male” diventa iocundissima ferita, iocundo delitto, non certo più da cassare dalla carne e dalla mente, ma da aurire anzi e godere come un “male” sublime, che a dirlo non basta la comune lingua, come “insufficiente e improprio” era per Caterina il suo “discorso mentale”, ove “trasferire un’esperienza puramente intuitiva”(Battaglia). Ma stesso quella di Caterina è un’esperienza dove tra eros e ascesi non trovi confine ma limine (lino) consunto e liso da un andare e venire, sì che i due relativi linguaggi si confondono e compenetrano: come in un parlare che fa Caterina di Cristo, che
“nell’ultimo muore nudo in croce, per rivestire l’uomo e coprirgli la sua nudità. Nudo era fatto per lo peccato commesso, perduto avea il vestimento della grazia: sì che sé spoglia della vita, e noi ne veste“, che è un vero e proprio inno alla nudità, detta e cantata e accarezzata in ogni modo e parola che la dice o allude, e alla fine avvolta a mantello su di lei, Caterina, che per riceverla si denuda a sua volta, sia pure idealmente. Ed è nella Senese la “dimensione più segreta”, intrisione di Eros nell’anima votata a Cristo, di Lui innamorata: e così bene espressa che vai a negarla!, come il Battaglia pur fa.
Ancora più mistico e acceso il linguaggio è, sulle prime, in Madonna, ma sempre più vi si mescola lussuria e ascesi, desideri carnali e brama di castigo, di affondare il coltello, incorporare sempre più la sofferenza, fino a sembrare libido o, peggio, una voluptas dolendi. E questo capovolge tutto.
Nasce il sospetto che in Madonna siano fusi paradiso e inferno, o del paradiso gran parte consista in quell’inferno in cui il moralismo sacrestano fa consistere il piacere della carne. È la sacralizzazione della lussuria, che così diventa il sommo bene, il luogo mistico al quale si addice stesso il parlare proprio dell’inverso misticismo. E le sofferenze che nel Tudertino erano il prezzo (impagabile) del peccato originale o della irredimibile indegnità, in Madonna servono a frangere il guscio per raggiungere il gheriglio, il cibo dolcissimo che vi è contenuto: sono insomma il titolo di sconto del piacere sensuale. La dedizione alla preghiera, riecheggiata dalla Regola benedettina[1]; la spietata volontà di sacrificio[2]; la continua, feroce vigilanza sopra i movimenti della carne[3]; perfino la determinazione a non cedere al desiderio sempre in agguato e pronto a balzare in ogni occasione[4] ( ecc…), tutti questi proponimenti e determinazioni, a volte anche deliranti, sono i segni della sua brama di arrendersi, di cedere all’idea sottesa che in fondo il bene è quella passione lì, il paradiso in terra è quello che spalanca l’eros.
Sono i sensi ad esaltarla, è l’Eros che la spinge in alto a vibrare della vita. Tutta lì arresa ai sismi della carne, sta con l’orecchio teso ai boati. La lingua è un metallo fuso, o una nebulia verbale che oscilla tra latino e “italo”, moderno e antico, lingua codificata e neologismo (latrinitas): un andare e venire dal passato al presente e da questo a quello o, che è il medesimo, dall’es alla coscienza: ne sono segni, nello stesso corpo della lingua, l’agrammaticalità, che riflette il magma delle inconsce pulsioni onde quella lingua erompe; o un nominativus pendens (es., “egredientes“), quasi parola sfuggita e lasciata di fuori, come un segno di vergogna (quelli che escono dalle latrine…), per la circostanza indecorosa che accennava; o l’ambiguo uso che è fatto di luxuria, tra il significato latino di ‘eccesso’ in generale, sfrenatezza di sensi e volontà, e lo specifico senso di scatenamento sessuale propriamente italiano.
