Salvatore Martino
Elegia romana
da Commemorazione dei vivi (1979)
La giovane russa fu sconvolta
Aveva la bocca di cenere
un paradiso feroce tra le cosce
un’azzurra cadenza nello sguardo
e un elegante sistema di volute
coronava la testa
Se ti chiedessi di cominciare una storia
o soltanto ferirla nel ricordo?
Tremavano i gesti e le parole
il sesso gonfiava sotto i pantaloni
camminando di notte l’argine fluviale
che penetra come un fallo la città
domestica dal tramonto all’alba
straniera prima che calino le ombre
Confusi da eventi che sorprendono
raggelati da voci che mai ci chiamano
per nome contro occhi di luce minacciosi
e bozze fasciate da intestini che
assumono parvenze d’uomo
traffichiamo la notte
vendendola al prezzo stabilito
sotto glaciali stelle che raccontano
inverosimili storie di fanciulli
e di donne sgozzate
di agonie premature
casuali assassini nelle piazze
spietati suicidi di bambini
Galleggiano tra conati di merda
capelli e braccia gambe spolpate
ingorgano l’ultima pista a Fiumicino
attraccano gli sputi nell’isola sacra alle Vestali
Mia dolce tenera massacrata città!
Barcolli tra obelischi e rottami
in un quotidiano martirio
il pozzo dove anneghi la tua luna
è quello soffocante delle fogne
Ti saluta al mattino l’avvilente metafora
del piatto mostri inquieti s’aggirano tra
oleandri e rovine all’ombra delle cupole
e di torri sotto le pensiline nei bar nelle stazioni
all’angolo di equestri monumenti emergono
tra cespugli e latrine dagli antichi portoni
dai rispettati androni dei partiti
Gli angeli incorrotti ti salutano
Scendi Regina
Che sia dura la notte
Per coloro i cui passi risuonano
troppo nella veglia
viaggiatori del limbo
Che bisogna dormire!
Conformemente uniti nella lotta
Un’altra specie di individui ombra
assesta il culo sopra la poltrona
distrattamente ingrana le leve del comando
fatalmente coincise con la frode
e affiorano carogne di tigri dal letame
macilenti avvoltoi divorano le porte
Sebastiano e Metronia Paolo e Pinciana
Hanno fagocitato tutto il sangue
che mai ti percorreva le arterie
città trasognata
da un sogno irripetibile di gelo
Cominciato al crepuscolo il viaggio non ha fine
Vegliano in armi questa notte gli antichi
Imperatori hanno preso in affitto il lungotevere
dal ponte Palatino a ponte Milvio
e dai carri al galoppo ci guardano passare
in una interminabile sequenza di vittime soltanto
che ormai non c’è bisogno di carnefici
Irreale città
magicamente costruita da bizzarri architetti
distendi le tue case sopra il niente
Quando ti succhieranno le formiche
uscite inesorabili dai loro nascondigli
rompendo argini e finestre in una
tumultuosa metamorfosi di nuclei e di geni?
Lo stadio che le annunzia
è questa vischiosa marmellata?
Si è frantumata la paura l’alfabeto
è un mosaico sfibrato senza incastri
che vomita parole un blocco solo impasta
l’anima il piombo la speranza
La giovane russa fu sconvolta
Aveva tra le mani una guida eterna
e mappe e segni carte strategie itinerari
impossibili una lunga sequenza di divieti
Chiuso per restauro!
Voleva dire per sempre

annalisa comes
Annalisa Comes
Breve storia di una guarigione per un ospite del Fatebenefratelli
Dopo aver osservato le stelle,
posò il bicchiere sul tavolo.
– Domani sarà una bella giornata –
dichiarò soddisfatto
passandosi la lingua sulle labbra.
Tutte le sere guardava dalla finestra,
tirava fuori il muso
dalla cornice bianca
giù,
lungo
le rive,
alla grande prua di marmo,
poi verso i rami contorti dei platani,
e di nuovo ai bastioni, alla piazza S. Bartolomeo –
gli occhiali sulla punta del naso.
Voleva prendere il largo – e navigare.
– La luna non ha alone – il vento è propizio -.
Pensava che avrebbe steso le vele
sul ponte, per prima cosa.

pittura parietale stile pompeiano
Chiara Moimas
Roma
Ad imperitura memoria
scanalature smussate dai diluvi
e dalle brezze si ergono monche.
Secoli discordi si accalcano
sopra intonaci sgretolati dall’oblio.
