da Stige (1992)
Egredientes latrinitatibus meo pectore
armet oratio, regredientibus de platea
mea mens armet fortitudo atque
ad omnem incessum manus pingat crucem.
*
Cave, ne aures perfores, ne cerussa
et purpurisso consacrata Cristo ora depingas,
né collane d’auro et perle ornino
meo volto, nec capillum irrufes.
Habeat alias margaritas.
*
Oratio sine intermissione, ut sempre
me diabolus inveniat occupatam.
*
Così coltivo l’anima, quae futura est
templum Domini; non est obiurgare
si tardior procedo. Nihil aliud convenit audire,
nihil loqui. Turpia verba non intelligo.
*
Horam tertiam, sextam, nonam,
diluculum quoque et vesperam.
Nec cibus nisi oratione praemissa
nec luxuria nisi intercessione gratia.
Noctibus legere, orare, psallere.
*
Nihil ita offendit deum quam desperatione
quia desperatione incredulitatis indicium est.
Si petenti datur et quaerens invenit et
pulsanti aperitur… me misera.
Si caeca fuero oratio me consolabitur.
Unicum raptus est luxuria.
Plango quod accidit sed quia placet Domino
aequo animo sustinebo.
Extremam expectabo mortem et breve putabo
malum, quod finis melior subsequetur.
Nihil aliud nisi Dominum cogitabo.
*
In fusca tunica incedo,
intra inopia cellula in trono.
Lingua et focum fero.
Frigus, languor et nuditas.
Intra caecos reddit mea cupiditas
atque avarizia hominum.
*
Onusta incedo in capillos auro splendente.
Intra serpentes et scorpiones
secura ingreditur.
Nuditas intra serpentes et scorpiones
*
Hostium plena sunt omnia.
Caro fragilis, et cinis futura
post modicum pugnabo sola
cum pluribus.
Et ferarum in amaritudine repleta.
*
Memini me clamantem
in cellulam meam prisquam
Domino rediret increspante tranquillitas.
Inteso come opera d’una sconosciuta o come straluno di un indotto ignaro di regole e principi linguistico-espressivi, questo libro, Stige, uscito nel ’92 a Roma (Scettro del Re), non ha avuto dalla critica recensione o scheda o annuncio: niente. O forse in tutt’altro affaccendata, la critica non s’è accorta d’un libro che, considerato in sé e per sé, poteva rivelare una sua propria identità, e di conseguenza aver titolo perfino ad un luogo della storia che gli competesse e starvi a viso aperto, senza finzioni o mascherature, turlupinanti o meno che esse fossero.
Ma la critica poi non aveva mica questi gran torti. Davvero il libro si presentava irto di sconquassi d’ogni genere, e qualcuno si chiese perfino se davvero esistesse una Madonna poeta o se questo nome fosse apposto all’ombra d’uno inteso a mettere a berlina le pompose scritture classicistiche, sempre lì a pavoneggiarsi, non per altro, che per un agghindo loro greco o latino, che Madonna o chi per lei forse non riteneva più oramai decifrabile da nessun pur sagace comprendonio di questi tempi – e a ciò alluderebbe il subbuglio maccheronico di un testo che si presentava composito, zeppo di reminiscenze scolastiche molto vaghe, di prestiti forse, ma più di furti da opere di mistici e teologi e fondatori d’ordini religiosi, prestiti e furti per di più stravolti non si sapeva se ad arte o per imperizia. Si poteva anche pensare che si trattasse d’un gesto vendicativo sotto specie di burla contro il mondo accademico, la critica o la stampa, da parte di chi se n’è veduto regolarmente sbarrate le porte, essendo essi attesi unicamente a qual si fossero classicismi e a forme artistico-letterarie sancite dai soliti baronati accademici o dai caporioni della cultura in generale, pregiudizialmente alieni dal considerare proposte nuove, che cestinano a priori con l’incarto e tutto, senza curarsi di vedere se avessero o meno qualche oggettivo valore.
Ma pur così scombiccherato, questo libro ha la curiosa caratteristica – forse ignota all’autore stesso, inteso com’era solo a un gabbo vendicativo – che fin gli “scombiccheri” si mettono a far da tecnemi e attivano operazioni di poesia insospettabili in un libro simile. Ne consegue che esso, magari anche fuor d’intento, s’inserisce di forza in una bene attestata tradizione di poesia, ma per romperla dal di dentro, e in più avvalorandosi nell’atto di mettere allo scoperto un sacer innominabile, tenuto finora nascosto, per un sentore sulfureo che per la loro piccineria mentale ne avevano la letteratura e l’arte, nonché la critica e la cultura in generale. Proprio ciò è invece sufficiente per aprire il libro e leggerlo, vedere quel che in se stesso sia e se un posto gli competa nella mente umana, ove si conservi a fare storia delle lettere e dello spirito. Per cominciare, eccone qui un campione:
Veniat sua jurisdictione terribilis
Supra mea culpa tollita, veniat
Sua maledictione supra mea carne bollita,
veniat Arcangelo superno supra mea
jocundissima ferita, veniat mea glabra
infernalia supra infermità condita,
veniat mea liquidissima suspicione
supra intenzione amarissima, veniat
asprissima dipartita post meo iocundo
delitto.
