Iosif Aleksandrovič Brodskij PENSIERI SULLA POESIA “Arrivederci, o magari addio”, a cura di Giorgio Linguaglossa  

Iosif Brodskij

Iosif Brodskij

 cop iosif brodskj dolore e ragioneUn romanzo o una poesia non è un monologo, bensì una conversazione tra uno scrittore e un lettore; una conversazione, ripeto, del tutto privata, che esclude tutti gli altri – un atto, se si vuole, di reciproca misantropia.

Un’opera d’arte, in special modo un’opera letteraria e una poesia in particolare, si rivolge all’uomo tête-àtête, stabilendo con lui rapporti diretti, senza intermediari di sorta.

Nella storia della nostra specie, nella storia dell’ homo sapiens, il libro è un fenomeno antropologico analogo in sostanza alla invenzione della ruota.

iosif brodskij 10Ai nostri giorni è piuttosto diffusa l’idea che uno scrittore, in particolare un poeta, debba usare nella sua opera la lingua della strada, la lingua della folla. Nonostante la sua apparente democraticità e i tangibili vantaggi che ne derivano a uno scrittore, questa pretesa è semplicemente assurda e rappresenta un tentativo di subordinare l’arte, nella fattispecie la letteratura, alla storia. Solo se abbiamo deciso che per l’ homo sapiens è venuto il momento di fermarsi nella sua evoluzione, solo in questo caso la letteratura dovrà parlare la lingua del popolo. In caso contrario sarà piuttosto il popolo a dover parlare la lingua della letteratura.

iosif Brodskij Discovery Ogni nuova realtà estetica ridefinisce la realtà etica dell’uomo. Giacché l’estetica è la madre dell’etica. Le categorie di  «buono» e «cattivo» sono, in primo luogo e soprattutto, categorie estetiche che precedono le categorie del «bene» e del «male». In etica non «tutto è permesso» proprio perché non «tutto è permesso»in estetica.

Questa generazione  la generazione nata proprio nel momento in cui i forni crematori di Auschwitz lavoravano a pieno regime, in cui Stalin era allo zenit del suo potere divino… questa generazione è venuta al mondo per continuare quello che, in teoria, doveva interrompersi in quei forni crematori e nelle anonime fosse comuni dell’arcipelago staliniano. Il fatto che non tutto si sia interrotto – almeno in Russia – è un merito che va attribuito in misura non trascurabile alla mia generazione; e io sono fiero di appartenerle. E il fatto che io sono qui oggi è un riconoscimento dei servigi che questa generazione ha reso alla cultura; anzi – vorrei aggiungere ricordando una frase di Mandel’stam – alla cultura mondiale… Esisteva, presumibilmente, un’altra via: la via di un’ulteriore deformazione, la poetica delle rovine e dei detriti, del minimalismo, della voce strozzata […] Noi l’abbiamo rifiutata perché la scelta in realtà non è stata nostra, è stata una scelta della cultura – ed è stata, ancora una volta, una scelta estetica piuttosto che morale.

iosif brodskij sulla scrivania Ciò che si suole chiamare volgarmente voce della Musa è in realtà il dettato della lingua; che non è la lingua a essere un suo strumento, ma lui stesso è il mezzo di cui la lingua si serve per continuare a esistere. E la lingua… non è capace di una scelta etica.

La dipendenza [del poeta dalla lingua] è assoluta, dispotica; ma è anche liberatoria. Infatti, pur essendo sempre più vecchia dello scrittore, la lingua possiede ancora la smisurata energia centrifuga che le è conferita dal suo potenziale temporale, cioè da tutto il tempo che ha davanti a sé. E questo potenziale è determinato non tanto dall’importanza quantitativa della nazione che parla (benché sia determinato anche da questa) quanto dalla qualità della poesia scritta in questa lingua. Basterà ricordare gli antichi autori greci o latini; basterà ricordare Dante. E quello che oggi si va scrivendo in russo o in inglese, per esempio, garantisce l’esistenza di queste lingua anche nel corso del prossimo millennio.

iosif brodskij giovane Il poeta, ripeto, è il mezzo di cui la lingua si serve per esistere. O, come ha detto il mio amato Auden, è colui in cui e per cui la lingua vive. Io che scrivo queste righe scomparirò; e scomparirete voi che leggete; ma rimarrà la lingua nella quale esse sono scritte e nella quale voi le leggete: rimarrà non solamente perché la lingua è cosa più duratura dell’uomo, ma anche perché più di lui è capace di mutazione.

