Archivi del giorno: 19 febbraio 2014

ANTOLOGIA IV PER IL PARNASO – Roberto Maggiani, Giuseppe Panetta, Chiara Moimas, Sabino Caronia, Giuseppina Di Leo, Marzia Spinelli, Davide Cortese, Stelvio Di Spigno

Parnaso 1

roberto maggiani

roberto maggiani

Roberto Maggiani

La paura

È un qualunque mattino di serenità:
il sole alto sull’orizzonte marino
la nuvola bianchissima nell’azzurro subtropicale
la palma ondeggiante lungomare
il frastuono dell’onda sulle pietre.

Minuti sospesi
sul baratro dell’inesistenza –
ma noi di questo non ci preoccupiamo.
Nell’Universo dal vuoto metastabile
(potrebbe disintegrarsi da un momento all’altro)
qualcuno si spaventa per una sirena

un incendio improvviso nel bosco
un forte vento.

La paura
è solo un momento in cui vediamo
riflessa nel mondo
la precarietà
della rete che ci sostiene.

 

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Giuseppe Panetta

Il cuore assente per il troppo battito
gli occhi riversi nel bagliore di compassione
e la luce del lavacro torbido di Giove prono nella galassia
antigene del Potere asfittico pronipote di Venere distributrice
di bevande nell’aferesi della prima spremitura di nube con la sorte
della grappetta dei fogli pidocchiosi d’inchiostro dall’alto del satellite cieco
il profilo del malaffare planetario pesca nell’idolatria rinsecchita del dio denaro
in rivoli di melma di una qualsiasi povertà che vìola e recide la protostella al nascere
della galassia del vivere nell’infrarosso interagente nel libertinaggio masturbatore
d’ogni fibra oftalmica avvelenatrice del rimpatrio delle stelle dell’orsa maggiore
che guidano i disperanti nel mare nostrum della sera con diaspore di sconforto
di speranza nei frangiflutti delle luci morte delle supernove che come fari
d’ogive e distruzione di gas e polveri in luogo del seme rifuggono
nel procellarum muto l’oscurità il riassetto del mondo per mano
d’uomo e in questo primo quarto il nulla a-cosmico
come un corno d’Africa porta fortuna

Chiara Moimas

Chiara Moimas

Chiara Moimas

Preziosamente

Zaffiri stemperano il cielo e l’orizzonte,
acquamarina fresca zampilla dalla fonte,
rossi rubini a coprir l’occiduo sole
e d’ ametista i petali delle nascoste viole.

Smeraldi intensi sopra i pendii e sui prati,
coralli e lapislazzuli son fiori profumati,
stille di diamanti paion gocce di rugiada
e sopra le tue palpebre il pallore della giada.

La notte si accende, son topazi le stelle,
ed è d’ambra dorata la tua pelle,
boccioli di corniola i pruni del tuo seno
racchiusi nel cristallo i colori del baleno.

Bisso prezioso e casto a ripararti il pube
e incenso conturbante che avvolge in una nube.
Un’ostrica ho divelto per cullare il tuo riposo;
opalescente perla, che toccar non oso.

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Sabino Caronia

da Diario di un’assenza

È il vuoto che mi lasci la mia vita.
No, non manca la sedia ma il tuo posto
e più manca la voce e più il silenzio
dell’averti qui accanto, di quei grandi
occhi perduti che lasciano il mondo.
Anche la chiara luna su nel cielo
solitaria di te nel buio splende.
Tutto intorno è il diario di un’assenza.

A distanza

A distanza, dai luoghi che traversa
l’ansia d’averti, come sai, ti chiamo
ed una gioia sento in me diversa
a cui m’arrendo come pesce all’amo.

Tutta la vita in fondo è cosa persa,
l’inganno di un inutile richiamo,
la filastrocca bella e un po’ perversa
che ci seduce con il suo “ti amo”.