*
Si cum tuo licore nel mio core
versato, si cum tuo livore sul mio
onore posato, si cum tuo stiletto in mio
diletto infernato, si cum tua malia
in mia regalia instanato, si cum mea
trebile ardua Canossa supra tue
ossa annerato, sic transeat mea amaritudo.
Interceda tunc lux sancta et benefica
affinché lo mattino more ustorio
vampa infuocata discacci l’ombra
e mora lo demonio dello inferno!
io sempiterno dolzore amo e rinsavisco
e marcisco e porto lo crocefisso sulle spalle
leggero come l’albero di betulla
Proprio il deragliamento linguistico, lavorato a straccio di lessico, di grammatica e sintassi, e a conseguente rovinio semantico, si trova ad assumere – magari fuor d’intento – una funzione tecnematica omologante, che attiva la poesia a performarvi un’aggressione rivoltosa che devasta e sfregia, sì che, dati anche termini d’ordine religioso (culpa, maledictione, Arcangelo, infernalia…) sembri di primo acchito quel dissidio déjà vu fra cielo e terra, umani e divini. Ma, come inducono a sospettare altri termini (culpa tollita, iocundissima ferita, infermità condita, iocundo delitto), ciò non pare possibile. Petrarca è lontano[1], e neppure l’odore di Dante, responsabile al più del titolo, Stige, il che neanche ti mette emicranie esegetiche, essendo chiaro che si tratta dell’inferno, quello lì sottoterra, per sineddoche. Né vi hanno a che vedere molto Achmàtova, Cvetaeva e Rosselli. Invece sono chiari gli echi di Giovanni della Croce, Caterina da Siena, forse Teresa de Avila; e più spesso ancora viene a mente Jacopone (P. 11), che invoca i mali a raccolta su di lui, essere di terra, creatura indegnissima: e non ad espiare la notte inespiabile che è in lui, grumo di fango verminoso, stante il desiderio suo di essere frullato nell’inferno: perché lui è il luogo del male, e il male resta male sempre, e merita le pene eterne.

Caligola Film di Tinto Brass 1970
Queste, di autori della Mediaetas, sono del resto “presenze” che potrebbero essere confermate dal fatto che Madonna, posto che esista, pare sia addentro alle cose medievali, “medievalista quanto a letture”, a giudizio almeno della Rosselli, che così nota in capo al libro. Ma niente puntuali coincidenze di pensiero e di spiritualità con i mistici indicati, le cose stanno in Madonna al rovescio. In loro, il male è il nemico da schiantare con flagelli e cilici, e questo male è sì la lussuria, ma più in senso latino di vita voluttuosa e intemperanza, tanto da confondersi col male in generale. In Madonna invece il male è la lussuria nel senso moderno di passione carnale intemperante, che una disastrosa paideia cattolica o panreligiosa ha demonizzato da millenni, fino a rendere uomini e donne minorati sessuali, spauriti e inetti ad ogni approccio amoroso, con che sconquasso e scasso di storie bellissime è facile immaginare. Ed è un male da estirpare per un motivo solo, quello dovuto ad una nebulia di mente calata da quella paideia, ma col procedere dell’io lirico a più lucido giudizio, quel “male” diventa iocundissima ferita, iocundo delitto, non certo più da cassare dalla carne e dalla mente, ma da aurire anzi e godere come un “male” sublime, che a dirlo non basta la comune lingua, come “insufficiente e improprio” era per Caterina il suo “discorso mentale”, ove “trasferire un’esperienza puramente intuitiva”(Battaglia). Ma stesso quella di Caterina è un’esperienza dove tra eros e ascesi non trovi confine ma limine (lino) consunto e liso da un andare e venire, sì che i due relativi linguaggi si confondono e compenetrano: come in un parlare che fa Caterina di Cristo, che
“nell’ultimo muore nudo in croce, per rivestire l’uomo e coprirgli la sua nudità. Nudo era fatto per lo peccato commesso, perduto avea il vestimento della grazia: sì che sé spoglia della vita, e noi ne veste“,
che è un vero e proprio inno alla nudità, detta e cantata e accarezzata in ogni modo e parola che la dice o allude, e alla fine avvolta a mantello su di lei, Caterina, che per riceverla si denuda a sua volta, sia pure idealmente. Ed è nella Senese la “dimensione più segreta”, intrisione di Eros nell’anima votata a Cristo, di Lui innamorata: e così bene espressa che vai a negarla!, come il Battaglia pur fa.