Chi scrive una poesia, però, non la scrive per l’ambizione di essere ricordato dai posteri, anche se spesso coltiva la speranza che una poesia gli sopravviva, sia pure per poco. Chi scrive poesia la scrive perché la lingua gli suggerisce o semplicemente gli detta la riga seguente. Quando comincia a scrivere una poesia, di regola il poeta non sa come andrà a finire… Ed è il momento in cui il futuro della lingua interviene nel proprio presente e lo invade.

cop iosif brodskij dall'esilio Esistono, come si sa, tre modi di cognizione: quello analitico, quello intuitivo e il modo noto ai profeti biblici, la rivelazione. Ciò che distingue la poesia dalle altre forme letterarie è che usa insieme tutti e tre questi modi (orientandosi prevalentemente verso il secondo e il terzo).

Tutti e tre sono infatti presenti nella lingua… Chi scrive una poesia la scrive soprattutto perché l’esercizio poetico è uno straordinario acceleratore della coscienza, del pensiero, della comprensione dell’universo. Quando si è provata una volta questa accelerazione non si è più capaci di rinunciare all’avventura di ripetere questa esperienza.

[Iosif Brodskij, Dall’esilio, traduzione di Gilberto Forti, Milano, Adelphi 1988, pp. 46, 59-60]

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La poesia è una terribile scuola di insicurezza e incertezza. Non si sa mai se quanto si è fatto ha qualche valore, meno ancora se si sarà in grado di fare qualcosa di buono l’indomani. Se questo non ci distrugge, l’insicurezza e l’incertezza alla fine diventano nostre amiche intime, e quasi attribuiamo loro un’intelligenza autonoma.

Si può indovinare parecchio di un uomo dalla scelta che fa di un aggettivo.

[Iosif Brodskij, In memoria di Stephen Spender, traduzione di Arturo Cattaneo, Milano, Adelphi 2003, p. 278]

 Christopher William Bradshaw Isherwood; Wystan Hugh ('W.H.') Auden by Louise Dahl-Wolfe

Christopher William Bradshaw Isherwood; Wystan Hugh (‘W.H.’) Auden by Louise Dahl-Wolfe

Data la natura solipsistica di ogni ricerca umana, questa sarebbe una reazione onesta come qualsiasi altra alla nozione di creatività. Vista dall’esterno, la creatività è oggetto di fascino o di invidia; vista dall’interno, è un esercizio continuo di incertezza e una scuola terribile di insicurezza. In entrambi i casi, un miagolio o qualche altro suono incoerente è la risposta più adeguata ogniqualvolta si invochi la nozione di creatività.

[Iosif Brodskij, Il miagolio di un gatto, traduzione di Arturo Cattaneo, Milano, Adelphi 2003, p. 250]

Il sole cala, ha chiuso il bar all’angolo.

Si accendono i lampioni, quasi un’attrice che per farsi bella
e mettere spavento si bordi gli occhi di violetto.