Pure resta un ricordo: l’usignolo
che cantava nel bosco ed era solo
e l’ombra che scendeva nella sera

dalle ciglia, materna ombra severa,
e gli angoli incurvava della bella
bocca altera e distante come stella.

 FOTO G. DI LEO

Giuseppina Di Leo

Un uomo dai quattro occhi ho guardato
due li aveva nel petto sotto la camicia
ronzavano alla maniera di un animaletto
ali le ciglia sbattevano segretamente
senza esser visti divoravano
l’eccesso del cuore facendolo sterile
gli occhi del viso erano gioiosi
si posavano curiosamente
sui platani dal bordo castano
stimme verde arancio o di morfea
nella morfallassi di un tempo intero
avanzavamo a scoprire genesi e genere
a un’età dove riposto è già ogni sgomento
con altri occhi somiglianze non ve n’erano
mai ne avevo visti di così belli;
ma i due occhi nel petto
non mi fu possibile guardare
né mi preoccupai invero di scoprirli
segreti ammorbavano chiarori in lampi
e, allontanandomi, essi trafissero il dolore.

*
C. M. E.

La cenere nuota nell’acqua
di un bicchiere mezzo vuoto.
Una cicca di primo mattino.
Qualche scatto assestato per bene
tra piccoli fiori coltivati ad arte
nel piccolo giardino davanti
l’alloggio, e se puoi dimmi
al risveglio cosa ricordi
se il bacio sulle labbra
a quale parola associare.

Aria fresca e avvio di un motore
un pensiero anche
apertosi tremando
come noi tremiamo.

Spinelli foto

Marzia Spinelli

Ti ho cercato in ogni deserto
per le strade di questa odorosa
amorosa città
ho scavato nella terra
e abbracciato la carne
disegnando un sorriso
un suono della tua voce
un profumo tuo
nel giorno
che continua il sogno di te
della notte, di notte qualcosa di te
ho immaginato
la tua lucente armatura d’eroe
e il mio abito di fanciulla perduta
per entrambi
in un trasparente corpuscolo
nella grana ruvida delle stelle
nell’aurora una nuova sembianza di noi.

(inedito)

davide corteseDavide Cortese

Vomito boschi dalle erbe odorose,
unicorni dalle storie millenarie.
Con un solo filo dei miei pensieri
giovani marinai dimenticano il mondo
intrecciando con dita di scheletro
gasse degli amanti e nodi dai nomi
che i loro figli mai nati
non smettono ancora di inventare.
Ciò che si muove nel mio ventre
è l’intero mondo,
bagnato fradicio, fino al cuore di fuoco,
dalla pioggia splendente della vita.
Ma sarò solo una gabbia d’ossa
se ora tu non verrai ad amarmi.
Sarò il cimitero dei miei popoli iridati,
degli arcani baciatori,
dei miei incendiari poeti.
Sarò maestoso nubifragio di tristezze
se solo tu ora non verrai.

(da “Anuda” Aletti 2011)

Elvio Di Spigno

Stelvio Di Spigno

Barcarola della fortuna

A Stefania Buonofiglio

Fai brillare i cavalli al tuo treno perché
è soltanto miseria il nostro mondo, anche se
si affaccia a rincuorarti mentre cammini
ai bordi di una foto, su Positano inusitata
di colori e di acacie, e a lungo la faccia che hai
perde il verde del suolo primitivo.

Brevettammo universo e allegria, come a metà
del Novecento i nostri avi, entrambi contadini,
ma su due facce di cielo distanti in fascine,
poi vennero i giorni di caduta, ora ricordo
che fosti incinta di me come una madre,
mi curavi e cercavi, mi adottavi e viravi

la tua barchetta molle delle astuzie marine
verso un’isola dove restasti sola, drammatica,
a morire di sghembo, senza essere chiamata,
più da nessuno da quel giorno, dolcezza,
signora, amore, pietà, larghezza amata.
Restano tra i vivi gli olivi calabresi,

il filmino della casa, l’anno 2006, la mente andata,
e ogni nuovo volto è un dolore che affoga:
popolammo il motore della fine, quando
tutto cominciò, in un giorno di carta, ere fa,
nessuno ancora l’ha scritto o l’ha tradito,
perché a ogni fatica noi affondammo insieme.

