Manlio Sgalambro, morto il 7 all’età di 89 anni, è stato un filosofo non allineato, poi, negli ultimi vent’anni anche paroliere di musica leggera in collaborazione con Franco Battiato. Negli anni quaranta collabora con case editrici siciliane, nel decennio successivo collabora con la rivista Tempo Presente diretta da Nicola Chiaromonte e Ignazio Silone. Negli anni Settanta organizza il suo pensiero attraverso una tematizzazione forte fondata sulla singolarità. Sgalambro è un teorico della centralità del pensiero non sistematico, periferico, dell’impegno critico ab-solutus opera di una attenzione costante al contemporaneo che si esplica attraverso una forma gnomico-aforismatica: «per l’uomo è l’unica bussola nei mari burrascosi della contemporaneità».
Il suo primo libro giunge nel 1982, La morte del sole, lo pubblica Adelphi alla quale aveva inviato due anni prima il manoscritto. Il primo di una serie di opere che usciranno negli anni seguenti come: Trattato dell’empietà, Antaol, Dialogo teologico. L’ultimo, pubblicato lo scorso anno, è Variazioni e capricci morali. Massimo Cacciari, definisce la sua filosofia: «Molto leopardiana, una filosofia dolorosa ma vera. Il suo sguardo spietato nei confronti delle nostre miserie, delle miserie della nostra natura. Era spietato ma anche disincantato e quindi pietoso alla fine». Nel 1993 l’incontro con Franco Battiato.
(Giorgio Linguaglossa)

Aforismi di Manlio Sgalambro
Perché mi ostino a definirmi “filosofo” benché né i filosofi mi vogliono né io voglio loro? Perché in questa disciplina, nella sua venerata regola, entrai fanciullo e mai venne meno la mia fedeltà. Per più di cinquant’anni l’ho studiata non distratto da altro. Ne ho carpito segreti e reticenze, ho visto esaltazioni e declini, eccessi e dimenticanze. Filosofi sull’altare e poi scagliati giù. Ho assistito al loro regno, e al dominio delle loro idee, e l’ho studiato più che quello di duci e condottieri. Ho avuto amori duraturi, ho imitato modelli (ma come si può imitare l’Idea, ahimè). Sono invecchiato lì dentro. Di essa conosco tre o quattro cose meglio dei miei contemporanei. Non ho altro da aggiungere.
Nell’uomo politico si incarna lo stato medio di una società – i vizi, le mediocrità, i difetti – come se egli ne assorbisse i mali alla maniera dei vecchi stregoni che succiano la ferita purulenta succhiandone anche il maleficio. Così i loro vizi, le turpitudini, il malaffare, sanno di qualcosa di diverso. È come se essi imbrigliassero tutto ciò che di turpe vi è in una convivenza e ne liberassero gli altri.
La società dovrebbe salvarci dall’universo che ci ingoia. Ma cosa ci salva dalla società?
Ci si trascina di notte per le vie e si parla tra sé. Il dialogo alligna di giorno e risuona dei suoi traffici ignobili. Di notte si monologa. Come dei re.
Ciò che vi è di altro nel bello è il suo effetto distruttore. La felice tensione di una poesia fa scoppiare, se essa entra in te, il tuo povero cuore. Tu ne sei la vittima che accoglie devota l’acuminato coltello con cui il bello si immola.
Qui vi è il tentativo di costruire una teologia pubblica – anzi, se ci è concesso di mutuare uno stilema a una grande memoria, una teologia pubblica europea. Se l’epoca della teologia appare conclusa, o se ne trascina appena l’ombra, ciò è avvenuto perché gli stinti intelletti che se ne sono occupati (a parte alcune eccezioni) portano in loro il tarlo che aveva roso la disciplina. Come se questa avesse dovuto seguire le sorti della religione a cui la legava la subalternanza. La stessa caduta della religione, ormai solo oggetto di fede e di speranza – squallidi sostegni del nostro incerto destino –, doveva favorirla e sbarazzare il campo da ogni equivoco. Che Dio esista è solo un fatterello sinistro. Niente di più. (Dato come vanno le cose, bisognava aspettarselo)
La teologia naturale, in quanto “disposizione naturale”, appartiene cioè alla cieca spontaneità, alla bruta natura umana. Ma nello stesso tempo sta a ricordare che qui non v’è che il più infimo essente. La stessa cosa implica la cieca formalità del sillogismo disgiuntivo che, se vogliamo dire le cose come stanno, ci conduce ottusamente a concepire l’oltraggiosa idea di Dio. Con questa empietà comincia e finisce la teologia naturale.
