
Il Vuoto
Di recente, mi è stato chiesto che cosa intenda per «autenticità» e «identità» in poesia. Per abbozzare una risposta dovrei scrivere un trattato, cosa impossibile ovviamente, perché non ne ho né i mezzi, né la competenza, né il tempo. Però tenterò di rispondere citando una poesia di Anna Ventura dal titolo «La parola alle cose», tratta dalla raccolta Le case di terra (1990). Qui c’è un personaggio, presumibilmente l’autrice, ma nella poesia moderna sappiamo che l’io dell’autore si traveste in una molteplicità di personaggi indipendenti. Quindi, qui c’è un personaggio alle prese con alcune incombenze della vita quotidiana, incombenze senza molto significato che ciascuno di noi fa di continuo in una giornata (camminare per le stanze, dare l’acqua ai fiori, etc). Ma è proprio in questo contesto non significante e non particolarmente significativo che si cela (e affiora) l’epifania di una rivelazione, la magia di una esperienza significativa. Ma, come può accadere che proprio dalla nuda elencazione degli atti della vita quotidiana si riveli un momento significativo? Quale è il nesso che lega il non-significante al significativo, l’inautentico all’autentico?. Leggiamo la poesia:
La parola alle cose
Altissima sui sugheri,
cammino per le stanze.
È estate.
Sposto un calamaio pesante,
raddrizzo un fiore
nella polla d’acqua
di un vaso di cristallo.
In questi stessi spazi,
ampliati da un ordine chirurgico,
ieri,
uno sciame di vespe mi seguiva.
Oggi tocco la realtà e le cose:
angoli e superfici tonde,
la lucentezza degli specchi,
la scarna ruvidezza del coccio,
la porcellana bianca
del bricchetto del latte,
il tegamino d’alluminio
dei tempi della guerra
-oro e rame alla patria-. Ora
mi pare di capire
perché Morandi dipingeva da recluso,
trincerato oltre una fila
lunghissima di stanze: le cose
vogliono un grande silenzio
prima di prendere la parola.
Commento impolitico di Giorgio Linguaglossa
.
Da notare quell’incipit meta ironico «Altissima sui sugheri», quando poi tutta la composizione è parametrata su un registro lessicale basso. Anna Ventura viene dopo il decennio de “La parola innamorata”, del post-sperimentalismo e del primo minimalismo romano-milanese, un vero e proprio diluvio di luoghi comuni e di truismi del ceto-massa poetico. La Ventura si pone la seguente parola d’ordine: restituiamo finalmente «la parola alle cose», facciamo parlare le «cose» e lasciamo stare le «parole» ormai troppo inquinate dai paroliferi e dagli alfieri delle parole d’ordine dei modelli maggioritari. Nella sua poesia non c’è più traccia di «mettere la vita in versi» (di un Giudici che farà scuola e pessimi allievi), non c’è più traccia di pasolinismi, di cripto analisi del corpo (di seconda e terza mano), non c’è più traccia di poesia orfica (di seconda e terza mano), non c’è più traccia del post-sperimentalismo auto referenziale di un Edoardo Cacciatore e dei suoi innumerevoli imitatori, qui si va alla radice, e cioè dare la «parola» alle «cose». Mi sembra un coraggioso tentativo di fare tabula rasa di tutto ciò che una certa poesia «maggioritaria» e «minoritaria» aveva propugnato e dei suoi epigoni (di seconda e terza mano), non c’è nulla di quei manufatti contraffatti. La poesia di Anna Ventura reagisce, come può, e con i suoi mezzi, allo sciame di scritture epigoniche che aveva la piccola borghesia massmediatizzata quale contro valore e controllore di quelle scritture poetiche che facevano un uso abusivo del «privato» e del «quotidiano» che tanto erano in consonanza con l’ideologia privatistica della piccola borghesia in via di definitiva conversione a quello che sarà denominato Ceto Medio Mediatico.
