Paul Valéry: «L’arte ha preso posto nell’economia universale. È più ottusa e meno libera» Sab, 14/12/2013 – Il Giornale.
Anticipiamo in questa pagina una prosa inedita, di Paul Valéry (Sète,1871-Parigi,1945) pubblicata sul numero in uscita della rivista del Pen club Italia diretta da Sebastiano Grasso. Si tratta di una lezione tenuta nel corso di Poeti¬ca istituito appositamente per Valèry al Collège de France nel ’37 (mai pubblicata finora neppure in Francia); traduzione di Marina Giaveri.
Paul Valéry
“L’Arte, considerata come attività svolta nell’epoca attuale, si è dovuta sottomettere alle condizioni della vita sociale di questi nostri tempi. Ha preso posto nell’economia universale. La produzione e il consumo delle opere d’Arte non sono più indipendenti l’una dall’altro. Tendono ad organizzarsi. La carriera dell’artista ridiventa quella che fu all’epoca in cui egli era considerato un professionista: cioè un mestiere riconosciuto. Lo Stato, in molti Paesi, cerca di amministrare le arti; procura di conservarne le opere, le «sostiene» come può. Sotto certi regimi politici, tenta di associarle alla sua azione di persuasione, imitando quel che fu praticato in ogni tempo da ogni religione. L’Arte ha ricevuto dai legislatori uno statuto che definisce la proprietà delle opere e le condizioni di esercizio, e che consacra il paradosso di una durata limitata assegnata a un diritto ben più fondato di quelli che le leggi rendono eterni. L’Arte ha la sua stampa, la sua politica interna ed estera, le sue scuole, i suoi mercati e le sue borse-valori; ha persino le sue grandi banche, dove vengono progressivamente ad accumularsi gli enormi capitali che hanno prodotto, di secolo in secolo, gli sforzi della «sensibilità creatrice»: musei, biblioteche, eccetera… L’Arte si pone così a lato dell’Industria. D’altra parte, le numerose e stupefacenti modifiche della tecnica, che rendono impossibile ogni ordine di previsione, devono necessariamente influire sull’Arte stessa, creando mezzi del tutto inediti di esercizio della sensibilità. Già le invenzioni della Fotografia e del Cinematografo trasformano la nostra nozione delle arti plastiche. Non è del tutto impossibile che l’analisi estremamente sottile delle sensazioni che certi modi di osservazione o di registrazione \ fanno prevedere conduca a immaginare dei procedimenti di azione sui sensi accanto ai quali la musica stessa, quella delle «onde», apparirà complicata nel suo meccanismo e superata nei suoi obiettivi. \. Diversi indizi, tuttavia, possono far temere che l’accrescimento di intensità e di precisione, così come lo stato di disordine permanente nelle percezioni e nelle riflessioni generate dalle grandi novità che hanno trasformato la vita dell’uomo, rendano la sua sensibilità sempre più ottusa e la sua intelligenza meno libera di quanto essa non sia stata.
Commento di Giorgio Linguaglossa
Senza dubbio Valéry oggi ci appare un poeta «inattuale», finanche «illeggibile» e «conservatore», ma proprio in quanto «conservatore» e «illeggibile» la sua teoria della creazione poetica e i suoi Quaderni sono le riflessioni forse più profonde che un poeta del novecento rivolge al proprio secolo. Poi, la mummificazione di Paul Valéry a poeta ufficiale non è certo da addebitare al poeta francese ma riguarda piuttosto la storia dei costumi e della «autostima» che la Francia ha sempre avuto per i suoi artisti, fa parte della retorica di ogni Paese, così come fa parte della retorica dell’Italia la magnificazione di alcuni poeti, uno per tutti: Ungaretti, anch’egli conservatore e, probabilmente, oggi sopravvalutato.
Né Leopardi né Hölderlin si sono mai occupati nella loro ricerca speculativa del problema del «bello» o sulla «creazione poetica». Questa che potrebbe sembrare una lacuna non è invece affatto una lacuna, è la conseguenza del fatto che al loro tempo il problema del «bello» e della «creazione poetica» ancora non si era profilato, non era diventato problema, e quindi non costituiva un campo specifico di ricerca speculativa.
