Marina Ivanovna Cvetaeva: Мари́на Ива́новна Цвета́ева, (Mosca, 8 ottobre 1892 – Elabuga, 31 agosto 1941), nasce a Mosca l’8 ottobre 1892, da Ivan Vladimirovic Cvetaev (1847-1913, filologo e storico dell’arte, creatore e direttore del Museo Rumjancev, oggi Museo Pushkin) e della sua seconda moglie, Marija Mejn, pianista di talento, polacca per parte di madre. Marina trascorre l’infanzia, insieme alla sorella minore Anastasija (detta Asja) e ai fratellastri Valerija e Andrej, figli del primo matrimonio del padre, in un ambiente ricco di sollecitazioni culturali. A soli sei anni cominciò a scrivere poesie. Marina ebbe dapprima una istitutrice, poi fu iscritta al ginnasio, quindi, quando la tubercolosi della madre costrinse la famiglia a frequenti e lunghi viaggi all’estero, frequentò degli istituti privati in Svizzera e Germania (1903-1905) per tornare, infine, dopo il 1906, in un ginnasio moscovita. Ancora adolescente la Cvetaeva rivelò un carattere autonomo e ribelle; agli studi preferiva intense e appassionate lettureprivate: Push,kin, Goethe, Heine, Holderlin Hauff, Dumas padre, Rostand, la Baskirceva, ecc. Nel 1909 si trasferì da sola a Parigi per frequentare lezioni di letteratura francese alla Sorbona. Il suo primo libro, “Album serale”, pubblicato ne 1910, conteneva le poesie scritte tra i quindici e i diciassette anni. Il libretto uscì a sue spese e in tiratura limitata, ciò nonostante fu notato e recensito da alcuni tra i più importanti poeti del tempo, come Gumiliov, Briusov e Volosin.
Volosin, inoltre, introdusse la Cvetaeva negli ambienti letterari, in particolare in quelli gravitanti attorno alla casa editrice “Musaget”. Nel 1911 la poetessa si recò per la prima volta nella famosa casa di Volosin a Koktebel’. Letteralmente, ogni scrittore russo di fama negli anni 1910-1913 soggiornò almeno una volta a casa Volosin, una sorta di ospitale casa-convitto. Ma un ruolo determinante nella sua vita lo ebbe Sergej Efron, un apprendista letterato che la Cvetaeva incontrò a Koktebel’ durante la sua prima visita. In una breve nota autobiografica del 1939-40, così scriveva: “Nella primavera del 1911 in Crimea ospite del poeta Max Volosin incontro il mio futuro marito, Sergej Efron. Abbiamo 17 e 18 anni. Decido che non mi separarerò da lui mai più in vita mia e che divento sua moglie.” Cosa che puntualmente successe, pur contro il parere del padre di lei.
Di lì a poco comparve la sua seconda raccolta di liriche, “Lanterna magica”, e nel 1913 “Da due libri”. Intanto, il 5 settembre 1912, era nata la prima figlia, Ariadna (Alja). Le poesie scritte dal 1913 al 1915 avrebbero dovuto vedere la luce in un volume, “Juvenilia”, che restò inedito durante la vita della Cvetaeva. L’anno dopo, in seguito a un viaggio a Pietroburgo (il marito si era intanto arruolato come volontario su un treno sanitario), si rafforzò l’amicizia con Osip Mandel’stam che però ben presto si innamorò perdutamente di lei, seguendola da S. Pietroburgo a Aleksandrov, per poi improvvisamente allontanarsi. La primavera del 1916 è divenuta infatti celebre in letteratura grazie ai versi di Mandel’stam e della Cvetaeva….
Durante la rivoluzione di Febbraio del 1917 la Cvetaeva si trovava a Mosca e fu dunque testimone della sanguinosa rivoluzione bolscevica di ottobre. La seconda figlia, Irina, nacque in aprile. A causa della guerra civile si trovò separata dal marito, che si unì, da ufficiale, ai bianchi. Bloccata a Mosca, non lo vide dal 1917 al 1922. A venticinque anni, dunque, era rimasta sola con due figlie in una Mosca in preda ad una carestia così terribile quale mai si era vista. Tremendamente poco pratica, non le riuscì di conservare il posto di lavoro che il partito le aveva “benevolmente” procurato. Durante l’inverno 1919-20 si trovò costretta a lasciare la figlia più piccola, Irina, in un orfanotrofio, e la bambina vi morì nel febbraio per denutrizione. Quando la guerra civile ebbe fine, la Cvetaeva riuscì nuovamente a entrare in contatto con Sergej Erfron e acconsentì a raggiungerlo all’Ovest.
