(Tratto dal saggio Gjëmë. Genocidi i poezisë shqipe/Epicedio albanese di Gëzim Hajdari. Shtëpia botuese Mësonjëtorja, Tirana 2010
Ho visto con i miei occhi il poeta Lazër Radi (1916-1998) messo alla berlina nel Campo di internamento di Savër, a Lushnje, nella mia città, dove si trovavano 11 dei 19 Campi di tutta l’Albania. È accaduto il 20 ottobre 1982, al Palazzo della Cultura, in presenza di 600 persone al seguito del Segretario di Partito Petraq Nushi. L’hanno insultato, gli hanno sputato addosso e tirato dei sassi. Ma lui, fermo come una statua, non ha mosso ciglio, sfidando le pietre con la sua parola. Tra le mani stringevo la mia pietra colma di rabbia. Si è alzato un collaboratore della dittatura, Rustem Bega, gridando: «Lazër Radi, vogliamo sapere perché continui a parlare male del comunismo? Che male ti ha fatto il potere del proletariato?» Fiero e coraggioso Lazër, uno dei più grandi intellettuali della nazione albanese, ha risposto ironicamente: «Mi ha condannato a 16 anni di carcere e a 30 di internamento nei Campi; questo per voi non è un male che mi ha fatto il potere del proletariato?!
Lazër Radi nasce a Prizren, in Kosovo. A causa delle violenze subite da parte dei serbi e dei montenegrini la sua famiglia abbandona il Kosovo nel ‘29 e parte in esilio in Albania. Termina la scuola media a Tirana e vive tra la capitale e la città di Shkodër. Insieme ai compagni partecipa alla fondazione della società culturale «Besa Shqiptare». Durante il liceo fa l’attore di teatro. In quegli anni in Albania nascono i primi gruppi d’ispirazione comunista e Lazër Radi entra in contatto con le nuove idee. Si distacca dagli ideali della rivoluzione bolscevica nel momento in cui i serbi e i montenegrini incominciano a commettere violenze nei confronti dei cittadini inermi del Kosovo.
L’incontro con il celebre poeta Migjeni (1911-1937), nell’estate del ’36, lascia un segno profondo nella vita di Lazër. A quel periodo appartengono anche i suoi primi articoli sulla stampa dell’epoca. Nel ‘38 termina le scuole superiori a Shkodër e si iscrive a “La Sapienza” di Roma. Nella città eterna inizia per lui una nuova vita. Nell’aprile del ‘39 viene espulso temporaneamente dall’Italia a sèguito dell’invasione dell’Albania da parte di Mussolini. Si laurea comunque nel ‘42 in Giurisprudenza con il massimo dei voti. Il Prof. Vito Cesarini Sforza lo vuole come suo assistente all’università, ma il giovane kosovaro preferisce tornare in Albania per servire la causa del proprio popolo. Il rientro in patria segna il suo calvario e quello della sua famiglia.
Lazër, arrestato per la prima volta nel ’44, nel ’45 viene condannato a 30 anni di carcere, accusato di esser stato “un anticomunista reazionario al servizio degli italiani”. Viene liberato dopo aver scontato 10 anni di lavori forzati. Una volta libero viene mandato immediatamente in un Campo di internamento, dove rimane fino al 1974. Mentre si trova in prigione il Sigurimi (la polizia segreta del regime comunista) arresta e condanna a diversi anni di carcere anche la moglie Viktoria. Dopo averla torturata, il Sigurimi, per poterla condannare, l’accusa di essere un agente al servizio di Tito. Così il poeta e la sua famiglia trascorrono la loro vita lavorando nelle paludi dei villaggi Savër, Shtyllas e Radostinë. A Kuç, Çermë e di nuovo a Savër affrontano lavori faticosi nei campi melmosi e infestati dalla malaria. In quegli anni Lazër non potè rientrare a Tirana. Lo farà solo nel 1991. Continua a leggere