Una lingua insomma che incastella una “situazione” (desanctisiana) di questa poesia come un limbo sospeso tra erotismo e santità. Ecco, per esempio, dei versi che non sai a chi rivolti, se a Cristo o ad un amante, in una ambiguità esaltata che toglie il respiro: quasi ogni parola è sospesa tra spirito e libidine, e ti coglie la vertigine dell’uno e l’altro abisso:
Si cum tuo licore nel mio core
versato, si cum tuo livore sul mio
onore posato, si cum tuo stiletto in mio
diletto infernato, si cum tua malia
in mia regalia instanato, si cum mea
trebile ardua Canossa supra tue
ossa annerato, sic transeat mea amaritudo[5].
Ti chiedi cosa sia quel “licore“, e cosa intendere per “core” sopra il quale il primo è “versato“, se l’organo eletto a luogo dell’intimo sentire o il suo contenente, il seno denudato; che cosa il “livore” che si posa sopra “onore” (seme?), e se “onore” non derivi da quel dire, una volta, “senza onore” la donna sverginata; di che sia metafora “stiletto” e se “infernato” richiami a dir poco il boccacciano Rustico, romito di Tebaida, che induce all’amplesso la giovane Alibech dicendo che il servigio più gradito a Dio “si era rimettere il diavolo in inferno“[6]; e poi ti chiedi se malia non voglia dire arte di seduzione fascinosa, e se “regalia” rappresenti un medievalismo per dire ‘volontaria sottomissione ad un padrone‘ più che una morale alterezza che si addica a re. Prosegue sì la poesia con “Interceda tunc lux sancta“, ma si consideri che la lux è il segno dell’amante, il tema musicale che l’annuncia, ed è notorio il senso ambiguo del latino sanctus, che è tra venerabile e proibito; e poi ancora ecco il “more ustorio“, il quale, con una paronomàsia giocata in absentia, accenna al “more uxorio“, e insieme vi lega l’ardore della passione che lo incalza.
Vedete che ingegnosi modi d’operare abbia la poesia, e come sia fortemente attraversata da ventate biografiche, pur se d’invenzione[7]. Sia come sia, è sì sfrondata la realtà, come dice il Linguaglossa nell’acuta prefazione, ma non ne è sottratta; anzi piuttosto realtà e storia personale vengono “plasmate” e “stilizzate”, messe a “distillazione”, come pure egli osserva, ma di modo che alla fine il biografico (o una sua invenzione) risulti individuabile, e non solo in filigrana, come presto si vedrà.
A confermarlo, sono già i componimenti della pagina successiva, la 16, la cui cifra caratteristica è un quasi ossimorico dissidio. Se infatti “Nihil ita offendit Deum quam desperatione“, è chiaro che la desperatio è sua, di chi dice io, l’ha già dentro insediata, solo non indotta dall’orrore del peccato ma dai sensi insoddisfatti, perciò ancor più ordinata a muovere offensiva a Dio; e a Dio chiede ciò che stesso Dio vieta e punisce; insomma batte sì alle Sue porte, ma intende di bussare a quelle avverse. Ed è scritto – orrore! – che “petenti datur et quaerens invenit et / pulsanti aperitur“: ma chissà che a far silenzio non si renda percepibile un voluttuoso brivido ch’è lì a rigare dall’interno l’orrore del “Me misera”. Il che dice chiaro che è l’accecamento passionale l’inferno a cui bussa, è il turbine dei sensi, il raptus della lussuria, il solo che abbia presa su di lei (“unicus raptus est luxuria”, che non vorrà dire certo il solo peccato!)[8]. Salvo poi a consolarsi con l’idea che “oratio me consolabitur” e col proposito di sostenere fermamente ciò che piacerà al Signore. Ma subito, sul filo di un’ambiguità evidente, ti chiedi chi davvero sia il Dominus, quale sia la morte estrema, cosa il malum che lei dice breve, o il finis melior che gli terrà dietro: finché trasparentissimo non ti si distende il velame… dell’imene! Così è sempre un oscillare fra gli abissi della carne e quello dell’ascesi, l’es e il Superego: come a p. 21, quando gioca con parole mariane (“Dic nobis, Maria / quid vidisti in via?”) mal celandovi se stessa, la Rosaria, nonché Maria e Madonna, con l’ambiguità del solito “Diabolus” che “clama” o con simboli innegabilmente fallici, come il “blanco pomo et tortile aspide“.