Alloro con mirto Ignavia ha intrecciato
e discinta sullo scranno più alto
s’è assisa. Tu quoque
a perpetrare il tradimento sei giunto
da introvabili valli e da esposte riviere
avvinghiato alle ali di metallici sparvieri.
Ombreggia lo sguardo di barbarica
innocenza ma le mani ad immergere
ti appresti nel torbido dei forzieri.
Opaco l’oro e scalfita la corniola.
Eterno a sedurre rimane l’acceso tramonto.
Gian Piero Stefanoni
Ponte Cestio
“Non punirti più, non punirti più..”-
ti dici Roma tra l’odore del piscio
e una bellezza che non può più bastare.
Ma risalgono e avanzano, senza più ostacoli
gli animali fiutando la carne.
Nel nostro dare o non dare, il lamento degli stupri,
le voci lasciate a casa, prestate al sangue.
Anime vili, anime prave, ogni tanto qualcuno
non ce la fa e cede: gambe, braccia,
denti consegnate ai giornali.
Come giocare tra le mine e improvvisamente saltare.
Leopoldo Attolico
Disamore? ( Roma docet )
La mia città indisponente
si difende così bene
che è un piacere attaccarla :
con un ghigno non cattivo
-cattivista
si può provare ad appenderla
-per gioco , al fatidico chiodo
come i guantoni di gran boxeur
grondanti inerzia esplosiva
ed onusta grandeur
Si noterà
-dentro una luce lasca
e un poco impertinente ,
che la nuova emozione
altro non è che la rappresentazione al bacio
di una specie di galateo d’antan rovesciato
dove tutto risplende per l’ultima volta
( e rieccoti ancora l’amore )
(da La realtà sofferta del comico , Aìsara 2009)
Loris Maria Marchetti
Caput mundi
Davvero qualche nume
indigete o acquisito
molto ti deve avere cara, Roma,
se pure tra lo scempio e l’immondizia
in cui ora marcisci
riesci a conservare quasi intatti
il tuo clima stupendo
e l’azzurro del cielo.
(da Le ire inferme, Edizioni dell’Orso, Alessandria 1989)
La sera ci bruciavano i piedi...
La sera ci bruciavano i piedi
per le piaghe – quel San Pietro e Paolo
quasi deserto e allucinato
di sole – tanto vagammo per Roma
tutta nostra (e di pochi turisti
fradici di sudore): fu quello il giorno
che l’amammo per la prima volta.
(da Il laccio, il nodo, lo strale, Achille e la Tartaruga, Torino 2012)
Franco Fresi
A Roma
Per troppo amore alla mia terra
ritorno alle tue strade.
Avevamo piedi piccoli e suole pesanti
scomode sui sampietrini.
Delle mie vecchie orme mi farai riappropriare
anche se a lungo il tempo
il marmoreo profilo vulnera e tutto
di te dissimula.
Dovrebbe essere un obbligo venirci
da prìncipi o da mendicanti
da santi o da peccatori
in viaggio di superamento, abitarci
almeno per un poco, protési
i sensi al battito delle tue cento vite,
al canto dell’ape regina.
Quando nasce e quando muore
tra genuflesse operaie
sibilo impercettibile è il canto
di saluto alla vita o l’addio.
Resta in fondo al perfetto
esagono del cenotafio di cera
quel canto o sospiro, dicono,
fino alla terza delle quattro pasque.
Anche il tuo canto è flebile, Roma, accordo
di canute acque in piano alveo
eco d’antica voce
di nume condannato a non morire.
Giuliana Lucchini
Dall’oltre venire
alla mia bella nipote Marta
Il lutto non è mai finito fiore :
l’ira scolpita a caratteri di fuoco
sulle mura della città
ma in alto sul monumento
dove si posano fra la folla
imperturbati gli uccelli bianchi
in quattro si pettinano tutte insieme
caldamente ridendo accanto al pozzo
(capelli lunghi di vari colori
inclini fluttuano su baci d’aria –
la quadriglia alata se ne va con loro,
tace il terrazzo ai prodromi della sera):
le ragazze che hanno sorvolato l’oceano
per incrociare con ali di sole
l’eterna bellezza di Roma
(inedito)
Chi vive in altri luoghi e si reca a Roma, se vi resta più a lungo di una frettolosa visita, può innamorarsi della sua eterna bellezza, non solo ammirarla per poche ore con la guida tra le mani. Forse l’amava già prima d’iniziare il viaggio. Ma solo chi è nato a Roma e vi è cresciuto, conoscendone le bellezze eterne ormai fatiscenti, il lerciume di certi luoghi e di certi animi, può provare amore e disamore, amore e odio per la sua città natale.