Ancora più mistico e acceso il linguaggio è, sulle prime, in Madonna, ma sempre più vi si mescola lussuria e ascesi, desideri carnali e brama di castigo, di affondare il coltello, incorporare sempre più la sofferenza, fino a sembrare libido o, peggio, una voluptas dolendi. E questo capovolge tutto. Nasce il sospetto che in Madonna siano fusi paradiso e inferno, o del paradiso gran parte consista in quell’inferno in cui il moralismo sacrestano fa consistere il piacere della carne. È la sacralizzazione della lussuria, che così diventa il sommo bene, il luogo mistico al quale si addice stesso il parlare proprio dell’inverso misticismo. E le sofferenze che nel Tudertino erano il prezzo (impagabile) del peccato originale o della irredimibile indegnità, in Madonna servono a frangere il guscio per raggiungere il gheriglio, il cibo dolcissimo che vi è contenuto: sono insomma il titolo di sconto del piacere sensuale. La dedizione alla preghiera, riecheggiata dalla Regola benedettina[2]; la spietata volontà di sacrificio[3]; la continua, feroce vigilanza sopra i movimenti della carne[4]; perfino la determinazione a non cedere al desiderio sempre in agguato e pronto a balzare in ogni occasione[5] ( ecc…), tutti questi proponimenti e determinazioni, a volte anche deliranti, sono i segni della sua brama di arrendersi, di cedere all’idea sottesa che in fondo il bene è quella passione lì, il paradiso in terra è quello che spalanca l’eros.
Sono i sensi ad esaltarla, è l’Eros che la spinge in alto a vibrare della vita. Tutta lì arresa ai sismi della carne, sta con l’orecchio teso ai boati. La lingua è un metallo fuso, o una nebulia verbale che oscilla tra latino e “italo”, moderno e antico, lingua codificata e neologismo (latrinitas): un andare e venire dal passato al presente e da questo a quello o, che è il medesimo, dall’es alla coscienza: ne sono segni, nello stesso corpo della lingua, l’agrammaticalità, che riflette il magma delle inconsce pulsioni onde quella lingua erompe; o un nominativus pendens (es., “egredientes“), quasi parola sfuggita e lasciata di fuori, come un segno di vergogna (quelli che escono dalle latrine…), per la circostanza indecorosa che accennava; o l’ambiguo uso che è fatto di luxuria, tra il significato latino di ‘eccesso’ in generale, sfrenatezza di sensi e volontà, e lo specifico senso di scatenamento sessuale propriamente italiano.
[1] Francesco Petrarca, de vita solitaria, de otio religioso, psalmi poenitentiales, de remediis utriusque fortunae, de secreto conflictu curarum mearum: questi i lavori petrarcheschi dai quali era possibile attingere per un’opera come Stige.
[2] M.R.Madonna, Stige, cit.,: “oratio sine intermissione”- p.13; “nec cibus nisi oratione praemissa / nec luxuria nisi intercessione gratia” – p.14 (Nella Regula si legge: Nec cibus a te sumatur nisi oratione praemissa).
[3] Ivi: “dove sono le catene / dove gli schiaffi / dove gli sputi / dove la flagellazione” – p.12.
[4] Ivi: “sempre pronta come un soldato di Cristo / offro a sera il sacrificio vespertino / con la lampada accesa” – p.12; “Horam tertiam, sextam, nonam, / diluculum et vesperam” – p.14;
[5] Ivi: “se… qualcosa / di turpe ascolto, non capisco” – p.12; “Egredientes latrinitatibus… regredientibus de platea…” – p.13; “Nihil aliud discat audire, nihil loqui [nisi de anima]… quae futura est templum Domini ” – p.14.
Sono grato a Domenico Alvino, critico acuto e incoercibile, per questa attenta disamina della poesia di M.R. Madonna, che è venuta meno nel 2002, autrice di un solo libretto (preziosissimo) “Stige” (1992) contenente poesie in “pseudolatino” come le definì Amelia Rosselli che ne firmò la prefazione. Ricordo che la Rosselli rimase molto colpita dalla potenza e dalla raffinatezza lessicale di quelle poesie.