A volte sembra che si tratti dell’ascesi e basta; come, nel severo distico:
Si auditum quoque surdae aures negaverint
nihil aliud nisi Dominum cogitabo[9].
Ora una che si dica questo non è perché ha orecchie sorde, ma perché le ha tese, avide di cogliere profferte, allusioni, che spingono il pensiero lì, al Diabolus che clama, distogliendola dal Dominus (celeste). Pertanto, questa appare ipotesi di terzo tipo sotto specie di primo, e in luogo del negaverint ci vedi un negavissent che castra, nell’ipotesi, ogni traccia di possibile. Sembra dunque un modo della poesia di appresentare un ulteriore sforzo tutto teso a persuadersi della cosa nonostante tutto, sbatacchiandola di forza nel regno del possibile: e il tutto che osta eccolo nell’affollarsi subito appresso di segni contrari, cioè di debolezza della carne arsa d’incoffessabili desideri, rotolante giù per le rapide del fiume che porta alle gole di Eros. Tutt’altro che respinte dalle orecchie sorde, emergono fino da un malchiuso abisso parole che dicono, o cantano (vedemmo in Caterina) la nudità, il languore, l’imminente resa al desiderio fiammeggiante, nemico che assedia e schiera le sue armate senza dare scampo, con sullo sfondo il brusio degli istinti insidiosi annidati stesso nei proponimenti combattivi[10] e nel vacillare della lingua stessa tra latino e volgare, norma e sregolatezza[11] .
Si veda questa laude mariana che comincia con un “Ave, maris stella“[12] e conclude con un grido (“io sola sono in pena“) la cui fonte passionale è dichiarata in un successivo distico:
Toto pulchro es amico meo
et macula non est in te,
il quale ribalta sull’amante una laude propria ed esclusiva della Vergine nazarena. E all’improvviso erompono tempeste e turbini di passione o d’ira: contro i persequentes?, e di chi persequentes?, e a chi rivolgono i loro blasfemia, che in Madonna trovano legnose orecchie?, alla maestà divina?, oppure al toto pulchro, all’amico senza macchia? Vedete come più si spinge addentro l’ascetismo, e più si riconosce o si converte nell’opposto.
Esplode la totale resa, la definitiva offerta. A voce alta ormai, memore del “… si pulsanti aperitur”, grida all’amato:
“Pateat mihi pulsanti ianua tua,
iube, quaeso, atque impera quidquid vis.“[13].
Recipe aureo argentoque intra meos capillos”
(“S’apra al mio bussare la tua porta
ordina, ti prego, e comanda ciò che vuoi .
Accoglimi con l’oro e con l’argento tra i capelli”).
Ormai libera, non ha ritegno a confessare:
“Nihil aliud habeo, quam cupio dissolvi“.
Come Eros si distende nella luce, che spiove sui rimasugli di buio, così la lingua dell’es è a poco a poco abbandonata[14], ma sono appunto i rimasugli, le ultime resistenze, i lampeggianti scrupoli che spingono qualche brandello latino, la lingua del nascondimento. Come quando, nel momento stesso in cui Madonna confessa la sua colpa, ne cela tra ossimori la malia struggente che esercita su lei[15].
E lungo questi segni trovi un luogo sintomatico:
Nel buio Tartaro, perturbationibus
libera et sine margaritas,
precipito sine intermissione.
Vigile sensus vanis cogitationibus[16].