Occorre qui distinguere la nozione sociologica di «piccola borghesia intellettuale» da quella di carattere estetico di referente delle scritture poetiche destinate al consumo massmediatizzato di quella classe che nel corso del tardo Novecento e negli anni Dieci diventa una massa fluida e floreale. Dopo il Craxismo arriva la pseudo sinistra post-comunista del Partito Democratico e il fenomeno di teatro Berlusconi, e quella che era una classe intermedia tra proletariato e borghesia diventa adesso un Ceto Medio Mediatico in via di impoverimento sempre meno decisivo per le sorti del Capitale finanziario.
La poesia del tardo Novecento come reagisce a questa situazione?
A me sembra che ci siano state e ci siano anche oggi, qua e là, delle reazioni da parte dei migliori poeti dinanzi a questa situazione macro culturale. La poesia di Anna Ventura è una di queste: salta il «referente» della «piccola borghesia», cioè non si rivolge più a quella piccola borghesia democristiana e cattocomunista degli anni Sessanta Settanta a cui si rivolge, ad esempio, la poesia di un Giudici, che nel frattempo è scomparsa, ma si rivolge ad un interlocutore impalpabile e indistinto (che non c’è e che non si sa se mai ci sarà), tenta di saltare il corto circuito del Medio Ceto Mediatico. «Le cose vogliono un grande silenzio prima di prendere la parola». Tra la «parola» e la «cosa» si stabilisce un «grande silenzio».
La composizione è basata su un impianto rigorosamente ipotonico, accentuazione dattilica, il metro è variabile e viene lasciato oscillare dal novenario all’endecasillabo con assenza di corrispondenze rimiche e foniche. L’impianto retorico è stato disboscato di tutto il bagaglio retorico-stilistico, ciò che resta è una colonna insonora, un’unica strofa ad andamento ipotonico che poggia su un basamento narrativo. Ciò che resta è l’a-capo del verso, unica marca riconoscibile che ci dice che qui siamo di fronte ad una composizione poetica, infatti la poesia potrebbe essere trascritta tutta in prosa, ma perderebbe di icasticità e di visualizzazione, caratteristiche che sono date dall’a-capo. Tutta la composizione è rivolta al lettore, vuole coinvolgere il lettore all’interno della composizione, richiede un suo intervento attivo. Il lettore è il vero protagonista di questa composizione.
Anna Ventura è nata a Roma, da genitori abruzzesi. Laureata in lettere classiche a Firenze, agli studi di filologia classica, mai abbandonati, ha successivamente affiancato un’attività di critica letteraria e di scrittura creativa. Ha pubblicato raccolte di poesie, volumi di racconti, due romanzi, libri di saggistica. Collabora a riviste specializzate ,a quotidiani, a pubblicazioni on line. Ha curato tre antologie di poeti contemporanei e la sezione “La poesia in Abruzzo” nel volume Vertenza Sud di Daniele Giancane (Besa, Lecce, 2002). È stata insignita del premio della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ha tradotto il De Reditu di Claudio Rutilio Namaziano e alcuni inni di Ilario di Poitiers per il volume Poeti latini tradotti da scrittori italiani, a cura di Vincenzo Guarracino (Bompiani,1993). Dirige la collana di poesia “Flores”per la Tabula Fati di Chieti.
Suoi diari, inseriti nella Lista d’Onore del Premio bandito dall’Archivio nel 1996 e in quello del 2009, sono depositati presso l’Archivio Nazionale del Diario di Pieve Santo Stefano di Arezzo.
È presente in siti web italiani e stranieri; sue opere sono state tradotte in francese, inglese, tedesco, portoghese e rumeno pubblicate in Italia e all’estero in antologie e riviste. È presente nei volumi: AA.VV.-Cinquanta poesie tradotte da Paul Courget, Tabula Fati, Chieti, 2003; AA.VV. e El jardin,traduzione di Carlos Vitale, Emboscall, Barcellona, 2004. Nel 2014 per EdiLet di Roma esce la Antologia Tu quoque (Poesie 1978-2013). Dieci sue poesie sono presenti nella Antologia di poesia Come è finita la guerra di Troia non ricordo a cura di Giorgio Linguaglossa (Roma, Progetto Cultura, 2016)