Con La coscienza di Zeno
(1923), di Italo Svevo, la letteratura italiana assimila il respiro del grande romanzo europeo novecentesco (Kafka, Proust, Joyce, con substrato filosofico di Freud, Bergson, Nietzsche). Si dissolvono le strutture narrative tradizionali. Il personaggio è sottoposto a una destrutturazione atomistica: non è sentito più come monade unitaria, ma come aperta e imprevedibile “disponibilità” psicologica, nelle sue continue e contraddittorie oscillazioni tra conscio e subconscio, tra parola e pensiero, tra dialogo esterno e soliloquio mentale (monologo interiore), tra intenzione e azione; esposto dunque alle insidie dell’irrazionalismo e del relativismo, che segnano il tracollo di ogni certezza deterministica (su cui si fondava il romanzo naturalistico): la realtà non è più frutto di rapporti causa-effetto, ma “onda di probabilità” che sfugge ad ogni schema predittivo (Giacomo Debenedetti).
Ecco il “personaggio-Novecento”, privo ormai di margini strutturati e, per lo più, inetto dinanzi a una realtà ormai inafferrabile. La realtà borghese, invece, si vuole ancora afferrabile e dominabile, costruttivamente utilizzabile a scopi di profitto. Zeno Cosini è un inetto alla vita pratica, un “teorista” portato per natura a riflettere su se stesso e sulle cose, ad analizzare più che ad agire, a lasciarsi vivere più che a vivere. Introspezione e analisi conducono inevitabilmente a uno stato di malattia. Zeno è l’antieroe borghese: è l’uomo
dai nervi stanchi, malato di troppa intelligenza. Il borghese non pensa, agisce: è convinto, sicuro e felice di ciò che fa, si identifica perfettamente col mondo che si è costruito intorno. Il borghese è dotato dunque di salute e impassibilità, di infallibile senso pratico.
Zeno è un acrobata del vuoto. Il suo sguardo sulle cose è intriso di leggerezza, disincanto, ironia, autoironia, pessimismo umoristico. La vita è una risibile farsa, un enigma insolubile, un caos dove tutto può accadere. Lui stesso ottiene dalla vita doni e rivincite quasi suo malgrado, al di là dei meriti effettivi. La coscienza di Zeno è una commedia intrisa di tragedia. La tragedia, infatti, deve essere raccontata come se fosse una commedia, perché ormai è impossibile come tale: la tragedia pretende “verità” e “grandezza”, due valori che si sono sfaldati nella deriva di un mondo sempre più ridicolo. L’umorismo è la coscienza dell’assurdo della vita e dei giochi complicati e puerili con cui ci si illude di dominarla. Zeno trasforma in materia comica tutto ciò che è fondante per suo padre: il lavoro, la religione, il matrimonio, la famiglia: i sacri valori della borghesia. Anche in casa Malfenti, a cominciare dal suocero Giovanni, si prende maledettamente sul serio la vita, ovvero gli ideali praticissimi della borghesia. Zeno, lui, proprio non ce la fa. Cioè: aderisce esternamente, ma si mantiene distaccato internamente. La sconnessione tra interno ed esterno, anzi, aumenta nella misura in cui Zeno cerca di agganciarsi alla realtà, di risolvere il problema della propria esistenza.
L’autoanalisi, cioè la volontà tormentosa ed espiatoria di risalire alle origini dell’io, ripercorrendo i meandri dell’inconscio attraverso progressivi sondaggi autobiografici, porta a svelare i precipizi di disonestà, ipocrisie, inganni, ambizioni nascoste, incomprensioni,
ostilità, rancori, che si spalancano sotto le apparenze oneste e pacifiche della “buona società” (a cominciare dal nucleo familiare). I borghesi attivi e soddisfatti sembrano sani, ma sono loro i veri malati, i veri mostri; solo il malato anticonformista, l’uomo che guarda e che di tutto ride, può attingere la chiarezza e sperare di conquistare uno stato di salute autentica. Anche se poi la vita stessa è patologica, è malattia mortale, inquinata com’è “alle radici”.