Mario De Biasi_ 1954 stampa d’epoca
La conversione ad Eros è davvero definitiva, ogni esitazione è vinta, essendo ora certo che il suo paradiso è la liturgia d’amore[17]. Gliene dà diritto il lungo, furioso digiuno, che ora dunque si profila come un’astinenza indebita e giustifica il suo vivere finalmente per l’amato, lasciarsi spingere da lui “verso il fuoco della gehenna“, aspettarlo “come una famula offerta all’amplesso / del Dominus“, paziente “come una farfalla / che attende la sua corolla“[18]; da menomata dell’amore, adesso è lanciata in un galoppo inarrestabile[19]. Perfino il sonno è popolato dalle immagini amorose, come lo è di prodigi quello dei santi; un leggero sonno, da cui è pronta a balzare e a trasformarsi in docile strumento di piacere[20], e rimprovera l’amante di accendere le sue notti di “pallidi fuochi” dopo averla spinta “verso il nucleo della scherma / con intentione assidua e ferma“[21].
Bisogna che cambi modo d’essere la natura (l’adunaton “finché l’argento non sarà più argento“)[22], perché di nuovo possa intimorirla il volto di Medusa, il moralismo antico ora sepolto in un oscuro Medioevo, quando si era solo delle spoglie morte, mummie dentro sacchi lussuosi. Ora invece sa che
i diavoli sono come gli uccellini
provengono dalla luce e dalla gioia
e non a schiere innumerevoli
ma alla chetichella, uno ad uno[23].
Ciò che era inteso come male, è invece l’innocente “luogo ove sostare“, così mutate sono ora le cose. Il nemico da combattere (Medusa[24]) non sono più gli istinti, sembra, ma gli scrupoli morali, i pentimenti, la “coscienza fusca”. Certo, Medusa può essere, inversamente, il volto lusinghevole del male, che “ti fa di smalto”. Ma vedi la potenza di questa lusinga della carne, di questo nemico che impone uno smisurato armamento, tale che a nomarlo si ricorre ad un armamentario di adunata : e per converso, vedi la debolezza della donna e l’autonomazione aggettante ad un impasto di elementi contrastanti, quale una forma angelica animata da uno spirito diabolico[25], o una forma diabolica animata da uno spirito angelico[26], o ancora una donna innamorata di “un uccello nero” che “deambuli / tra le lanterne e i fanali / della città del peccato, di uno che “passi sui corpi delle vittime / sacrificali“. Insomma questo amante sembra uno degli inferni dèi che la soggioghi e la trascini nella propria stanza “piena di vento” col suo stesso “incendio e danza / di fuliggine e di neve“[27] e ammantato di “ingorda nequizia” le scagli sul viso disprezzo e scherno[28] .
[1] M.R.Madonna, Stige, cit.,: “oratio sine intermissione”- p.13; “nec cibus nisi oratione praemissa / nec luxuria nisi intercessione gratia” – p.14 (Nella Regula si legge: Nec cibus a te sumatur nisi oratione praemissa).
[2] Ivi: “dove sono le catene / dove gli schiaffi / dove gli sputi / dove la flagellazione” – p.12.
[3] Ivi: “sempre pronta come un soldato di Cristo / offro a sera il sacrificio vespertino / con la lampada accesa” – p.12; “Horam tertiam, sextam, nonam, / diluculum et vesperam” – p.14;
[4] Ivi: “se… qualcosa / di turpe ascolto, non capisco” – p.12; “Egredientes latrinitatibus… regredientibus de platea…” – p.13; “Nihil aliud discat audire, nihil loqui [nisi de anima]… quae futura est templum Domini ” – p.14.
[5] M.R.Madonna, Stige, cit., p. 51.
[6] G.Boccaccio, Il Decamerone, g.III, nov. 10.
[7] Ché appena uno si fa oggetto di racconto, si trasforma reinventandosi più o meno: ed è maledizione, questa, che mina ogni cosiddetto realismo letterario.
[8] M.R.Madonna, Stige, cit., p. 16.