[Iosif Brodskij, Poesie italiane, a cura di Serena Vitale, Milano, Adelphi 2004 (2), p. 123]

La noia è, per così dire, la nostra finestra sul tempo, su quelle proprietà del tempo che siamo inclini a ignorare, con possibili rischi per l’equilibrio mentale. In breve, è la vostra finestra sull’infinità del tempo, in altre parole, sulla vostra insignificanza all’interno di esso. È questo forse che spiega il terrore di serate solitarie e torpide, o il fascino che esercita talvolta su di noi un granello di polvere sospeso in un raggio di sole, mentre da qualche parte si sente il ticchettio di un orologio , e la giornata è calda, la volontà a zero.
Iosif brodskij 6 Una volta che questa finestra si è aperta, non cercate di richiuderla; anzi, spalancatela. Perché la noia parla il linguaggio del tempo, e vi insegnerà la lezione più preziosa della vostra vita – quella che non avete appreso qui, su questi verdi prati –, la lezione della vostra completa insignificanza. È importante per voi così come per quelli con cui vi troverete a contatto. «Tu sei finito,» vi dice il tempo con la voce della noia «e qualsiasi cosa tu faccia è, dal mio punto di vista, futile». Questa non sarà, ovviamente, musica per le vostre orecchie; eppure, il senso di futilità, la percezione del significato ristretto finanche delle vostre azioni migliori, più veementi, è meglio dell’illusione riguardo alle loro conseguenze e all’autostima che ne consegue.

[Iosif Brodskij, Elogio della noia, traduzione di Arturo Cattaneo, Milano, Adelphi, 2003, pp. 102-103]

Descrizione di una fotografia del volto di Auden proposta nella prosa intitolata Per compiacere un’ombra:

«Ciò che mi fissava dalla pagina era l’equivalente facciale di un distico, di una verità che è meglio conoscere a memoria. I lineamenti erano regolari, perfino comuni. Non c’era niente di specificamente poetico in quella faccia, nulla di byroniano, demonico, ironico, grifagno, aquilino, romantico, ferito, eccetera. Piuttosto, era la faccia di un medico che s’interessa al tuo racconto pur sapendo che sei malato. Una faccia ben preparata a tutto, la somma totale di una faccia».

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“Non bisogna dimenticare che, per Brodskij,  il momento in cui Orfeo si volta è il momento decisivo del mito.

«Verso» significa «svolta», «versus», cioè «solco» fatto nella terra come quello dell’aratro che rivolta, passando sulla terra, le zolle. Soprattutto, «Non voltarti» era il comando divino. Riferito a Orfeo, ovvero, ciò significa: «Nel sottomondo non comportarti come un poeta».

O anche: come un verso. Orfeo si volta, però, giacché non può farne a meno, giacché il verso è la sua seconda natura – o forse la prima. Perciò si volta, e, bustrophedón o no, la sua mente e la sua vista tornano indietro, violando il divieto.

iosif brodskij 7 Il poeta si identifica con il verso, con il girarsi indietro per vedere, con l’a capo, con il tornare sui propri passi; solo il poeta può violare il tabù degli dèi, ed essere un «abitante del cielo», ovvero un «eresiarca», egli si volta perché là dietro, nel passato, nella memoria, c’è la felicità che lui solo può rievocare in vita, se pur una vita larvale”.

(Giorgio Linguaglossa)

 

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Arrivederci, o magari addio 

Non è necessario che tu mi ascolti,

non è importante che tu senta le mie parole,
no, non è importante, ma io ti scrivo lo stesso

(eppure sapessi com’è strano, per me, scriverti di nuovo,
com’è bizzarro rivivere un addio…)
Ciao, sono io che entro nel tuo silenzio.

Che vuoi che sia se non potrai vedere come qui ritorna primavera
mentre un uccello scuro ricomincia a frequentare questi rami,
proprio quando il vento riappare tra i lampioni,

sotto i quali passavi in solitudine.
Torna anche il giorno e con lui il silenzio del tuo amore.

Io sono qui, ancora a passare le ore in quel luogo chiaro che ti vide amare e soffrire…

Difendo in me il ricordo del tuo volto, così inquietamente vinto;
so bene quanto questo ti sia indifferente,

e non per cattiveria, bensì solo per la tenerezza
della tua solitudine, per la tua coriacea fermezza,
per il tuo imbarazzo, per quella tua silenziosa gioventù che non perdona.