Io ho tentato in questi anni di mantenere vivo almeno il ricordo di una poetessa del valore di Madonna, ma insomma, poetesse come lei e Giorgia Stecher non capitano tutti i giorni, sono poetesse che io inserirei senza indugio in una Antologia della poesia italiana del secondo Novecento.
Sono quindi grato alla acribia e all’onestà intellettuale di Domenico Alvino che si è accinto in un discorso critico difficile, impervio, poiché le poesie di Madonna non sono affatto facili sprigionano una loro magica aura che sembra voler tenere lontani gli estranei e i mediocri, sono versi di straordinaria fattura ellenistica, direi, oltre che patristica, come ha messo bene in rilievo Alvino la poesia di Madonna ribalta il concetto di “Male”, tutta la poesia si pasce del “Male” e del “Peccato”. È lì la vera vita.
Ed infine, dal punto di vista stilistico “Stige” contiene un grande numero di perle inverosimili.
L’ha ribloggato su La distensione del verso.
A dire la verità, questi versi mi esaltano. Mi piace tutto. Il latino sfregiato e calpestato eppure vivo, l’aria sulfurea e da atro sotterraneo che ne sprigiona, il senso di allarme da: “arrivano i barbari!” e i barbari sono loro. La creatività linguistica sfrenata, il senso della fine che non sa di essere un inizio. Così mi immagino parlassero nel VII o VIII secolo in una qualche provincia lontana e isolata, in un avamposto sperduto dell’impero. Un coltissimo gioco di sberleffi tragici. La coerenza di una mirabile architettura linguistica che si autodissolve, lasciando forme galleggianti.
E mi ricorda certe immagini tardoromane, impresse sulle monete coniate nelle province, in cui il volto dell’imperatore è ridotto a puri tratti compendiari e che dell’immagine originaria non hanno più nulla, ma recano in sé una potenza barbarica inquietante.
Questi versi sono particolari, eleganti, vivi e evocativi. Il latino interiorizzato ed usato in modo colto e intrigante crea immagini e visioni che hanno la forza della classicità ma anche un’aura di immortalità senza tempo. Davvero delle perle. Comunicano creatività e ispirazione. Grazie a Giorgio per questo articolo.
in “Non adularmi…” io sento il passo e la voce di Kavafis, e sono certo che non è da meno il suo valore, certo ancora che Kostantinos avrebbe applaudito a questi versi tutti femminili e che Marina Cvetaeva e la stessa Achmatova le avrebbero stretto le braccia e se la sarebbero portata a passeggio per incontrare Emily, Gaspara Stampa, Ipazia e tant’altre… il greco Poeta in giro per Alessandria dal faro alla biblioteca
a spasso per illuminare i vicoli strettiti dalla rosse lanterne e dalle lacrime di Saffo!
a. s.
Sono questi ottimi interventi critici (bravissimo Domenico Alvino), alternati all’attenzione verso il nuovo, o addirittura il nuovissimo, a fare di questo blog uno dei maggiori blog culturali italiani, aldilà di certi bloggetti, marginali, neanche degni di Nota. Chapeau!
L’eco ( e anche il tono) di questa scrittura richiama in modo chiaro ai Salmi e ciò mi pare indirettamente suffragato dall’ultima parola dell’ultimo verso del quinto lacerto poetico (psallere). Indubbiamente, alla base di questa poesia c’è l’urto violento tra la sfera erotica e quella religiosa, tra la percezione del piacere come peccato e il tentativo (un po’ meno evidente) di redimerlo, affrancandolo da ogni precetto o comandamento. Il recupero di un latino stupendamente violato ma, proprio per questo, plastico e vivo, e tale, come acutamente scrive Francesca, che avrebbe potuto essere parlato “in una qualche provincia lontana e isolata, in un avamposto sperduto dell’impero”, porta in dote all’espressione poetica potenza icastica e malleabilità significativa. Io, pur ammirando questa poetessa, suggerirei però di non enfatizzare. Continuerei a cercare di capire e di approfondire, ma con un pizzico di cautela.
Pasquale Balestriere
Concordo con Alvino sul fatto linguistico che si può porre entro un maccheronico di Jacopone Da Todi, con un tono però totalmente rovesciato e in ugual modo anche teatrale e musicale. Vi è un surrogato di potenza in questa poesia: leggerla a voce alta così come si faceva prima della stampa è assolutamente magnetico. Senza considerare che qualsiasi maccheronico che si conosca è fatto per non essere taciuto, pur vivendo in un finto silenzio, che è solo diniego.