Le cose cambiano con Hegel, con la sua triadica tripartizione dello Spirito del mondo e della dialettica come superamento di momenti contraddittori dello Spirito. Con l’ingresso dell’«età della prosa» (dizione di Hegel) ha inizio la speculazione su il «bello», i filosofi e gli artisti cominciano a interrogarsi su ciò che è «bello» e su ciò che non lo è. Il «bello» è diventato un problema, difficile da risolvere perché la società borghese è sostanzialmente allergica e sfavorevole all’arte e al bello, l’organizzazione della divisione del lavoro e lo sfruttamento capitalistico del lavoro rappresentano un insormontabile ostacolo alla creazione del «bello». E qui la riflessione di Valéry coglie con esattezza il punto della questione. Per Valéry i mercato e l’etica utilitaristica del capitalismo sono assiologicamente ostili allo sviluppo dell’arte e del «bello», e direi anche ontologicamente. Valéry si chiede: Può esistere il «bello» al di fuori dell’economia universale?, direi di più: può esistere un’arte bella in un mondo capitalistico?, può esistere un’arte bella nella barbarie?, può esistere la barbarie senza il bello? – Interrogativi inquietanti, quantomeno che Valéry aveva sollevato con grande tempestività e acume.
Stupefacente la chiarezza delle parole di Paul Valéry, e ancor più ci stupisce la corretta e
lapidaria percezione dell’attuale stato delle cose, l’artista è diventato un mestiere riconosciuto, e chi è “dentro” si può rilassare. I fruitori del resto hanno una sensibilità sempre più manipolabile e la loro intelligenza è meno libera, funzionale al consumo, tranquilli: lo stato, l’economia ci vengono in soccorso, sempre più l’artista si adegua ai canoni richiesti, sempre più il pubblico si sente libero nel poter scegliere tra poche alternative suggerite o subdolamente imposte, la cosa che non mi spiego però è questa: siamo quasi tutti inconsapevoli e ragionevolmente felici, siamo stati lobotomizzati dalle immagini e dalla pubblicità occulta, oppure la crepa è tra l’essere fedeli alla propria arte e l’essere invece pagati e appagati dai riconoscimenti?
Eppure molti restano fuori dall’economia universale, e questo mi fa credere che l’arte ha figure genitoriali archetipiche, non morirà mai.
Né Leopardi né Holderlin si sono mai occupati nella loro ricerca speculativa del problema del «Bello». Questa che potrebbe sembrare una lacuna non è invece affatto una lacuna, è la conseguenza del fatto che al loro tempo il problema del «Bello» ancora non si era profilato, non era diventato problema, e quindi non costituiva un campo specifico di ricerca speculativa.
Le cose cambiano con Hegel, con la sua triadica tripartizione dello Spirito del mondo e della dialettica come superamento di momenti contraddittori dello Spirito. Con l’ingresso dell’«età della prosa» (dizione di Hegel) ha inizio la speculazione su il «Bello», i filosofi e gli artisti cominciano a interrogarsi su ciò che è Bello e su ciò che non lo è. Il «Bello» è diventato un problema, difficile da risolvere perché la società borghese è sostanzialmente sfavorevole all’arte e al Bello, l’organizzazione della divisione del lavoro e lo sfruttamento capitalistico del lavoro rappresentano un insormontabile ostacolo alla creazione del Bello. Il mercato delle merci e l’etica utilitaristica del liberalismo sono assiologicamente ostili allo sviluppo dell’arte e del Bello E direi anche ontologicamente. Ma qui forse mi sono arrischiato a dire una cosa grossa.
Può esistere il Bello al di fuori dell’economia universale?, direi di più: può esistere un’arte Bella in un mondo privo di libertà?, può esistere un’arte Bella nella barbarie?, può esistere la Barbarie senza il Bello? – Interrogativi inquietanti, quantomeno.