Nel maggio del 1922 emigrò e si recò a Praga passando per Berlino. La vita letteraria a Berlino era allora molto vivace (circa settanta case editrici russe), consentendo in questo modo ampie possibilità di lavoro. Nonostante la propria fuga dall’Unione Sovietica, la sua più famosa raccolta di versi, “Versti I” (1922) fu pubblicato in patria; nei primi anni la politica dei bolscevichi in campo letterario era ancora abbastanza liberale da consentire ad autori come la Cvetaeva di essere pubblicati sia al di qua che oltre frontiera.
A Praga La Cvetaeva visse felicemente con Efron dal 1922 al 1925. Nel febbraio 1923 nacque il terzo figlio, Mur, ma in autunno partì per Parigi, dove trascorse con la famiglia i successivi quattordici anni. Anno dopo anno, tuttavia, fattori diversi contribuirono ad un grande isolamento della poetessa e ne comportarono l’emarginazione. Ma la Cvetaeva non conosceva ancora il peggio di quello che doveva venire: Efron aveva infatti cominciato a collaborare con la GPU. Fatti ormai noti a tutti, mostrano che egli prese parte al pedinamento e all’organizzazione dell’uccisione del figlio di Trotskij, Andrej Sedov, e di Ignatij Rejs, un agente della CEKA. Efron si andò così a nascondere nella Spagna repubblicana in piena guerra civile, da dove partì per la Russia. La Cvetaeva spiegò alle autorità e agli amici di non avere mai saputo nulla delle attività del marito, e si rifiutò di credere che il marito potesse essere un omicida.
Sempre più immersa nella miseria, si decise, anche sotto la pressione dei figli desiderosi di rivedere la patria, a tornare in Russia. Ma nonostante alcuni vecchi amici e colleghi scrittori venissero a salutarla, ad esempio Krucenich, capì in fretta che per lei in Russia non c’era posto nè vi erano possibilità di pubblicazione. Le furono procurati dei lavori di traduzione, ma dove abitare e cosa mangiare restavano un problema. Gli altri la sfuggivano. Agli occhi dei russi dell’epoca lei era una ex emigrata, una traditrice del partito, una che aveva vissuto all’Ovest: tutto questo in un clima in cui milioni di persone erano state sterminate senza che avessero commesso alcunché, tanto meno presunti “delitti” come quelli che gravavano sul conto della Cvetaeva. L’emarginazione, dunque, si poteva tutto sommato considerare il minore dei mali.
Nell’agosto del 1939, però, sua figlia venne arrestata e deportata nei gulag. Ancora prima era stata presa la sorella. Quindi venne arrestato e fucilato Efron, un “nemico” del popolo ma, soprattutto, uno che sapeva troppo. La scrittrice cercò aiuto tra i letterati. Quando si rivolse a Fadeev, l’onnipotente capo dell’Unione degli scrittori, egli disse alla “compagna Cvetaeva” che a Mosca non c’era posto per lei, e la spedì a Golicyno. Quando l’estate successiva cominciò l’invasione tedesca, la Cvetaeva venne evacuata ad Elabuga, nella repubblica autonoma di Tataria, dove visse momenti di disperazione e di desolazione inimmaginabili: si sentiva completamente abbandonata. I vicini erano i soli che l’aiutassero a mettere insieme le razioni alimentari.
Dopo qualche giorno si recò nella città vicina di Cistopol’, dove vivevano altri letterati; una volta lì, chiese ad alcuni scrittori famosi come Fedin e Aseev di aiutarla a trovare lavoro e a trasferirsi da Elabuga. Non avendo ricevuto da loro alcun aiuto, tornò a Elabuga disperata. Mur si lamentava della vita che conducevano, pretendeva un abito nuovo ma il denaro che avevano bastava appena per due pagnotte. La domenica 31 agosto del 1941, rimasta da sola a casa, la Cvetaeva salì su una sedia, rigirò una corda attorno ad una trave e si impiccò. Lasciò un biglietto, poi scomparso negli archivi della milizia. Nessuno andò ai suoi funerali, svoltisi tre giorni dopo nel cimitero cittadino, e non si conosce il punto preciso dove fu sepolta.
Caro peccato,
Compagna mia e nemica mia carissima!
Tu versasti il sorriso nei miei occhi,
E la mazurka in tutte le mie vene.
Da te ho imparato a non tener l’anello,
Non m’avrebbe la vita presa in sposa!
A cominciare a caso, dalla fine,
E a finire però sempre daccapo.
A essere fuscello, e essere acciaio,
In questa vita, in cui si può sì poco…
A scioglier la tristezza con la cioccolata,
E a sorridere in viso a chiunque passa!
*
Sono contenta che voi siate ammalato non di me,
sono contenta che io sia ammalata non di voi,
che mai la pesante sfera terrestre
mancherà sotto i nostri piedi.