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Che posto ha il «Bello» nell’impero del «male»? (nel pensiero di Giacomo Leopardi) di Giorgio Linguaglossa

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Leggiamo la conclusione del Cantico del gallo silvestre di Giacomo Leopardi:

«Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro meravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna; parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà neppure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi».

La frase chiave di Leopardi sulla «natura» è questa: «perpetuo circuito di produzione e distruzione». Sembra una frase di Albert Caraco. Nessuna illusione sulla bontà della «natura» nel pensiero di Leopardi della maturità ma uno sguardo oggettivo che osserva le cose nella loro aseità. La «natura» non mira alla felicità o all’infelicità degli uomini. L’uomo non è il suo fine, la «natura» non si accorge dell’uomo, va, segue le sue leggi e non si accorgerebbe nemmeno se in un colpo solo uccidesse ed estinguesse la razza umana. La «natura» è indifferente e cieca, non sa quello che fa, è innocente. Se ancora nel 1821 Leopardi accettava le leggi della natura in quanto «benignissima», nelle Operette morali la legge di «natura» è «spaventevole».

Nel “Dialogo della Natura e di un islandese” Leopardi afferma che l’ordine dell’universo è cattivo, forse per qualche creatura l’ordine può sembrare «perfettamente buono», ma è un inganno. Così commenta il filosofo e poeta recanatese: «Ammiriamo questo ordine, questo universo: io lo ammiro più degli altri lo ammiro per la sua pravità e deformità, che a me paiono estreme». Il «male» nel mondo non è accidentale, non è un disordine straordinario, no, «il male è nell’ordine, e «esso ordine non potrebbe star senza il male». L’ordine dunque è fondato sul «male», il «male» è ordinario, il «male» è essenziale. Non c’è altro che «male».
Leopardi scrive queste parole sul «male» il 17 maggio 1829 a Recanati, due anni prima aveva composto il Dialogo di Plotino e di Porfirio nel quale c’è ancora una illusione sulla bontà primitiva della «natura».

Il 22 aprile 1826 scrive: «Tutto è male. Cioè tutto quello che è, è male; che ciascuna cosa esista è un male e ordinata dal male; il fine dell’universo è il male; l’ordine e lo stato, le leggi, l’andamento naturale dell’universo non sono altro che male, né diretti ad altro che al male». Leopardi è un materialista che odia la materia, in essa vede annidarsi il «male», il «male» è il «tutto». Per Leopardi il «tutto» non è il «tutto», che c’è qualcosa oltre di esso: «Non v’è altro bene che il non essere… Non v’ha altro di buono che quel che non è; le cose che non son cose». E Dio? «L’infinita possibilità è l’unica cosa assoluta», risponde Leopardi. Derubricando a mera «possibilità» l’esistenza di un dio.
leopardifoto Commenta Pietro Citati nel suo monumentale lavoro sul recanatese: «Leopardi non conosceva i tempi e i luoghi moderni. Aveva vissuto in un grosso paese come Recanati: aveva abitato per qualche mese a Roma e per quasi due anni a Bologna, città avvolte dal tedio pontificio: Non leggeva i giornali e i romanzi francesi, che rivelavano la straripante, quasi mostruosa, vitalità di Parigi: non avrebbe dunque dovuto comprendere il moderno: le sue idee, le sue tendenze, le sue passioni, la sua forza metamorfica. Ma, come dicono Timandro ed Eleandro, il suo cervello era «fuori moda». Questa era una delle sue più grandi facoltà: non appartenere a nessuna epoca, né a quella presente né a quella passata; non viveva nel quarto secolo prima di Cristo né nel 1750 o nel 1826. Era a casa dappertutto e da nessuna parte. La sua radicale estraneità al tempo gli permise di comprendere il diciannovesimo secolo, la società borghese e quella di massa. Se leggiamo lo Zibaldone, lampi ci richiamano di continuo alla memoria Nietzsche e Spengler, Adorno e David Riesman. Così Leopardi, il non moderno, ci sembra straordinariamente moderno, come se abitasse e guardasse e studiasse cosa avviene oggi». (p. 298 “Leopardi” Mondadori, 2010)