[9] Ivi: Se l’udire anche mi negassero le sorde orecchie, a niente altro penserei se non al Signore. p. 16.
[10] In traduzione: “Avanzo fra tuniche fosche / nuda m’inoltro in piccole celle / reco una lingua infocata“; “Freddo, languore e nudità”; “Li rese ciechi il desiderio ardente e la smodata brama“; “Avanzo carica d’oro“; “Tra serpenti e scorpioni / avanzo sicura“; “Nemici dappertutto. / La carne fragile votata alla cenere / tra poco sola pugnerà con molti“, p. 16.
[11] “Sedebam sola tra gli scorpioni / e le fiere in amaritudine repleta”; “Memini me clamantem / in cellulam meam priusquam / Domino rediret increpante tranquillitas.” pp. 16-17; e in traduzione: “Il volto impallidiva dal digiuno / e la mente bruciava in desideri / nel freddo corpo e / ardevano gli incendi di passione” – pagg. 16-17. Per la simbologia dei termini sottolineati, Cfr. J.Chevalier-A.Geerbrant, Dizionario dei simboli, BUR 1987, s.v.
[12] M.R.Madonna, Stige, cit., p. 20.
[13] Ivi: p. 22.
[14] Ivi: “Lucifero, la stella del mattino, / si desta tra coorti di erranti astri / che spiovono nella caligine“, p. 22.
[15] Ivi: “Tota mea est amaritudine pulchra” – p. 23; “post multas lacrimas, multas difficultatis, gratia ago Domino quod de amaro / semine vox angelorum capio.” – p. 27; “Cito flores pereunt, / cito violas et lilias / et crocum aura corrumpit” – p. 26; “In compagnia degli scorpioni / brillo nella notte come un / orecchino dal lobo di un etiope” p. 39; etc…
[16] M.R.Madonna, Stige, cit.: p.26.
[17] Ivi: “In cubiculo soltanto prendo delizia“, p. 39.
[18] Ivi: p. 30.
[19] Ivi: p. 30.
[20] Ivi: p. 31.
[21] Ivi: p. 34.
[22] Ivi: p. 36.
[23] Ivi: p. 36.
[24] Cfr. J.Chevalier-A.Geerbrant, op. cit., s.v.
[25] Ivi: p. 38.
[26] Ivi: p. 39.
[27] Ivi: p. 42.
[28] Ivi: p. 43.
è quasi ovvio che rispetto a questa poeteessa, devono fare alcuni passi indietro – come credo di aver detto già – le più celòebri, ma non più brave: Spaziani, Valduga, Merini ecc. Con ecc. intendo latre più famose della Madonna,. che non ebbero la “simpatia critica” o il chiasso intorno a lei. antonio sagredo
” SCUSATEMI: ANNULLO IL PRECEDENTE COMMENTO PER EVIDENTE CONFUSIONE”
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…è quasi ovvio che rispetto a questa poetessa (M.R.M.) devono fare alcuni passi indietro – come credo di aver detto già – le più celebri, ma non più brave: Spaziani aleatoria, Valduga funebre, Merini manicomiale, ecc.
Con ecc. intendo le altre “restanti” più famose della Madonna che, come quelle tre, ebbero, alla stessa stregua, la “simpatia critica” (perchè s’accorsero per incapacità critica) e il chiasso intorno a alla propria persona.
Amo questa Poeta e concordo sull’analisi di Sagredo. E’ come se fosse posseduta dallo spirito santo o demoniaco nel giorno della Pentecoste. E’ come se ascoltassi un disco rock su di un vecchio vinile graffiato. Ad ogni salto della puntina il canto si trasforma in un gregoriano.
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Apprendo della sua presenza senza conoscerla. In lei coabita il turgore della carne e la rarefazione dello Spirito indiviso. Una vertigine coglie leggendo le sue visioni e la lingua latina affonda nel tenace costrutto della lirica. Audace e persa in un criptico percorso del quale lei stessa è Caronte, in magmatico Stige.