Sono contenta che si possa essere buffe –
lasciate andare – e non giocare con le parole,
e non arrossire di un’onda soffocante
appena sfiorandosi con le maniche.
Sono contenta, inoltre, che voi davanti a me
tranquillamente abbracciate un’altra,
non mi augurate di bruciare nel fuoco
infernale perché bacio non voi.
Che il mio dolce nome, mio tenero,
non ricordiate né di giorno né di notte – invano…
Che mai nel silenzio di una chiesa
canteranno sopra di noi: Alleluja!
Vi ringrazio con il cuore e con la mano
per il fatto che voi – senza saperlo!- così
mi amate: per la mia tranquillità notturna,
per la rarità degli incontri alle ore del tramonto,
per le nostre non-passeggiate sotto la luna,
per il sole non sopra le nostre teste,
per il fatto che voi siate ammalato -ahimé!- non di me,
per il fatto che io sia ammalata – ahimé!- non di voi.
(trad. di P. A. Zveteremich)
Ai miei versi scritti così presto
Ai miei versi scritti così presto |
da: Versi per Blok
Il tuo nome è una rondine nella mano, il tuo nome è un ghiacciolo sulla lingua. |
Io ti racconterò – del grande inganno
Io ti racconterò – del grande inganno:io ti racconterò come cala la nebbia |
Dopo una notte insonne si fa debole il corpo
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Io sono una pagina per la tua penna
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Sono felice di vivere in modo semplice ed esemplare Sono felice di vivere in modo semplice ed esemplare – come il sole, come il pendolo, come il calendario. D’essere un’anacoreta laica di snella figura, savissima – come qualsiasi creatura di Dio.Di sapere: lo Spirito è mio alleato, lo Spirito è mia guida! D’entrare senza annunciarmi, come un raggio e come uno sguardo. Di vivere così come scrivo: in modo esemplare e succinto – come Dio comanda e come gli amici non prescrivono. (trad. di P. A. Zveteremich) |
“Ai miei versi scritti così presto che nemmeno sapevo d’esser poeta”… forse la differenza tra i grandi poeti e i poeti è tutta racchiusa in questa frase della Cvetaeva, i primi sanno pensare e scrivere da poeti ancor prima di esserlo e niente può deviare o cambiare la loro condizione interiore, la realtà e la vita, possono solo arricchirli.
Credo che la poesia della Cvetaeva sia un po’un paradigma inarrivabile della cosiddetta poesia confessione, un sotto genere del genere che, nelle sue mani, diventa il super genere. È un modo di fare poesia in realtà difficilissimo perché poggia unicamente su un punto: l’io e sulla capacità dei grandi ponti di parole e di arcate di parole che si dipartono dall’io, dall’esperienza vissuta dell’io. Beninteso, tutta la poesia moderna parla dell’io, ma qui in questione è un «fuori questione»: quale io è il vero io? Ecco è questo l’aspetto determinante che la poesia della Cvetaeva mette a fuoco.
L’inconsapevolezza soggettiva della Cvetaeva la quale scriveva versi senza neanche sapere d’esser poeta, è la migliore condizione per un certo tipo di poesia. Ma qui inconsapevolezza soggettiva non equivale a inconsapevolezza tout court.
Scrivere poesia in un sotto genere come quello utilizzato dalla Cvetaeva è talmente difficile da rendere il compito quasi impossibile… oggi va di moda un certo tipo di poesia al femminile, in Italia e in Europa, si femminilizza il sotto genere, lo si inzeppa di sospiri e di singhiozzi, un po’ di teatro e un po’ di romanzo picaresco… ma, insomma, non è una cosa, diciamo, seria.
Chi tenta di fare poesia sulla scia della Cvetaeva deve avere una saldissima presa su quel sotto genere e possedere dei polmoni potentissimi, in grado di fare il pieno di parole ossigeno e andare sott’acqua per un bel po’…
Mi piacerebbe, un giorno, pubblicare sul blog una poetessa che ritengo abbia dei polmoni sufficientemente ampi e capienti… ma aspetto il suo sì.
purtroppo, lo confesso, capito anche in questo blog nei momenti di distrazione e/o riposo… quindi non riesco, per stanchezza e per tempo, a scrivere cose sensate e diffuse. Magari solo qualche impressione, o indicazione da mestrina, Quindi, anche in questo caso non riesco a soffermarmi su quanto dici, Giorgio, e che è sicuramente interessante (la riflessione sulla poesia femminile, poi, è molto stimolante). Su un punto, però, dissento – la Cvetaeva aveva una consapevolezza piena del suo essere poeta, nel solco della tradizione russa. Anche soggettivamente era pienamente consapevole del suo ruolo, etico/estetico/programmatico, di poeta. E lo si evince particolarmente dalle sue lettere e dai suoi scritti “privati” (ma anche dai suoi saggi).