Tutto quello che valichi e rimuovi
tutto quello che lambisci e poi nascondi,
tutto quello che è stato e ancora è, tutto quello che cancellerai in un colpo
di sera, di mattina, d’inverno, d’estate o a primavera
o sugli spenti prati autunnali – tutto resterà sempre con me.

Io accolgo il tuo regalo, il tuo mai spedito, leggero regalo,
un semplice peccato rimosso che permette però

alla mia vita di aprirsi in centinaia di varchi,
sull’amicizia che hai voluto concedermi
e che ti restituisco affinché tu non abbia a perderti.

Arrivederci, o magari addio.
Librati, impossessati del cielo con le ali del silenzio
oppure conquista, con il vascello dell’oblio, il vasto mare della dimenticanza.

4 commenti

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4 risposte a “Iosif Aleksandrovič Brodskij PENSIERI SULLA POESIA “Arrivederci, o magari addio”, a cura di Giorgio Linguaglossa  

  1. «Chi scrive una poesia, però, non la scrive per l’ambizione di essere ricordato dai posteri, anche se spesso coltiva la speranza che una poesia gli sopravviva, sia pure per poco. Chi scrive poesia la scrive perché la lingua gli suggerisce o semplicemente gli detta la riga seguente. Quando comincia a scrivere una poesia, di regola il poeta non sa come andrà a finire… Ed è il momento in cui il futuro della lingua interviene nel proprio presente e lo invade.» (Brodskij)
    1.
    La lingua «gli detta la riga seguente».
    2.
    «E io a lui: “I’ mi son un che, quando
    Amor mi spira, noto, e a quel modo
    ch’e’ ditta dentro vo significando”.»
    (Dante, Purgatorio, Canto XXIV)
    3.
    alla dottrina tradizionale dell’io come centro autosussistente di attività e di libertà, ed alle sue molteplici varianti contemporanee (esistenzialistiche, personalistiche, fenomenologiche, marxiste ecc.) gli strutturalisti contrappongono la tesi del primato della struttura sull’uomo. Lacan scorgeva nella struttura “una sorta di macchina originaria che mette in scena il soggetto”. Lévi-Strauss vedeva nell’individuo il “semplice punto d’incrocio” di una serie di strutture che lo attraversano, determinandolo ad essere quello che è e facendo in modo che egli più che parlare sia parlato, più che pensare sia pensato, più che agire sia agito e così via. Cfr. il Ça parle di Lacan. (http://www.lacanlab.it/clinica/articolo.php?id=67)
    Siamo nel solco della tradizione platonica. Ma è proprio così? Siamo parlati dalla Lingua? Sempre? Totalmente? Non c’è che da mettersi in ascolto, contemplare, aspettare, farsi dettare? Non conta proprio nulla che della lingua in cui s’esprime un poeta esplori *attivamente* la storia, la tradizione e del mondo ( o realtà) in cui è immerso esplori gli orrori e le cose decenti o appena incoraggianti; e ne ricavi spunti, suggestioni, lessico, significati, forme, etc. che un altro poeta, il quale non fa o rifiuta avanguardisticamente tali esplorazioni, ignora o tira fuori solo per caso? E allora perché la lingua ad uno detta una «riga seguente» ammirevole e ad un altro banale e sciatta? È solo la lingua che fa tali scherzetti?

  2. antonella zagaroli

    “Un romanzo o una poesia non è un monologo, bensì una conversazione tra uno scrittore e un lettore; una conversazione, ripeto, del tutto privata, che esclude tutti gli altri – un atto, se si vuole, di reciproca misantropia.

    Un’opera d’arte, in special modo un’opera letteraria e una poesia in particolare, si rivolge all’uomo tête-à-tête, stabilendo con lui rapporti diretti, senza intermediari di sorta.