Scavare i fondamenti del “principio di realtà” significa aprirsi all’universo fluido e complesso degli strati profondi della psiche, al disordine apparente del subconscio, del “sottosuolo”. Ecco la strana malattia psicosomatica di Zeno, fatta di lapsus continui, di propositi non mantenuti, di scompensi fra aspirazioni-intenzioni e realizzazioni, di autoinganni, di cavilli e pretesti per giustificare le proprie azioni, di aporie e irrisolvibili ambivalenze.
L’eterno antagonista di Zeno è l’uomo che “sa vivere”, che si sa integrare, che sa accettare le regole del mondo. Il primo antagonista è il padre, che ha intuito e preconizzato l’inettitudine di Zeno. Zeno uccide simbolicamente il padre e, dopo di lui, ogni patriarca borghese deputato a rappresentarlo, in quanto tutore-garante dei castranti e soffocanti valori della “normalità” statuita. Inutilmente cerca di guarire con il matrimonio: Augusta è la donna materna che può, con dedizione, accettare senza riserve la sua bizzarria; non Ada, che Zeno preferirebbe, la quale aspira a un uomo ben altrimenti attrezzato, capace di dominarla per farla regina del suo regno di potenza. Zeno si ribella nascostamente a tutte le regole familiari e sociali che attentino al libero fluire del suo “principio di piacere”, che insomma lo costringano a “crescere”, o meglio, ad adultizzarsi. Ecco ad esempio l’esaltazione del fumo come atto di ribellione: il fumatore “perde/prende tempo”, è un sognatore che segue i ghirigori di vapore, e intanto pensa e non “produce”, rimandando il da farsi. Fumare è un gesto orale di soddisfazione narcisistica e autoerotica: chi fuma sceglie l’estasi, la contemplazione, la non-attitudine e la non-attività, la “malattia”, la finezza nervosa e suoi dolci tormenti.
Zeno non vuole realmente guarire: come ogni vero nevrotico è affezionato alla sua malattia, alle manie ossessive che la compongono. Nota Elio Gioanola: «Tutta la storia di Zeno non è mai storia di una guarigione, ma della costruzione di difese, sullo sfondo invariabile dell’angoscia di castrazione e di morte: guarire sarebbe come gettare a mare tutta la costruzione difensiva, diventando l’uomo “ideale e forte” che si è identificato col padre; ed è proprio ciò che Zeno non vuole perché le sue difese sono diventate l’originalità della sua esistenza».
Zeno, anzi, è un “superuomo dissimulato” (Noemi Paolini Giachery) nei panni dell’inetto: alla fine del romanzo estende la sua infantile volontà di potenza addirittura contro tutti gli altri uomini, percepiti come “rivali” perché tolgono aria e spazio, in quanto presenze ingombranti e soffocanti. Ha bisogno di sostituti simbolici del padre da uccidere (i medici, il suocero, il cognato): con il silenziatore però, come un “killer dolcissimo” (Elio Gioanola) protetto da alibi, coperture e sapienti rimozioni. Ci tiene a mantenere intatta l’immagine di “uomo buono”, malgrado i pensieri atroci e distruttivi che lo attanagliano; e proprio per mascherare questa realtà inconfessabile si adopera a depistare le tracce e costruirsi addosso un “castello d’innocenza”.
La scrittura sveviana risente di questa fondamentale ambiguità: da un lato obbedisce a un fine analitico e conoscitivo, costeggiando talora il limite delle più scottanti ammissioni; dall’altro rema in senso contrario all’analisi, per farsi custode delle resistenze e delle reticenze, cioè teatro di una sublimazione creativa che lascia il paziente malato ma che, d’altro canto, fa di un “uomo senza qualità” uno scrittore.