
alfonso berardinelli
(da Il Foglio 23 gennaio 2014) Si commemorano quest’anno i cento anni dalla nascita di Mario Luzi, morto nel 2005. E’ stato il più precoce, dotato, produttivo e colto dei poeti ermetici che ebbero come maestri Ungaretti, Campana, Mallarmé, Novalis. Negli ultimi tre decenni della sua vita e soprattutto, mi sembra, da quando cominciò ad aspettarsi il premio Nobel (che invece fu assegnato a Dario Fo) Luzi diventò ancora più prolifico, si investì del ruolo di “grande poeta”. Dopo il suo libro migliore, “Nel magma”, uscito nel 1963, la “verticalità” del suo stile e il suo esistenzialismo spiritualistico lo hanno spinto sempre più verso un poeticismo quasi involontariamente enfatico, dilatato, cosmologico, che aveva origine nella sua formazione tardosimbolista.
Leggendo l’articolo che domenica scorsa Carlo Ossola ha dedicato a Luzi sottolineandone il carattere di poeta morale e civile, mi sono venute in mente le mie precedenti impressioni. Se si escludono alcune zone della sua opera, Luzi tende a pensare troppo in grande, in generale e al cospetto dell’assoluto per essere un poeta propriamente morale e civile. Il fatto che come uomo e cittadino abbia sofferto per la situazione italiana, non significa che fosse capace di esprimere in poesia questa sofferenza, come hanno saputo fare, con un linguaggio più sobrio, i suoi coetanei Vittorio Sereni e Giorgio Caproni. Basterebbero le citazioni fatte da Ossola per capire che la sensibilità di Luzi si perde, o meglio vuole ingrandirsi e sublimarsi, in una nebbia di entità indeterminate, in un labirinto di allusioni e metafore che risultano nobilmente retoriche. Parla di “forza interiore” necessaria all’uomo, dice che “il volto della verità è stato offeso: per errore per ignoranza per inerzia per viltà” (la mancanza di virgole, più che esprimere un crescendo di esasperazione, aggiunge enfasi e toglie concretezza). Parla di “una vita formale, eterna” (su vita, forma ed eternità si potrebbe, o dovrebbe, costruire un’intera filosofia, mentre qui si capisce appena l’accostamento). Esorta i lettori e l’umanità intera: “Trasformatevi dolorosamente / nella vostra incipiente divinità” (suggestiva allusione a un’etica teologica da precisare).
A sua volta Ossola aggiunge astrazione ad astrazione dicendo che Luzi “come tutti i grandi poeti del Novecento ha mirato all’essenza”. Ora c’è da chiedersi che cos’è l’essenza, che cosa si deve intendere con questa parola. C’è l’essenzialità di Ungaretti, ma c’è anche quella di Montale. E Saba è poco essenziale? E Giovanni Giudici (che Ossola ha studiato) con i suoi versi umili e quotidiani, cattolici e comunisti, ha mirato o no all’essenza? Ha raggiunto il bersaglio? In letteratura e in particolare in poesia, quella dell’essenzialità è forse (con quella di realtà) una delle nozioni più sfuggenti e controverse. Ogni stile ha la sua idea di ciò che è essenziale. Ogni stile ha la sua fisica e metafisica più o meno implicite.
Mi sembra che Luzi, forse immaginando di essere sulle orme di Montale, abbia preso invece tutt’altra strada, si sia sollevato in volo verso l’inconoscibile e abbia perso, in tutti i suoi ultimi libri, che non sono pochi, la distinzione tra fisico e metafisico, tra l’esperibile e il sovrasensibile. Ungaretti (su cui Ossola ha scritto un libro) è il poeta più “essenziale” del Novecento, eppure le sue poesie di guerra (le migliori) sono sommamente circostanziate: di ogni testo si precisa il luogo e la data di composizione. Poi, con il suo secondo libro, ha inventato l’ermetismo perché non sapeva più con precisione che cosa dire.
Ed ecco i versi di Luzi che dovrebbero toccare l’essenza, mentre si limitano a nominarla: “Le nazioni non meno dei singoli / disimparano l’amore della sostanza, dimenticano / quel giro stretto di vita e volontà / che ne molò i lineamenti, ne definì l’essenza”. Mi sembra che non poca poesia poeticizzante e poeticamente nulla scritta da diversi autori più giovani, sia dovuta all’influenza di questo Luzi che vola verso l’assoluto e nomina categorie morali senza mostrare situazioni morali: che vede la vita e il mondo come “putiferio della mortalità” e il potere politico come “eterna satrapia”. Siamo nel solenne e nel vago, mi pare.
Molto meglio un articolo che Luzi pubblicò sul Messaggero il 7 gennaio 1991 e che Piergiorgio Bellocchio scelse subito per ripubblicarlo sulla nostra rivista “Diario, numero 9”. Qui Luzi parla come uomo e cittadino e non si preoccupa di fare il poeta: “Sto studiando se e come sia possibile ancora associare la condizione di italiano e quella di persona civile. Con tutti gli sforzi della buona volontà non ci riesco. Per troppo tempo la carità patria mi ha fatto velo ed ho lasciato, come altri, che lo facesse. Ma, evidentemente, non si può andare oltre un certo limite; poi l’indulgenza si trasforma prima in indignazione e rivolta, infine in sconforto e vergogna quando ci accorgiamo che, non arginata da nessuna decente e rispettata statualità, la disgregazione sociale è divenuta barbarie (…). Non ci sono solo i Sindona, i Gelli e tutta una generazione di politici che sembra avviata a una tremenda catastrofe a testimoniare lo sfracello italiano; ci sono anche i subalterni che alla loro ombra hanno trafficato, corrotto, commesso arbitrii e soprusi; e ci siamo noi che siamo riusciti a sopravvivere in questo marasma come pesci nell’acqua sporca (…). Non solo, ma ne abbiamo più o meno consapevolmente assimilato il criterio, quasi a confermare l’idea di Machiavelli che in uno stato inefficiente la naturale perfidia umana dilaga”.
Sembra proprio che la riflessione morale e un vero, non retorico moralismo abbiano bisogno di un po’ di prosa. Il più bel libro di Luzi, “Nel magma”, era un libro di situazioni, il più prosastico con i suoi lunghi versi metricamente poco definibili. E’ a quel punto che Luzi aveva trovato la giusta forma per “spingere più oltre (…) la captazione del reale e l’identità di prosa e poesia – nell’unicum della lingua”, come scrisse in una lettera a Sereni del 12 maggio 1963. Il poeta ermetico era diventato (come succederà anche a Montale con “Satura”, nel 1971) un poeta che cerca la sua epigrafe più adatta in una satira di Orazio: “… nisi quod pede certo / differt sermoni, sermo merus: se non fosse per la misura dei versi, questa non sarebbe altro che prosa”.
Dopo quel libro Luzi ha invertito la sua direzione di marcia, è tornato a quella che Orazio nella stessa satira (la quarta del primo libro) chiama “ispirazione geniale e divina” e “voce capace di toni sublimi”. Quando ha cercato di far fruttare la sua cultura ermetica giovanile dilatandola in un’epica spirituale della vita divina, quando ha voluto accendersi di un sacro fuoco, quando in epigrafe ha cominciato a mettere san Giovanni, Dionigi Areopagita e i Veda (quando ha cominciato a pensare al Nobel, se volete) Luzi ha perso la misura di poeta morale e civile e si è smarrito in una retorica frenesia da veggente.