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Resta una singolare interrogazione: perché mai Leopardi non ha mai pensato sul concetto di «Bello» nell’arte? Come mai questa lacuna? Ma è una vera lacuna del suo pensiero?, o, nel quadro del suo pensiero il «Bello» afferirebbe a quella «seconda natura» che per il recanatese costituisce la società degli uomini?, e quindi non altro sarebbe che un modus, una secondarietà della categoria centrale della «natura» intorno alla quale il suo pensiero ha incessantemente tentato una ricognizione la più esaustiva possibile in quella monumentale indagine che è lo Zibaldone.
Leopardi non si è mai posto la domanda fondamentale che per noi  che veniamo Dopo il Moderno invece è essenziale: Che posto ha il «Bello» nell’impero del «male»? Che posto ha il «Bello» nel mondo dominato dalla Tecnica? Che posto ha il «Bello» nel mondo delle sorti progressive? Forse perché Leopardi già intuisce, come nessun altro intellettuale del suo tempo e di quello seguente, ciò che accadrà nella futura società dell’organizzazione amministrativa degli stati moderni, nella società della mercificazione e del mercato.

Leopardi con straordinario acume non ha mai considerato la problematica del «Bello» degna della sua attenzione. Non la considera affatto una problematica, la considera una categoria sussidiaria e secondaria, affetta, cioè, da secondarietà, e quindi epifenomenica.

Dolce e chiara è la notte e senza vento,
E queta sovra i tetti e in mezzo agli orti
Posa la luna, e di lontan rivela
Serena ogni montagna. O donna mia,
Già tace ogni sentiero, e pei balconi
Rara traluce la notturna lampa:
Tu dormi, che t’accolse agevol sonno
Nelle tue chete stanze; e non ti morde
Cura nessuna; e già non sai nè pensi
Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che sì benigno
Appare in vista, a salutar m’affaccio,
E l’antica natura onnipossente,
Che mi fece all’affanno. A te la speme
Nego, mi disse, anche la speme; e d’altro
Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto.
Questo dì fu solenne: or da’ trastulli
Prendi riposo; e forse ti rimembra
In sogno a quanti oggi piacesti, e quanti
Piacquero a te: non io, non già, ch’io speri,
Al pensier ti ricorro. Intanto io chieggo
Quanto a viver mi resti, e qui per terra
Mi getto, e grido, e fremo. Oh giorni orrendi
In così verde etate! Ahi, per la via
Odo non lunge il solitario canto
Dell’artigian, che riede a tarda notte,
Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core,
A pensar come tutto al mondo passa,
E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito
Il dì festivo, ed al festivo il giorno
Volgar succede, e se ne porta il tempo
Ogni umano accidente. Or dov’è il suono
Di que’ popoli antichi? or dov’è il grido
De’ nostri avi famosi, e il grande impero
Di quella Roma, e l’armi, e il fragorio
Che n’andò per la terra e l’oceano?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa
Il mondo, e più di lor non si ragiona.
Nella mia prima età, quando s’aspetta
Bramosamente il dì festivo, or poscia
Ch’egli era spento, io doloroso, in veglia,
Premea le piume; ed alla tarda notte
Un canto che s’udia per li sentieri
Lontanando morire a poco a poco,
Già similmente mi stringeva il core.

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