Nella poesia di Fabrizio Dall’Aglio (nato nel 1955 a Reggio Emilia), c’è ancora un modello e una secondarietà, c’è ancora il calco sonoro dell’endecasillabo della tradizione impiegato come unità ritmica e tonica, come mattone della costruzione poetica, ma è caduta tutta l’impalcatura del discorso suasorio incentrato attorno ad un «io» depositario della stabilità e della leggibilità del mondo. È caduta la speranza che il «mondo» sia leggibile, neanche nella sua riduzione al «quotidiano» e alla «cronaca», neanche nella riproduzione del «quotidiano» e della «cronaca» nel discorso poetico; è caduta la posizione dell’«io» nei confronti del «noi» e nei confronti della Storia. Rimangono dei simulacri (il mondo, l’io, la luna), dei feticci dinanzi ai quali non si può fare che poesia al negativo, poesia della negazione della posizione dell’«io».
Già da Leopardi in poi è invalsa l’immagine della «luna» come metafora dell’arte nella società moderna. La luna equivale all’enigma dell’arte e alla crittografia dell’io. Nella poesia di Fabrizio Dall’Aglio la «luna» non parla, non viene interrogata, sta muta in alto come un enigma appeso nel cielo. La luna parla come la fata nelle favole: «tu vuoi l’avventura?, ti sia concesso il sempre uguale»; la luna parla con il proprio mutismo molto meglio che con la parola; le parole della luna sono la sua luce notturna, il chiaroscuro; lo sguardo che cade dalla luna è simile allo sguardo che cade da un altro pianeta: è l’incomprensibile e l’incomunicabile che fa della luna l’alter ego dell’«io», la faccia nascosta dell’«io», quella in ombra, che corrisponde specularmente al lato in ombra della luna. È l’immagine dell’irriconoscibile che irradia nell’«io» la sua inquietudine: «era la luna, la puledra gialla / e mi fremeva in corpo la sua luce»; «appendevo la luna alla finestra»; «la luna conficcata ad un lampione». L’immagine della luna è anche il contraltare alla immagine dell’«io», così come l’«io» si duplica e si moltiplica la luna invece resta sempre eguale a se stessa, la rappresentazione del sempre uguale di contro alla dispersione della molteplicità dell’«io». La tematica della duplicazione dell’io e delle sue innumerevoli tracce è centrale nell’opera di Dall’Aglio fin da Hic et nunc (1999), che raccoglie le poesie composte dal 1985 al 1998. Scrive Dall’Aglio: «Avevo cambiato pianeta. / Continuavo la mia vita / sulla terra, / ma avevo cambiato pianeta. Succedevo a una morte / – la mia stessa – / accaduta altre volte / altre volte ripresa». È una sorta di metempsicosi laica e terrena priva di metafisica e ricca di sobria accettazione del pianeta sul quale poggiamo i piedi. Paradossalmente, in Dall’Aglio la rivendicazione de «l’altra luna» corre parallela alla valorizzazione dell’«io», ma è un «io» espropriato quello di cui è questione, che oscilla tra l’estraneazione (Entfremdung) e il familiare, il grottesco e il falso sublime, la maschera dell’«io» e la maschera dell’apparenza. L’impiego prevalente dell’endecasillabo e dei suoi sottoprodotti vuole essere il paludamento alto di una materia prosaicizzata, insonora, umile, desacralizzata quale è il viaggio dell’«io» nel mondo, o meglio, il viaggio dell’«io» nei pressi dell’«io», nei luoghi di sosta dell’«io».
La teologia dell’economia, il vantaggio che l’etica mostra dinanzi all’estetica, corrisponde bene alla economia da teologia domestica qual è divenuta oggi la poesia che ritenga di essere ancora il baricentro della stabilità dell’«io». La poesia di Dall’Aglio si riscatta da questa deriva utilitaristica con il proclamarsi, appunto, infungibile ai valori dell’etica e del mercato borghesi, ai valori pseudo estetici dell’economia domestica travestita da «quotidiano», o da «cronaca»; in quanto «la vita è nemica della vita», ne consegue che la vita non è qualcosa di immediatamente traducibile in una formalizzazione già posta o da porsi. È questo l’assioma da cui parte la poesia di Fabrizio Dall’Aglio, ed è un principio che va dritto in rotta di collisione con quanto asserito dal modello poetico di Giovanni Giudici di mettere la vita in versi o che la vita possa fornire materiali per i versi. L’opera del poeta di Reggio Emilia rappresenta la sconfessione drastica di quel positivo proposito.
da Giorgio Linguaglossa Dopo il Novecento. Monitoraggio della poesia italiana contemporanea Società Editrice Fiorentina, 2013
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Da “Quadri scene” in “L’altra luna” (Passigli, 2006)
A conti fatti, nelle pulsazioni
non sente che la voce del silenzio.
Impara a non pensare, prende tempo
e costruisce un’umile disfatta.
Con lui vorrei rialzarmi ed ai suoi piedi
deporre il mio tesoro di conquista,
il mio lembo di vita accovacciata
spremuta come scorza di limone.
Vorrei il suo corpo, la sua condizione,
il suo languido senso di potenza.
Vorrei partecipare alla sua lenta
combustione del mondo, alla sua fede
che non crede e non vede e in nome
del suo dio miracolato poltrire
fra le frattaglie della conoscenza.
*
Non era pioggia, no, non era neve
non era sole o vento, e la stagione
era soltanto il suo ristretto spazio
un plastico di tempo, una visione.
Non era prima, no, non era dopo
non era notte o giorno, si staccava
e si fissava in un istante vuoto
di te, di me, di tutto ciò che c’era.
Non eri tu, no, non ero io
non era bocca corpo mano occhio
ma abbandonato in fondo al suo riflesso
l’inutile bagliore di uno sguardo.
Da “Nel ventre” in “L’altra luna” (Passigli, 2006)
Ora ha unghie allungate
la tua mano,
disegna fiori e linee
di steli e sopra
cieli con angeli ammaestrati
che si esibiscono
nel circo di Dio.
Qui, sopra la terra,
il mondo è umido
e grigio di pianto.
Un santo
si lamenta a mezza voce,
un uomo impreca,
un altro sta aspettando la sua fine.
E il tempo intanto
spreca le sue giornate
in mezzo a questa guerra
non dichiarata,
dove la vita dorme
sul confine.
*
C’era un suono, e mi sembrava
il vuoto di una casa, porte aperte,
tutto aperto, cassetti, ante, finestre,
un suono che passava, i quadri
che battevano nei muri, le tende
gonfie d’aria, avviluppate,
e fogli, fogli pieni di parole
un castello di carte senza senso,
pizzi, bottiglie, piatti, tovaglioli
tutto disperso, tutto senza posto
un suono scritto come voce,
e inchiostro, inchiostro sopra il pavimento.