??? Sogno o son desto? Non c’ho capito assolutamente nulla. Questa autrice che mi è stata segnalata da Giorgio Linguaglossa come poetessa italiana di una certa rilevanza, ha scritto poesie in lingua italiana? Grazie.
Buonasera signor Fratini e benvenuto nel condominio della poesia. Lei è stato invitato dal padrone di casa, Giorgio Linguaglossa, ed io quale fantasma spesso ospite di questo castello (qui siamo tutti fantasmi e parliamo molte lingue, ognuna diversa dall’altra) mi permetto di fare gli onori di casa. Giorgio, che è un uomo di spirito, spesso si dimentica di avvertire gli ospiti di leggere preventivamente il cartello affisso all’entrata, mutuato dall’accademia di Platone: “Si prega chi non sia esperto di geometria di non avvicinarsi al luogo”.
Si tratta in fondo di essere in grado di scegliere tra il sapere e il non-sapere.
Lei, peraltro, è entrato subito in una delle stanze più difficili del castello, non basta il goniometro o una sfera. Capire la lingua di Maria Rosaria Madonna significa fare un salto indietro di migliaia d’anni. Per cui non si preoccupi, troverà sicuramente altre stanze con figure piane che la potranno destare dal sogno.:-)))
Guardi non la conosco gentile Panetta, non so chi è e non so se ha letto mai dei grandi poeti, ma anche se in pratica mi sta dando dell’idiota in realtà mi sento come il fanciullo della favola del re nudo che dice che il re è nudo.
Non è che siccome una volta Ezra Pound ha scritto un poema in 5 lingue allora oggi il poeta che scrive in più lingue è un fighetto. Per me erano brutti i Cantos (nel loro complesso, pur con delle gemme di alta poesia) ed è brutta questa neolingua. Sinceramente sono entrato in questa stanza (credo sia il bagno di casa) su invito di Linguaglossa, che poi mi ha invitato a leggere le poesie in italiano di Madonna che effettivamente sono molto belle (così come erano molto belle le prime raccolte di Pound: Personae, Ripostes, Lustra, Quia pauper amavi, Hugh Selwyn Mauberley prima che impazzisse; non so se conosce questo autore o se legge solo i poeti sconosciuti di oggi, forse parlo di cose che ignora). Buon Natale Panetta e cerchi di essere più ospitale se riesce.
Gentile signor Fratini, guardi che non era mia intenzione offenderla né tantomeno mancarLe di rispetto. Non mi è mai passato per la mente l’affermazione che Lei mi vorrebbe attribuire . Non la sconoscevo, prima.
Di solito alle 1:00 circa di notte mi sento come un personaggio di Walt Disney, non so perché, forse la cena… Però le assicuro che il mio era un tentativo di farla stare bene nelle stanze difficili dell’Ombra. Mi scuso con Giorgio se sono stato invadente. Al solito punzecchio (però, bel peperino:-))
Quella di M. R. Madonna non è il bagno, signor Fratini, è un salotto affrescato con i mosaici di Roma antica e di Pompei. E sono sicuro che Le è sfuggito, a prima vista, gli ospiti seduti comodamente nelle poltrone, come la Ildegarda di Bingen, per esempio.
Pound? Storco il naso anch’io. Ho conosciuto e frequentato un poeta che lo conosceva di persona, tale Peter Russell, nei suoi anni veneziani.
Non leggo più con gli occhi. Ho bisogno delle lenti.
E non mi auguri buon natale, per favore. Io con il natale dei natanti non c’entro nulla. Adoro il Sol Invictus e la madre Terra.
Beh… Pompei è stata sepolta, Roma è caduta e poi risorta e oggi a Roma si parla italiano. Il latino lo parlano solo in Vaticano che non credo lei frequenti visti gli dei che adora.
Anch’io sono entrato a gamba tesa, diciamo che prendiamo un giallo a testa. Tra l’altro ho letto una sua poesia e non è male. Saluti allora, senza auguri. Non le auguro buon anno perché non conosco il suo calendario 🙂
Calendario Lunatico, pardon, Lunare. Assolutamente “Buon Anno” a Lei e alla Poesia.
caro Gabriele Fratini,
se hai la pazienza di leggere le poesie di M.R. Madonna contenute in tutti i post e nel brillante commento di Domenico Alvino, troverai, oltre che le poesie in neolingua, anche poesie in ottimo italiano. Sarei curioso di conoscere la sua opinione almeno su queste ultime.
Senz’altro leggerò quelle in italiano… la neolingua non mi appassiona. Primo perché non la capisco, secondo perché sono innamorato della lingua italiana, è praticamente l’unica cosa dell’Italia che mi piace oltre l’arte! Se mi leva la lingua italiana non mi resta niente! A presto