Il meglio non è altro che la realtà così com’è. Questo fu il pessimismo di Hegel.
L’arte del filosofare viene alla luce anche grazie al comportamento mimetico di chi la esercita.
Le discoteche sono piccoli nirvana dove il solenne fragore del rock fa assaporare il piccolo nulla al figlio di Siddharta. Non essere per un poco è tutto quello che si chiede. Piccoli ‘niente’ di cui la vita dell’individuo odierno ha bisogno per rinascere e vivere un’altra settimana.
Nella musica ‘industriale’ è immanente l’irreversibilità del tempo. Essa è musica entropica, musica che si distrugge da sé. La musica leggera è la fattispecie dell’autodissolvimento della musica. E tuttavia è l’unica forma di musica che ha senso per tutti. Sul ciglio dell’abisso, Mahler compone Il canto della terra ma canticchia una canzone napoletana.
Socrate muore perché ha violato la legge. È sciocco dire che egli era un galantuomo, dice giustamente Hegel. Se filosofo è colui che mette l’individuo contro il mondo non possiamo non provarne ripugnanza, egli aggiunge.
Definisco il pensare come l’attenzione per tutto ciò che non è se stessi o l’attenzione per se stessi ma come se non lo si fosse. Per gli equivoci che causa, sono propenso a usare invece di “pensare”, “essere attento” e al posto di “pensiero”, “attenzione”. Uno dei benefici sarebbe quello di lasciare “pensiero” all’uso corrente. L’idea di sforzo connessa vi sarebbe ben spiegata dal concetto di attenzione che è implicito in essa. Definisco, poi, idea lo scarto tra noi e le cose. Allibisco quando sento dire che le idee e le cose sono identiche. È il potere di questo scarto che definisce la capacità di pensare.
Depreco egualmente il trionfalismo di Kant e in genere di quelle filosofie che, trovando necessario partire dall’io, inneggiano ad esso come se fosse una grande conquista e non invece la miserabile sorte che ci è toccata.
Il compito della teodicea fu assolto nello stesso momento in cui essa scomparve, non per averlo fallito ma per esserci riuscita in pieno. In ultima analisi essa fece sparire la nozione stessa di male.
dall’intervista di Renato Minore a Manlio Sgalambro “Il Messaggero” del 4 aprile 1982 ripresa da larecherche.it
“La competenza del filosofo la vedrei proprio qui. Lui arriva post mortem, come medico legale, come l’anatomista. Spicca il suo volo al crepuscolo, quando cioè tutto è finito, non c’è più niente da fare. C’è da vivisezionare. Non è una scienza protagonista, è una specie di lamentazione, forse”.
Ma oggi tutti parlano di ritorno alla filosofia: lei stesso, con il lancio che le si prepara, è dentro il fenomeno?
“C’è un innegabile protagonismo della filosofia, ora. Lo spirito del mondo gioca i suoi scherzi e chiunque vi è messo dentro. In ogni caso è necessario che la filosofia ritorni a essere quello che deve essere, con un ruolo minore, monologante, di commentatore. Non come forma di comunicazione. Perché il rischio è di tramutarsi in ideologia. Una volta, forse, la filosofia informava: su Dio, sul mondo. Nell’ambito del sistema medioevale Dio è un mezzo di comunicazione di massa perché comunica, aggrega, costituisce fonte di notizie e d’informazione per il conducimento della propria vita. Ma guai al filosofo che si traveste da ideologo. Il filosofo è un piccolo aggeggio che si mette nell’ingranaggio e tenta di disturbarlo: non perché voglia disturbare ma perché questa è la sua funzione. È il parassita molesto della prassi che, in ogni momento, che ogni giorno, ogni notte, si agita e si riposa travestita da milioni di uomini, per riprodurre le cose”.
Tra tanti che tornano a parlare di filosofia, sente di avere dei compagni di viaggio?
Ogni filosofia è sola. Il filosofo brucia progetti, continuamente, come il poeta.