    Nella storia della nostra specie, nella storia dell’ homo sapiens, il libro è un fenomeno antropologico analogo in sostanza alla invenzione della ruota.
    “Chi scrive una poesia, però, non la scrive per l’ambizione di essere ricordato dai posteri, anche se spesso coltiva la speranza che una poesia gli sopravviva, sia pure per poco. Chi scrive poesia la scrive perché la lingua gli suggerisce o semplicemente gli detta la riga seguente. Quando comincia a scrivere una poesia, di regola il poeta non sa come andrà a finire… Ed è il momento in cui il futuro della lingua interviene nel proprio presente e lo invade.”
    Nel leggere queste parole questa mattina è come se fossi improvvisamente in alta montagna. Che ossigeno! Che aria tersa! La sua è una lezione non voluta per tutti quelli che scrivono e che pensano di accumulare libri su libri (soprattutto perché seguono le mode editoriali), versi su versi, questo li rende scrittori o poeti ma non si sono mai soffermati su questi pensieri espressi da Brodskij . Anzi questo pensiero non l’ha mai sfiorati e qui vengo alla giusta considerazione di Abate: la risposta non sta nella poesia ma in colui -ei che scrive e in quelli che gli danno spazio per ragioni che non attengono la poesia. Brodskij fa considerazioni profonde nate dalla sua esperienza e quindi a lui ciò è accaduto. Chi non le riconosce sue sa dentro se stesso di non essere che un parolaio magari raffinato, preciso ma nient’altro che questo ma a riconoscerlo ce ne passa.
    Antonella Zagaroli

  3. Tenterò di rispondere con una parabola sulla questione della «rettificazione dei nomi»:

    Lu disse: «Il Signore di Wei attende il Maestro (Confucio) perché eserciti il governo; di che cosa il Maestro si curerà per prima cosa?».
    Il Maestro disse: «L’essenziale è rettificare i nomi (…) Se i nomi non sono corretti, le parole non corrispondono (con la realtà); se le parole non corrispondono, le attività non hanno successo; se le attività non hanno successo, i riti e la musica non fioriscono; se i riti e la musica non fioriscono, le punizioni e i castighi non colgono nel segno; se le punizioni e i castighi non colgono nel segno, il popolo non sa dove mettere mani e piedi».

    Lao-tzu visse a lungo in Zhou. Quando vide la decadenza di Zhou, partì e giunse al confine. Il doganiere Yinxi disse: «Dato che stai per andartene, ti chiedo di scrivere un libro per me». Allora Lao-tsu compose un libro in due parti, di oltre cinquemila parole, nel quale si parla del significato della via e della sua virtù. Poi partì. Nessuno sa dove sia andato a finire.

    In ordine alla proposizione assioma di Wittgenstein: «Su ciò di cui non si può parlare si deve tacere», riporto un passo del “Chuangzi”:«Il Tao è il limite delle cose. Né le parole né il silenzio sono sufficienti a contenerlo; né le parole né il silenzio sono adatti a esprimerlo». (cap. 25)

    Molto probabilmente il linguaggio poetico è la via più difficile per raggiungere questo «limite delle cose», in tal senso io giustifico il termine di “inesprimibile” mondato da ogni fanatismo mistico..

    Ricordo un’altra proposizione di Wittgenstein: «Ciò che può esser mostrato non può esser detto». Questa proposizione però può essere capovolta nel suo contrario: «Ciò che non può esser detto può esser mostrato». Il che non è in contraddizione con un altro assioma di Wittgenstein: «I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo».

    Il grande poeta è colui che sa discernere i limiti del proprio linguaggio, e ciò facendo può indicare il limiti del proprio mondo. È quindi assolutamente necessario che il poeta percorra la via della “rettificazione di nomi”.

  4. Ma Lao-Tsu dice anche:
    «Di ciò che sempre non è ora vedremo i portenti», volendo significare quel non-essere che sarebbe all’origine dell’essere e che Lao-tse chiama “Tao”, ciò di cui non si può parlare ma di cui non si può nemmeno tacere. Allora, occorre forzare le parole al di là delle loro capacità espressive (dei loro nomi, dei loro limiti).

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